NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolo di “Arberia” e subito riferire di luoghi dove la comunità Arbëreşë, ha disteso il proprio bagaglio identitari antico, al fine di non essere compromesso.
Lo stesso, presentato con il su citato sostantivo, a modo di Stato geopolitico nuovo, nonostante la minoranza si riconosca solo ed esclusivamente nell’enunciato di Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë.
Un esperimento storico disposto da Giorgio Castriota e, conclusosi in accoglienza e integrazione, priva di prevaricazioni o conquista di sorta, se non il solo principio di conservare la propria radice, nel confronto genuino con gli indigeni locali.
Rispolverare tutto ciò seguendo l’itinerario o pellegrinaggio dell’illustre Ibraim Kodra, si può estrapolare il compendio disegnato, secondo la metrica visiva dell’artista, un libero e spontaneo parere di credenza storica smarrita, lo stesso che denota l’accanimento profuso e conservato in quelle rive frastagliate oltre il fiume adriatico, mai mutate dai tempi e dei fatti del passato.
Kodra nasce 22 aprile 1918, a Ishëm, in Albania del nord, da una famiglia di pastori e sin da piccolo, allietava genitori, parenti e amici, disegnano sulla sabbia componimenti delle greggi con uno spiccato senso delle cose osservate, inizia così la sua avventura sino a Milano dove diventa allievo di Carrà, Carpi e Funi per poi artista famoso in tutto il globo.
I dipinti dei Katundë Arbëreşë, con grande finezza di monito, profusa dell’artista verso i suoi antichi fratelli, hanno come tema multi colore, continui abbracci fraterni, il cui unico rammarico è riversato nella forma dei campanili, con la croce in forma di luna, per ricordare cose che lui stesso non conosce e, a cui non sa dare valore di tempo e di luogo secondo l’antica e da lui mai vissuta, prospettiva di credenza.
Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato, come struttura di strumenti moderni in resta di ornamenti identitari, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna e riproposti come abusi edilizi degli anni sessanta del secolo scorso.
Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, rendono e danno misura di un abbraccio, come fanno i familiari quando si dividono e poi si ritrovano, anche se l’artista, avrebbero dovuto conoscere la piega di credenza, che costrinse quelle genti a migrare a guardia dei confini e per non soccombere.
Il grande maestro, di formazione orientale, rimane un testimone/interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, avendo il merito di coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica della terra natia.
I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.
L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, interpretando il senso delle comunità Arbëreşë, secondo una visione Guernica Arbëreşë, storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.
Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli Arbëreşë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere, non espresse in urla diffuse dai minareti, che modellarono, la tempra in terra madre, dal giorno dell’abbraccio di separazione.
L’itinerario artistico, di Kodra diventa, atto d’amore e di rammarico, verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto intravedere minareti inesistenti al posto di campanili.
Il sangue non mente e, per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria, vive gli attimi irripetibili di una Gjitonia.
Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, precisamente pollino che guarda verso lo jonio e, poi prosegue verso il tirreno, dove l’antica “Acqua Bella” scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.
Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Crati, qui vede e prende atto delle pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.
Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie.
Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della “carmina convivala”, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre la Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.
L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove osserva la piana di Sibari, dal Crati sino al Trionto, terra che dette i natali alla minoranza Arbëreşë il faro, o pietre su cui si ergeva maestosamente, l’intimità ormai senza più vesti.
Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità, sta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.
Ecco finalmente prende atto del viaggio Bizantino, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.
Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza, da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità Arbëreşë d’Italia, esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.
Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui, che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da memoria di minareto.
Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.
Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.
Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.
P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta in memoria di una nuova fratellanza.
P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello di città aperta….
P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno cinque e oltre, come il numero dei sensi……
P.S. Lo Shëshë non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….
P.S. Il Rione è Shëşë, noto in storiografia come modulo di Iunctura urbana, componimento urbano articolato in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpj), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redë).