NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – I prodigiosi eventi in continua evoluzione, che vorrebbero valorizzare ambiti e manufatti secondo le disposizioni dei Beni Culturali, sfuggono al controllo degli organi preposti, notoriamente pronti ad accogliere le allegorie della manovalanza locale, presa in prestito dalle attività agricole, silvicole e pastorali, in tempo di maggese.
Se in Italia, i Beni Culturali iniziano a essere tutelati in Toscana nel 1571, affinando ancor di più la tutela nel 1602, obbligando la popolazione a munirsi di licenza, rilasciata da giusta commissione Ducale.
Da quell’epoca un susseguirsi di leggi si affina sino decreto lgs. n. 42/2004 per i Beni Culturali e Paesaggistici e per la prima volta si giunge a dare una definizione di bene culturale, con due provvedimenti a tal fine, rispettivamente, in materia di beni culturali e di beni paesaggistici, nel 2008.
Predisponendo leggi per ogni elemento materiale, immateriale e ambientale con specifico interesse artistico, storico, archeologico, archivistico, bibliografico, etnoantropologico, nonché un interesse quali testimonianze aventi valore di civiltà.
Tuttavia per essere riconosciuti e tutelati dalla legge sui beni culturali, devono essere dichiarati tali, con giusto atto di notifica della dichiarazione d’interesse culturale storico-artistico.
Questo iter ha seguito anche il manufatto architettonico, che segna ancora oggi, l’estremo più a nord del piccolo centro antico posto lungo la strada grande e nonostante sia stato un solido riferimento per la storia e gli uomini vissuti e formati grazie ad esso, l’apparire a oggi del luogo lascia a dir poco amareggiati.
Un complesso considerato povero, sottovalutando e abbandonato nelle mani dei meno adatti, che in poco più di cinque decenni è stato condotto verso una china vergognosa, in quanto è stato dilapidato sia il valore storico e architettonico, oltre l’insieme di funzioni, lasciando nella memoria locale, esclusivamente il suo identificativo toponomastico Ka Kisja Vieter, l’evidenza sottolinea quanto poco rispetto è stato rivolto alla fabbrica e al luogo e al suo senso in forma generale.
La chiesa, nel IX secolo, quando fu edificata, divenne anche campo di sepoltura cristiano, dove la maggior parte della popolazione trovava il riposo eterno, nell’ipogeo, attraverso due botole, la prima allocata davanti alla porta principale e l’altra nei pressi dell’altare, in complesso sotterraneo, esclusiva di battezzati e cittadini illustri; di contro la prossimità esterna verso nord fuori da costruito, era il luogo dove trovava sepoltura, il ceto medio, i forestieri, le persone uccise, i suicida, gli adulteri, i ladri , i pagani, i laici di grande santità.
Senza entrare in dettagli storici e architettonici che renderebbero la vicenda a dir poco paradossale, andrebbe quantomeno ripristinano il senso e il valore dell’insieme chiesa ipogeo e campo per il riposo, oggi fuori da ogni logica di buon senso o rispetto, sia dal punto di vista religioso e sia di quello della memoria di quanti hanno fondato e fornito le solide basi culturali e religiose della popolazione che oggi vive il centro storico.
Avere nel proprio territorio un presidio religioso, il quale, senza soluzione di continuità ha consentito di pregare secondo credenze indivisibili, senza mai perdere la direzione, del IX secolo sino a oggi, dovrebbe esse un valore aggiunto, fosse solo per il dato inconfutabile che ha visto, prima soldati bizantini e poi dal XV secolo esuli dall’Epiro vecchia ed Epiro nuova, gli Arbëreshë pregare sempre con la stessa favela e melodia.
Nonostante le ingerenze e i numerosi tentativi dei Vescovi Latini, dopo il concilio di Trento, la chiesa ha sempre elevato inni greci e arbëreshë, sempre rivolti verso la madre della chiesa di Costantinopoli.
Descrivere oggi cosa rappresenta il complesso è complicato e molto difficile, in quanto dal punto di vista della credenza è stato persa la memoria del luogo, intatto esclusivamente il nome che lo lega alla santa madre.
Dal punto di vista architettonico non appare nulla se si esclude l‘orientamento del manufatto, il quale rimaneggiato nella totalità dei suoi elementi murali verticali orizzontali e inclinati, conserva tratti di muratura che andrebbe indagato per poi predisporre le misure idonee per la loro ricollocazione.
Planimetricamente è stato stravolto l’intero impianto distributivo, reso unico ambiente con l’abside rialzata, si può supporre che per l’economia con cui fu approntato il progetto degli anni cinquanta del secolo scorso, sotto la lamia del pavimento si conservino ancora le fondamenta e gli innesti che componevano la distribuzione in terna del sacro volume.
Allo stato dei fatti e degli avvenimenti susseguitisi oggi restituiscono un quadro desolante e adir poco irrispettoso delle cose divine e del ricordo dei morti.
L’ingresso principale ha perso la sua prospettava dalla vecchia strada grande; la gradinata di penitenza è stata chiusa lasciando il posto a un pino che impedisce al sole di segnare il tempo delle sacre funzioni, il volume ha assunto forme e dimensioni di un deposito e quello che più duole lo storico luogo del riposo è diventato capo di ulivo, una miscellanea di eccessi che non trova ne spiegazioni e ne commenti per il poco valore che si è dato allo storico presidio.
Oggi rimane solo qualche foto, le descrizioni di memoria, descrivendo il quadro in forme e allocamento degli elevati della chiesa, l’antica forma e le linee generali del suo contorno.
Avviare un ‘indagine conoscitiva del luogo e produrre un progetto finalizzato al rispetto delle carte del restauro, deve essere l’impegno di tutte le figure istituzionali e non, del centro abitato, escludendo ogni sorta di maestro d’ascia che possa ulteriormente stravolgere ancor di più un emblema storico locale che appartiene non solo ai residenti del piccolo casale arbëreshë, ma è un tassello indelebile del patrimonio dell’umanità.