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UN PAESE ARBËRESHË (Një katundë arbëreshë)

Posted on 20 marzo 2021 by admin

indemoniatiNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Comunemente si contano e si dice che i paesi arbëreshë siano poco più di una quarantina in tutta Italia, ma questo non è vero, infatti senza avere cognizione alcuna, di cosa siano e rappresentino dal punto di vista del genius loci, al percorso caratteristico di piattaforma urbanistica, in senso di agglomerato diffuso o città aperta, si preferisce restringe la conta, rispetto a  numeri effettivi, molto più consistenti.

A tal proposito si ritiene che nulla di più errato sia stato diffuso sulla storia degli arbëreshë, da quanti hanno preferito il mono tema idiomatico per la rileva, seguendo teorie vetuste, replicate incoscientemente da quanti non ebbero cultura verso aspetti antropologici, sociali, economici, dell’architettura minore e della storia.

Un paese arbëreshë nasce perché un luogo sicuro, dove le originari genti depositarono tutti gli elementi caratterizzanti la loro storia, ambiti paralleli dove territorio uomo e natura trovano il giusto equilibri per continuare a convivere nel mutuo rispetto e crescere secondo riti e consuetudini antiche, le stesse che non temo il tempo o gli indigeni con cui si confrontano, nel reciproco rispetto, sostenibile, dei propri patrimoni identitari.

Da quando è stato avviato  un nuovo stato di fatto analitico, in tal senso, è stato possibile determinare, migrazioni, allocamenti e modelli urbani realizzati, dagli esuli provenienti dai Balcani, in un arco temporale, che conta, poco meno di un secolo, eccezioni a parte.

Nel passato sono state numerose le figure che imperterrite seguono con ostinazione, l’inadatta semina di ricerca o di analisi storica, senza mai confrontarsi con altre discipline, perché devono  difendere concetti, illustrando atti e carte di radice notarile, in loro discolpa, come se ogni episodio della vita delle genti arbëreshë, erano certificati non  dove sono avvenuti i fatti, ma a Barcellona, Berlino, Napoli, Madrid, Venezia, Parigi, Valentia, Lamezia Terme in inverno e Catanzaro Lido in estate.

Vero è che quando si tratta o si disquisisce di minoranza storica e degli ambiti attraversati, vissuti e costruiti da arbëreshë in modo particolare, non si può e non si deve prescindere dai processi d’insediamento, residenza e resilienza, delegando ogni cosa esclusivamente a quanti  provarono a scrivere grammatiche dell’Albania da quando è moderna.

Ridurre gli atti e le vicende della minoranza arbëreshë, nota come l’unica del vecchio continente a sostenere la propria storia attraverso  idiomatica metrica canora , consuetudine e il credo greco bizantino, all’esclusivo studio dell’idioma, delegando la raccolta nelle città degli atti al altre figure è riduttivo.

Questo atteggiamento alla luce dei fatti e delle risultanze non trova spiegazione in nessun manuale di ricerca, perché esclude le forme di arte ingegno e manualità, ritenuto sia  di poco conto, irrilevante e ininfluente, per la via della ricerca..

A tal fine è opportuno precisare che ogni centro antico, di estrazione sociale e culturale di radice arbanon, elevato tra la fine del XIII e tutto il XVI secolo, è il contenitore fisico entro cui è stata depositata l’identità e ogni sheshë, ovvero, il labirinto impenetrabile dove l’articolazione del costruito, le vie, descritte dalle case, l’articolazione di crescita urbana, definiscono la culla impenetrabile.

È qui che venne creato il vurvìnaro (purpignera) dove depositare i germogli della lingua, della consuetudine, della metrica e della religione portati dal cuore e dalla mente di ogni arbëreshë 6se6nza più temere le ire del tempo, di animali, di uomini e di avversari.

A tal fine è opportuno precisare che un “Paese Arbereshe” ( Katundë) si articola notoriamente, secondo i rioni storici, quali: la Chiesa, il Promontorio, lo Sheshi e il katundè; fulcro del centro antico di ogni agglomerato, alla luce di ciò, si può affermare che i nascono in ambiti baricentrici tre la montagna e la pianura, sempre a non meno di quattrocento metri, sul livello del mare.

I quartieri sono strategicamente allocati e identicamente allocati, tale che, all’interno dei perimetri citati, ha visione diffusa, rispetto a quanti salgono la china o scende la montagna, avendo, questi ultimi difficoltà a intercettare o vedere il luogo d’insediamento, se non quando si è giunti nelle immediate prossimità.

Da ciò il costruito dei centri antichi arbëreshë, quando in seguito diventa storia, rappresentano, un libro a cielo aperto che racconta vicende, delinea il corso della storia sociale, oltre a raccontare le conquiste, nel senso più ampio, avvenute nel corso dei secoli, nel regno di Napoli, poi Italia e oggi globali al resto del mondo.

Questi naturalmente sono aspetti che non possono essere analizzati o intercettati dall’esercito dei comunemente, che pur se muniti di volontà, notoriamente non possiedono alcun titolo e tantomeno formazione, al punto che possano connettere territorio, documenti, eventi, uomini e natura per generare una traccia completa e indivisibile degli avvenimenti.

Notoriamente gli arbanon, arbëri o arbëreshe, quando lasciarono le loro terre avevano, quale missione prioritaria, la tutela della propria radice materiale ed immateriale oltre il bagaglio di credenza, che rappresentava la forza più intima del loro essere; cosi come quanti rimasero nelle terre di origine, per difendere i confini.

Gli arbëreshë questa missione l’hanno portata a termine in maniera egregia con caparbietà e senza mai perdere la rotta, tuttavia come tutte le belle storia anche questa a un certo punto ha avuto la sua deriva di tutela per una errata visione dello stato di fatto.6

E dagli anni settanta del secolo scorso si è ritenuto classificarli come Albanesi, immaginandoli come una provincia dell’impero romano, in cui  la tutela era campo esclusivo per l’idioma, abbandonando il senso della radice, preferita usarla con esperimenti sino a renderla deperibile, divenuta oggi al pari di “solanacea dal sesso fluido “.

Questi accenni vogliono essere solo un accenno della deriva che attende di essere arginata, attraverso un’indagine più dettagliata e solida, che mira a far svanire l’errato principio secondo il quale,  un paese è arbëreshë solo perché quanti vivono, parlano l’antica lingua, abbandonando consuetudini, impianti urbanistici, architettura e il modello sociale, ritenuti il ratto scenografico perpetrato contro il vicinato latino.

Nulla di più sbagliato è stata espresso dalla mente umana in campo della storia, salvo quanti comunemente immaginano che parlare di ambiti specifici della minoranza storica e come raccontare cosa accadeva nei confinanti paesi latini o genericamente mediterranei, confondendo per questo ambiti intimi e privati dei gruppi familiari allargati kanuniani, con quelli di mutuo soccorso di commarato indigeno.

Per trovare una figura fuori dalla pletora di comunemente, bisogna attendere il millenovecento e cinquantaquattro, quando nasce nel rione, lëmi lëtirith, chi dopo qualche decennio inizierà a seminare il panico all’interno delle regione storica, perché dalle ideologie dal gregge che imitava e imita ancora oggi i fratelli Grimm.

È lui che avrà modo, con dovizia di particolari storici, a dover tracciare le storiche vicende che vedono gli arbëreshë protagonisti e  rendere merito al modello di integrazione più solido all’interno del mar mediterraneo.

La ricerca di approfondimento nasce per essere condotta non come un esperimento moderno alla ricerca di notorietà, ma semplice visione multidisciplinare dell’argomento senza l’ausilio di chitarra organetti tamburi o mandolini.

La ricerca nasce perché si è avuto la fortuna di essere stati allevati in un paese arbëreshë, affianco di storici sani della consuetudine, i quali per passione trasferivano un modo di essere all’interno degli ambiti arbëreshë degli anni sessanta del secolo scorso; li dove avevano mosso i primi passi i Bugliari, il Masci e il Baffi in Lëmi Litirit.

Formato sotto la guida del sapiente padre, che lo abituò ad ascoltare prima di operare verso ogni cosa, per toccarla solo dopo averne compreso il senso e il funzionamento, e solo doo di ciò adoperarsi a renderla funzionale.

Nozioni applicate sul campo, durante la formazione di scuola superiore, coadiuvato dalle menti storiche più eccelse del paese, entrare in case palazzi e Katoj, e diventare memoria di strade, luoghi e delle pene che gli ambiti subirono perché allestiti, alle esigenze anomale e fuori luogo della modernità.

Quando poi la carriera universitaria e lavorativa lo pose, per il suo sviluppato intuito al fianco di Quaroni, Cocchia, Bisogni, de Fez, de Felice, di Stefano, e tanti altri esperti nel campo del restauro e della valorizzazione dei beni materiali, tutto divenne più facile.

Torna con la mente e applica tutto il suo bagaglio di sapienza, multi disciplinare con titoli, inizia a dare una svolta alle gratuite divagazioni, che i comunemente senza titolo riferiscono verso gli aspetti antropologici, sociali e architettonici del costruito arbëreshë.

Sopporta persino che un comune cattedratico, porta al cospetto del suo luogo natio una dubbia figura, che prima è architetto poi ingegnere e poi né uno e né l’altro, la quale avrebbe dovuto spiegare le cose che in adolescenza hai visto crescere e vedere violate da amministratori senza coscienza passione e identità culturale

Un dato rimane fondamentale, non sui può, essere esperti arbëreshë perche si conosce la lingua e si arroga il diritto di miscelarla con le divagazioni albanesi; altrimenti si termina di creare confusione in numerose discipline, che una volta innescate intorbidiscono ogni materia che disciplina una specifica identità

Oggi viviamo una stagione peggiore di quanto si potesse immaginare di vivere e peggio di così nessuno avrebbe mai voluto vedere quegli ambiti ormai senza futuro nonostante, per sentito dire, fortemente acculturati.

La sostenibilità del complicato patrimonio che sostiene gli arbëreshë oggi è nelle mani e nelle disponibilità di acerbe figure, cresciute nel frastuono di musiche senza senso, per questo, mirano a produrre istallazioni a dir poco demenziali; esperti della storia locale che nella noia più totale si armano di valige di cartone, credono di poter essere ricercatori storici, se a questi sommiamo ogni sorta di inqualificabile personaggio, che si ciba delle nozioni, interpretate male, e ripetute come facevano i bambini a natale con le poesie oggi via etere, si ritiene sia giunto il tempo di riflettere e lasciare il campo a chi merita al più presto.

Prima si correrà ai ripari, più frammenti si possono ricollocare al loro posto, restituendo forma e significato alle inadatto vestito portato male e imposto all’antico e rigido protocollo arbëreshë.

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