NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per millenni gli Arbëreşë hanno trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca, titolando il corpo umano e gli atti naturali per il suo sostentamento.
I generi che ancor oggi come un tempo hanno quale consuetudine primaria la cultura orale, senza alcun adempimento scritto grafico, non possiedono ne documenti, e ne grafiti di memoria, ma ha solo le cose locali riferite in base ai trascorsi storici e di quelli portati nel cuore e nella mente dalle terre prime parallela.
Essi sanno solo ciò che ricordano e per ricordare hanno bisogno di formule come ausili mnemonici, per questo ancora oggi in epoca globale hanno una relazione stretta con le parole profondamente diversa rispetto agli altri generi che fanno uso di sperimentazioni nuove.
Resta il dato fondamentale, ovvero, che un Arbëreşë usa l’apparato uditivo per ascoltare e non quello visivo per leggere. Tra i suoi sensi l’orecchio sarà quello considerato più importante, perché esso vive all’interno di una cultura in cui non esistono né testi scritti a mano né stampe o grafiti di memoria che non fanno parte del protocollo, infatti, il sapere è organizzato in modo tale da poter essere facilmente mandato a memoria.
In questa cultura del parlato, ogni cosa si traduce la conoscenza in pensiero o memoria dirsi voglia, espressa ciclicamente all’interno di moduli bilanciati di specifici contenuti ritmici e, per questo, deve strutturarsi in ripetizioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espressioni formulaiche, in tutto, temi semplici in forma di proverbi costantemente uditi e rammentati con facilità da una generazione all’altra.
Essi così diventano contenuto formulato e ritmico per un facile apprendimento e ricordo, in altre forme a funzione mnemonica, di pensiero intrecciato ai sistemi di memoria, che determinano anche l’unità del significato.
Nelle culture orali primarie, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa ritmica, in quanto il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista fisiologico, determinando l’unitario legame fra ritmi orali, un insieme fatto di processo respiratorio, i gesti della simmetria del corpo umano nelle antiche parafrasi aramaiche, greche e dell’ebraico.
Si racconta che questa usanza è stata utilizzata in tutte le antiche civiltà del vecchio continente, conoscessero a memoria nella loro interezza.
Tutte queste civiltà come gli Arbëreşë fanno ancora oggi passano la vita «ruminando», meditando cioè in continuazione, brani, ma tali incredibili performance mnemonica resta possibile anche dal fatto che i testi sacri si ripetono nei perimetri di credenza e sino a pochi decenni addietro come da secoli in esclusiva forma orale.
Chi di noi non ricorda i nostri genitori frequentatori assidui delle chiese Bizantine rispondere al parroco con rime ritmiche in lingua Greca conoscendone il solo esclusivo valore di credenza.
Tutto diventava un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmente memorizzabile e, questa caratteristica si sono perdute con le traduzioni nelle lingue moderne a seguito delle disposizioni Vaticane degli anni settanta.
Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmesso attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve finisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali essenziali o, per meglio dire, quinte essenziali.
Frasi, proverbi e massime del tipo «Rosso di sera bel tempo si spera», «Divide et impera», «Sbagliare è umano perdonare è divino», «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio», «Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore», tutte queste e molte altre in Arbëreşë sono facilmente reperibili nei racconti o il fraseggiare delle Gjitonie, in tutto gli ambiti vissuti dove la memoria non termina mai, perché ambito di cultura orale dove nulla si propone come occasione, ma radice del consuetudinario locale più intimo che forma sostanza di pensiero, per il quale diventa ogni cosa pensiero mnemonico, poiché la radice che segna e da tempo al parlato ereditato.
Nelle culture orali primordiali, la memoria occupa un ruolo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria solida.
La memoria diventa il custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare, in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato e sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole.
Per questo chi nasce Arbëreşë allena la mente ad essere memoria solida un insieme di Iunctura, come lo sono le strade i vichi, porte, vicoli stretti e articolati dove l’accoglienza del viandante vale se si lega al patto di fratellanza e accoglienza.