Napoli ( tratto da Conversazioni di A. e L. Sacco ) – Spesso, quando si parla di fatti dei quali si è particolarmente coinvolti, si ha la sensazione di non poter essere obiettivi o alterare la verità. Per liberarsi da questa preoccupazione basta tuttavia considerare che nel caso della progettazione e la realizzazione di un borgo rurale è frutto di un procedimento critico. Se poi questa critica sia stata impostata e condotta bene o male, se le conseguenze che se ne sono tratte siano giuste sbagliate, si potrà stabilire con un procedimento di analisi e di giudizio: il tentare un tale procedimento di giudizio da parte di chi ha partecipato all’azione, questo sì sarebbe vero amore. Volendo dunque riferire la genesi del villaggio, bisogna anzitutto distinguere due capitoli che a rigor di logica dovrebbero essere indivisibili e che invece la pratica contingente ha separato: la pianificazione e cioè la preparazione territoriale, economica e sociale del nuovo villaggio e la progettazione cioè lo studio specifico e la effettiva stesura urbanistica e architettonica del Villaggio. Naturalmente la distinzione è per forza di cose schematica e come tale è da assumere con una certa cautela: difficile infatti è il dire, per esempio, se la preparazione sociale sia tutta devoluta alla pianificazione o se in gran parte, come di fatto è avvenuto, essa appartenga alla fase di studio per la progettazione. All’atto pratico, in azioni così complesse come è stata quella per la costruzione del Villaggio, molte cose non si farebbero mai se ognuno osservasse con rigore burocratico i limiti del campo d’azione che gli sono assegnati. ln America, prima di dare inizio ai lavori per la sistemazione della vallata del fiume Columbia, si sono spesi due anni laboriosi di ricerche sociali per stabilire se i nuovi insediamenti umani dovessero essere di tipo sparso o di tipo accentrato; e la conclusione, si noti bene, è stata favorevole all’insediamento accentrato opportunamente dimensionato e dislocato. In Italia invece non c’è bisogno di fare ricerche, in Italia si procede a “buon senso”, che val quanto dire a lume di naso. E’ evidente come le incertezze che ancora sussistono sulla sorte del Villaggio siano la conseguenza diretta del metodo inverso seguito dagli enti responsabili per il quale si è, in primo luogo, decisa la costruzione di un villaggio a sollievo della situazione edilizia, quindi si è scelta un’ubicazione per esso, poi si è collegata questa iniziativa con la riforma e finalmente la si è introdotta di sana pianta nel piano per il risanamento. In altri termini dal particolare si è risaliti via via al generale mentre, come ognuno sa, la logica consiglia di fare esattamente il contrario. Ma spesso, soprattutto nel nostro Paese, la logica non è il solo fattore di cui si deve tener conto; perché, come si è detto, se lo si lascia dominare, si è condannati a restare a sedere senza far nulla di buono. Perciò, malgrado tutto, il villaggio è un risultato notevole di pianificazione da additare forse non soltanto all’Italia. In un paese, dove gli urbanisti, per fortuna senza alcun seguito, pretendono di fare gli agrari e dove gli agrari purtroppo non si fanno scrupolo di sostituirsi agli urbanisti, in un paese dove ognuno sa tutto ed al tempo stesso ognuno fa quello che non sa fare, in un paese che sta diventando inopinatamente una terra di pianificatori che tuttavia ignora di fatto a tutt’oggi l’esistenza della sociologia, in una corte dei miracoli di questo genere insomma, l’episodio merita d’essere segnato a dito come un esempio. Poichè, grazie all’assistenza assidua e intelligente della Commissione di Studio, patrocinata dall’Istituto Nazionale di Urbanistica che ha lavorato sul posto fin dall’inizio, il villaggio è pensato e fatto per i contadini che lo abitano e per le loro esigenze; perché, sia costato quel che è costato di fatica è frutto dell’intervento coordinato di più enti; poiché infine è la prima iniziativa edilizia del dopoguerra che ha affrontato il problema della casa insieme a quello del lavoro e dell’educazione sociale. Premessa questa breve precisazione sugli aspetti positivi e negativi della pianificazione del nuovo insediamento, che in un certo senso rappresentano i fattori estrinsechi al progetto vero e proprio, si può passare ad un discorso assai più sottile e di carattere autobiografico. In primo luogo occorre dichiarare che il borgo non è un fatto estetico di rilievo. Per dir meglio, chi volesse considerare questo villaggio in termini di eleganza formale, molto probabilmente resterebbe deluso e certo sarebbe fuori strada; chi volesse ricercare uno stile, potrebbe solo farlo se attribuisse a questa parola un significato estensivo. Nel progetto del borgo si è cercato di scarnire il linguaggio architettonico da ogni frase retorica, da ogni arbitrio, preconcetto, prefabbricato e convenzionale. E questo, non col proposito di arrivare alla lirica pura, al gioiello nello scrigno, all’oggetto posto sul prato; questo invece semplicemente per dare a quei contadini che avrebbero portato con sè un bagaglio di storia di migliaia d‘anni, un ambiente “pulito”, pulito da assurdi belletti intellettuali, da effimere verniciature di gusto, assolutamente frivole nei confronti della serietà dello scopo; questo soltanto per preparare un ambiente adatto ad accogliere quegli uomini, un ambiente che non fosse arido e indifferente al punto di distruggere la loro coerenza e la loro solidità interiore. Se il villaggio potesse anche soltanto in parte essere considerato come un “osso di seppia”, le intenzioni di chi ci ha lavorato attorno, sarebbero ingloriosamente e rovinosamente fallite. Di fronte a questo atteggiamento di lavoro non mancherà chi voglia definire un tale impegno di rispetto verso la personalità dei futuri abitanti, protagonisti del nuovo insediamento, come una posizione “tradizionalista”. E la definizione, come accade in genere per tutte le aggettivazioni, potrebbe essere estremamente sommaria e sbagliata o potrebbe invece cogliere nel punto giusto: si tratta solo di intendersi sul senso della parola tradizionale. Esso è uno degli agglomerati urbani più originali e più complessi del nostro territorio nazionale. Questo fatto ormai lo sanno e lo ripetono tutti. Tuttavia per poterne apprezzare il senso occorre aver assimilata una certa esperienza. Chiunque si avvicina per la prima volta a questa realtà urbana, lo faccia o no con l’organica futilità del turista di dozzina, prova due specie di emozioni fondamentalmente diverse. Anzitutto fisico, mentre è inconfondibile il disagio di una pessima camera d’albergo e di una cucina di ristorante sottilmente disgustosa. In secondo luogo, meno cosciente ma ben più tenace, l’impressione stupefacente della vita in questi ambiti, una specie di sensazione di sottofondo, un interrogativo che dura e disorienta. Lì per lì non ci si domanda nemmeno se ci sia un nesso tra l’una sensazione e l’altra e, infastiditi , si finisce con l’accomunare i due fatti in un generico senso di repulsa e di riprovazione verso questo immondo peccato di irriverenza nei riguardi della civiltà: “Che città incredibile, si pensa, che assurda e inqualificabile aggregazione di ricoveri umani!”. Invece il binomio di sensazioni sussiste e, alla luce di una nuova esperienza, si accentua e prende significato e assume quasi sapore di parabola: da un lato la nostra impressione, la reazione della nostra mentalità, questa specie di oggetto sbagliato che non sappiamo giustificare perché non rientra nei nostri paradigmi. Si torna nell’antico borgo e si impara a conoscerlo meglio e ci si accorge che la conoscenza di questo mondo ci aiuta a raggiungere una più chiara consapevolezza delle nostre impressioni fino al punto che la nostra stessa materia interiore ne è impegnata ne risulta ampiamente arricchita. E’ così: si torna e si scende ancora per gli scoscesi vicoli e quello che era sembrato un disordine inumano, impenetrabile alla nostra comprensione come l’intrico di una vegetazione selvaggia, si rivela un ordine umanissimo che aveva la sola peculiarità di essere diverso dal nostro. Quanti urbanisti e quanti sociologi cercano invano la pietra filosofale dell’unità di vicinato, cioè di quell’ideale nucleo di più famiglie che l’affiatamento sociale, oltre che il destino della convivenza, tiene in sesto; e questo fanno con lo scopo finale di ricostruire nei nuclei urbani quel tessuto connettivo che la nostra civiltà con un grave processo di auto necrosi ha inesorabilmente distrutto. Allora ci si accorge che la vita in quel luogo ameno, esempio raro, è organizzata secondo una fitta struttura di legami primari, socialmente e topograficamente individuati e circoscritti, che la suddividono in tante unità di vicinato, esattamente come un tessuto organico è diviso e al tempo stesso costruito in cellule e precisamente come gli urbanisti e sociologi vorrebbero cementate le loro città. Di questa organizzazione esistono e sono esistite a memoria d’uomo prove vitali. La crapiata ne è un esempio, la festa del cibo azimo e vegetariano, una specie di celebrazione di sapore pagano che ogni vicinato celebra a solenne convegno sullo spazio antistante le grotte delle sue famiglie. Il sistema della cottura colletti va del pane, un altro esempio, per il quale ciascuna famiglia, impastato il proprio pane in casa, lo porta per la cottura ad un forno comune a servizio di più famiglie o addirittura di più vicinati ; e gli affiliati ad un de termina to forno sono sempre gli stessi e distinguono i loro pani col timbro di un sigillo in legno d’olivo depositato preso il “gestore” del forno. Con queste e con altre confidenze, a chi la voglia conoscere onestamente questa schiva città scopre poco a poco il suo volto umano; e quello ch’era sembrato un disordine inetto, un disfatto abbandono, si manifesta come un altro ordine, un ordine diverso dal nostro e tuttavia civile. E chi se n’era andato la prima volta scandalizzato da tanta primordiale trasandatezza, capisce tornandoci che tale sentimento altro non era che la stizza boriosa di un uomo a tal punto abbottonato e incravattato in vesti ben educate, da non sentire e da non intendere più nulla al di fuori del proprio sussiego. Ecco il punto; così aveva decretato questa sciocca mentalità, essa era un’eccezione, un’abominevole eccezione che la nostra grammatica razionale, euforica, porcellanata, non poteva tollerare e quindi doveva eliminare. “Eliminare” era la parola, eliminare una città! Come se una città fosse divisibile in due parti del tutto indipendenti; da un lato un insieme di pietre diversamente assestate e dall’altro un certo numero di uomini. Come se di una città si potessero distruggere le cose e trasferire gli uomini senz’altro danno che la spesa non fruttifera di nuove costruzioni. Ecco in che modo alla luce della nuova esperienza ci si accostava al problema con altri occhi e con altra coscienza. Distruggere una città perché le sue case erano sordide e malsane e dare un asilo più isicuro agli uomini: ora i rimaneva perplessi di fronte a questa formula brutale. Poiché si sapeva dallo studio di questa città che la coerenza tra gli uomini e le cose era un fatto reale, vivo e presente nella vita di ogni individuo; era la storia di ognuno e di tutti insieme, era la sostanza sentimentale e morale che cementava quella comunità; era in altre parole proprio quella ricchezza che genericamente si designa con la parola “tradizione”; e si intuiva che era impossibile praticare un taglio crudo senza grave danno. I biologi (ed oggi anche i sociologi), grazie allo studio dell’ambiente di vita degli animali e delle piante che chiamano ecologia, sanno che la distruzione dell’ambiente spesso uccide la specie. Per gli uomini la conseguenza non è così esiziale ma è altrettanto definitiva e dannosa. Distrutto lo ambiente, spezzata la tradizione, gli uomini non muoiono, ma si sfaldano e perdono la loro ossatura morale: centinaia di borgate popolari moderne sono la prova dolorosa di questa realtà. Con questa esperienza si è affrontato il problema del villaggio, con la coscienza precisa che l’ambiente dovesse ad ogni costo essere salvato e trasferito con gli uomini, si è confrontata ogni funzione del villaggio progettato con le abitudini dei contadini fino al punto di proporre ai più intelligenti di essi una serie di soluzioni del tipo di casa e di lasciare ad essi, con la discussione dei pregi e dei difetti, la scelta dello schema più adatto, sino al punto di ristudiare l’intero progetto per inserirvi il sistema del forno collettivo. La storia della genesi del nuovo villaggio in fondo non è che questa. La parabola è semplice: nell’architettura, come in ogni forma di linguaggio, ci sono due vie, quella che dà un pretesto per esprimere sé stessi e quella che offre il mezzo per accostarsi agli altri. In certo senso la tradizione, almeno nell’accezione comune che le si da nella storia dell’arte, dall’epoca del Rinascimento, dà ragione a quelli che hanno scelto la prima via. E in tal senso non si può davvero dire che il nuovo villaggio con la sua volontaria ignoranza di voli pindarici, rientri nella tradizione. Ma se alla tradizione si dà il significato di storia, di quella storia che, povera di episodi gloriosi ed epici, nessuno scrive e che pure accomuna la nostra persona a quella degli altri, il nuovo villaggio è tradizione: poiché chi lo ha pensato, anche se possa non aver raggiunto la meta, ha seguito la seconda via.
P.S.
La lettura è dedicata a chi ha subito violenza gratuita, per colpa di coloro che, immaginando di essere stati illuminati, hanno assunto ruoli attraverso i quali sono stati calpestati i diritti dei cittadini, art. 6 della costituzione .