ROMA (di Paolo Borgia) – C’era una volta un asino. La sua vita era quella di tutti gli animali domestici. Si può dire che se la passava bene. Il suo padrone, vecchio e malato, lo teneva per sé solo per andare nel suo campo appena fuori paese. Aveva, raro privilegio, una stanza solo per sé e con l’ingresso indipendente. Qualche volta il figlio del fratello del padrone, morto ancora giovane, lo prendeva in prestito. Anche quel giorno il giovane lo prese per raggiungere il luogo dove si celebrava la Festa dei Lavoratori a quattro chilometri dal paese. Una gita per lui: Nino, il ragazzo, era magro. Come tutti, allora.
Giunti nella zona dell’evento, dopo aver lasciato l’asino nello spiazzo dove erano tutti i quadrupedi, il giovane si recò nel luogo dell’adunanza. E l’animale ne approfittò per fare una dormitina.
Improvvisamente si svegliò di soprassalto. L’aria si era riempita di crepitii assordanti, come quando esce di chiesa la processione nei giorni della festività. Però questi erano colpi di mitraglia sparati sulla folla. Una tragedia, una strage di innocenti ammazzati da un nemico vile e senza volto. L’asino sentì un fitto dolore alla pancia. D’istinto si svincolò e fuggì. Ma come provò a correre, il dolore si fece più forte. Così decise di tornare piano piano a casa sua. Trovò la porta della stalla spalancata e si mise davanti alla mangiatoia, aspettando che il dolore passasse, come le altre volte. Più tardi, giunse anche Nino concitato e agitato per la scomparsa dell’asino a lui affidato. Quando lo vide, si rasserenò e si mise a raccontare allo zio quello che era successo e di come avesse avuto paura di morire.
Due giorni dopo l’asino stramazzò al suolo, morto. Solo allora si accorsero che nel fianco che dava al muro l’animale aveva un foro di proiettile infettato. Per tutti era ‘L’asino’.
——-
Il padre pensò che fosse arrivata l’ora di staccare il figlio dalla madre e di farlo entrare nel suo mondo, quello degli uomini. Decise così che quel giorno il figlio di cinque anni sarebbe andato con lui alla Festa dei Lavoratori. Era una persona dal carattere impossibile. Litigava con tutti. In casa non parlava, al massimo urlava comandi: un orso selvatico.
Fino a quel momento per il bimbo l’idea di padre era per lui assai diversa da quella di madre. Così il bambino, quando per la prima volta si trovò solo con lui in mezzo alla folla, era intimidito, frastornato ed inerte…
Tutt’a un tratto esplose l’inconsulta guerra. L’uomo capì subito quello che stava succedendo e senza perdere tempo prese tra le braccia il figlio e si gettò per terra, coprendo la sua creatura con il proprio corpo. Restarono entrambi indenni dalla furia dei banditi e dai proiettili della mitraglia. Ma tutto era cambiato nella vita del bambino.
Poi, crebbe e andò lontano per trovare lavoro, come la maggior parte. Ogni anno, tutte le volte che può, torna a casa per rivedere la madre e quell’uomo dal carattere impossibile, che occupano i suoi pensieri. Però, quei pochi fotogrammi di una sequenza-azione nata forse più dall’istinto primordiale che dalla consapevolezza tornano ripetutamente nella sua mente, e destano i sentimenti più dolci che un uomo possa sentire. Senso profondo anche nella più insignificante delle storie umane.
——-
La ragazza si fermava a parlare con un ragazzo, che gli era simpatico. Riusciva a farlo solo mentre aspettava il turno per riempire alla fontana la ‘nxirja’ (recipiente di legno). Non c’era nessuno con cui parlare di questa nuova esperienza. La sua amica fidata si era sposata e con lei ormai c’era il divieto d’incontrarsi, parlare: il racconto della sua esperienza coniugale avrebbe potuto turbarle l’anima innocente. Con sua madre, parlarne significava non potere più uscire di casa da sola. Sì, perché il ragazzo faceva il muratore, mentre la famiglia di lei viveva del lavoro dei campi e questo costituiva un impedimento al fidanzamento: non erano dello stesso ceto sociale. Solo per carnevale riuscivano a stringersi, ballando mascherati. Poi, solo sguardi di intesa da distante e poche parole rubate alla fontana.
Un giorno decisero di ‘fuggire’ – e fuggirono con tutta la nxirja -, mettendo i genitori di fronte al fatto compiuto. Poi, l’indomani, festa del 1° maggio, si presentarono dal prete per il matrimonio riparatore. Questi li lasciò soli in sacrestia e andò a cercare i genitori e pacificare gli animi. Quando furono riuniti, i due ragazzi, messa la corona, bevvero il vino dallo stesso bicchiere. Poi ridotto in frantumi: come tutte le regole.