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STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i mëmesë pà redë thë gnë khëmbë)

Posted on 22 aprile 2025 by admin

Arazzo2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mercato della seta, raso e stoffe pregiate in Calabria, conobbe il suo massimo splendore tra il XV e il XVIII secolo.

Con mete di scambio luoghi come Catanzaro, Reggio Calabria, Monteleone (Vibo Valentia) e San Giovanni in Fiore (Cosenza), grazie alla presenza di un pregiato artigianato tessile locale, che faceva largo uso dei filamenti naturali di ginestra, cotone e baco da seta diffusamente in ogni Katundë.

Tuttavia, il declino di questa risorsa locale, ebbe inizio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a causa di vari fattori, innescati dalle vie di scambio Francofone, Anglofone e d’Oriente.

E ancor di più, quando la richiesta in queste terre, venne indirizzata alla produzione di olio per facilitare le rotative industriali britanniche, che demandavano olio e, non più filamenti di tessitura, dando avvio per questo alla estirpazione dei gelseti sostituita da uliveti.

Ben presto lo scambio divenne florido, commerciando olio a misura di “litro” in favore anglosassone che era fatto di quattro pinte.

In otre, incise anche le crisi economiche e politiche legate alla fine del Regno di Napoli e all’unità d’Italia, che mentre industrializzava il Nord, rendeva poco competitiva le produzioni Meridionali in senso generale, dove prevalevano senza soluzione di continuità, le metriche artigianali non competitive, a cui si aggiunse la malattia del baco da seta, come la pebrina, che penalizzarono, non poco, la filiera della produzione serica e dei filamenti.

Possiamo dire che il mercato del tessile di Calabria assume una forma flebile, nella seconda metà dell’Ottocento, anche se alcune attività artigianali residuali continuarono senza sosta, ma non in grado di rispondere al mercato che migra.

Da ciò l’assemblaggio di vestiti nuziali, tipici della regione strica diffusa e sostenuta in arbëreşë, si dovette rivolgere a fornitori partenopei, almeno sino alla seconda decade del secolo XIX, quando le nuove leve che ambivano ai voti clericali, iniziarono a frequentavano il “collegio romano di formazione greco bizantina”, giacché Sant’Adriano aveva trasferito le funzioni, di Vescovato e formazione Clericali, mantenendo esclusivamente la Scuola Collegiale civile.

Furono molti di questi gli aspiranti clerici, a fare da ponte con i Katundë arbëreşë di Calabria citeriore, veicolando stoffe ornamenti e decori, atti a sostenere la vestizione femminile di tradizione locale.

E anche se all’interno della Città del Vaticano, non erano presenti negozi di stoffe o merletti di pubblica vendita, era possibile trovare articoli tessili, per vesti religiose di alta qualità, nelle immediate vicinanze di Roma Capitale.

Restano note la ditta di Gammarelli, Comandini, Galleria San Pietro, Desta e Sartoria, incorniciate dal 1798 nello storico contesto di confine delle due città Capitoline, in tutto una simpatica coincidenza che rappresenta l’armadio di credenze sulla Terra, che va della casa e, lungo la via che unisce tutti gli ideali di credenza.

Tante pieghe di stoffa ben composte, che poi si ritrovano nell’abbigliamento ecclesiale e femminile delle consuetudini degli Arbëreşë.

Sorge dunque spontanea la domanda: le donne Arbëreşë dopo la chiusura della via della seta e in Calabria, escludendo la breve parentesi Partenopea, dove trovavano gli elementi che caratterizzavano il vestito tipico di donna, sposa regina della casa, vedova e vedova incerta di un tempo?

La risposta sorge spontanea o meglio, la risorsa nasce grazie ai giovani che seguirono la via della devozione nelle scuole ecclesiali vaticane e, mia madre nel corso degli anni cinquanta sino alla fine degli anni settanta usava questo canale per reperire merletti e tessiture dorate da sostituire a molti indumenti di vestizione ormai invecchiati.

Non Solo la Sarta Adelina di Santa Sofia ma molte altre, nei centri antichi limitrofi, avevano come riferimento un B. Golia locale, i quali lavorando presso il Vaticano, potevano fornire le stoffe e i merletti secondo la giusta debita misura che solo qui trovavano commercio.

In genere erano persone disponibili, preparata e consapevoli di cosa potesse intendersi per ogni richiesta, che le sarte di ogni Katundë necessitavano e, con tanta perizia e memoria del costume locale, riportavano o inviavano nel Katundë, quei frammenti richiesti e indispensabili a restaurare o in molti casi cucire ex novo, l’indumento di tradizione danneggiato o mancante, per le famiglie più legate alla consuetudine Arbëreşë.

A tal scopo torna in mente il periodo appeno giunto a Napoli per intraprendere i miei studi di architettura e offrivo, continuamente la mia disponibilità a mia madre Adelina, a reperire stoffe e fasce dorate, ma lei riteneva che Napoli non fosse eccellenza, in quanto le misure di sviluppo in altezza delle fasce dorate non avessero la dimensione in misura di palmo napoletano ma solo la meta.

Per questo doveva sovrapporre la stessa trama che non risultava essere un lavoro di mano esperta, perché, ripetizione di trama modesta.

Così anche per altri elementi che chiedeva e dandomi frammenti di tessitura, misura e coloritura, che qui a Napoli non ho mai trovato, mentre richieste a Golia, nel breve i nipoti che frequentavano il Collegio di formazione clericale a Roma portavano, il richiesto in perfetta tessitura, misura e coloritura, quando tornavano nelle festività e in vacanza, ndë Katundë.

Tuttavia al giorno d’oggi rievocare questi epici frammenti della storia del costume danno la misura delle inquietudini e i sacrifici che il governo delle donne arbereshe dovette superare per dare lustro e merito alla vestizione in ogni pregnante momento rappresentativo della loro esistenza.

immaginare che il gusto estetico di vestizione, possa ricomporre, nuove vesti di tale peso, esse non troverebbero vetrina se non in particolari momenti di giusta, falsa e ridicola rievocazione museale, come impunemente avviene.

A tal fine sarebbe il caso di avviare le rotative oleandole con olio di oliva DOP e non con quello dei refusi di lavorazione, per realizzare un’opera epocale che riunisca come facevano le vesti del governo delle donne un tempo, tutta la cultura storica ormai allo sbando e che non trova misura in nulla, se non poetizzando suonando e favoleggiando ogni cosa.

L’unica risorsa che rimane ancora viva e si può riprendere con garbo e senso, è l’arte manuale delle tessitrici Arbëreşë e, allora perché non tessere la storia, dai tempi della nascita del nostro eroe, il parlato, le consuetudini del bisogno e la credenza, senza fare nodi o alcun intreccio irregolarità di politica e cultura irregolare, in tutto “un arazzo Arbëreşë” dove si possa disporre secondo la luna ed il sole, la storia e dove evidenziare chi è dovuto migrare per non dover soccombere alle necessità di credenza di chi rapiva i figli altrui per fare discendenza di minareto.

Il tutto per essere una compilazione ragionata e precisa, a iniziare dalle dimensioni che devono essere contenute in 13 metri, per un’altezza di 89 centimetri: ovvero; la data da cui ha inizio la pena di storia Arbëreşë a cui è sempre stato imposto di fare campanili altrui, ad opera dei prevaricatori di turno e, meno adatti dirsi vogli.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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