NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando rileggo “i trattati” gli avvenimenti, le vicissitudini che hanno portato l’arberia al rapido depauperamento del suo prezioso patrimonio culturale oltre che religioso, mi chiedo come mai non ci sia stato un controllore in grado di porre un freno per tracciare i limiti oltre i quali l’erba non poteva e si doveva brucare.
L’arberia avrebbe dovuto affidarsi all’acume che caratterizza, purtroppo, pochi dei suoi sapienti uomini per non finire imprigionata in quella gabbia dorata che le impedisce di vivere le primavere negate e per questo diffuse come valje.
La rassegnazione che si millanta con la frase “non è rimasto più nulla” rappresenta il paravento che si vuole immaginare per non far avvicinare nessuno a quel tesoro che rimane nelle disponibilità segrete degli imperterriti litiri.
Dovessi dipingere l’arberia oggi, rappresenterei “Gnë Vashes Arbëreshë” imprigionata in una gabbia dorata, nelle disponibilità esclusive “dell’orco” che l’ha rapita e nell’attesa che si abbrutisca la tiene coperta affinché nessuno possa apprezzare le sue eccellenze fisiche e morali.
I floridi e ricchi territori che sino al dopo guerra erano considerati un serbatoio di cultura solidamente connessa con gli ambiti paralleli, in quanto, luoghi di un miracolo linguistico/consuetudinario irripetibile, oggi, sono diventati i territori delle leggende e delle favole che non hanno ne senso e ne luogo per identificarsi.
Troppi progetti e atteggiamenti anomali hanno visto come teatro la Regione dov’è nata la nostra, “Vashes Arbëreshë” ciò nonostante non c’è stato un protagonista che ponesse dei limiti al continuo stravolgimento culturale che ha prodotto più danni di un cataclisma.
Se a ciò aggiungiamo tutti gli avventori figli della legislazione Italiana (il picco del cataclisma) assume valori esponenziali insostenibili, motivo per il quale è indispensabile non fare un passo in dietro o di lato, ma ritengo che sia opportuno, fermarsi e pianificare un progetto che dia fine alla sofferenza che si incute alla indifesa “ Vashes Arbëreshë” che intanto rimane relegata nella sua piccola gabbia d’orata in attesa di un domani migliore per lei e i propri figli.
È tempo che la primavera accolga “ Vashën Arbëreshë” si diffonda secondo l’antico rituale della “Sapienza” e non rimanga più nelle disponibilità clientelari della politica locale, dell’incapacità culturale di alcuni dipartimenti o addirittura di chi ha fondi cospicui da elargire privatamente.
Qui si tratta di individuare chi veramente ha le capacità di cogliere il valore culturale dell’arberia, solo queste figure private (forse anche istituzionali) sono in grado di dare continuità storica, senza costringere ad assumere all’indifesa “ Vashes Arbëreshë” ruoli più umili che non appartengono alla sua nobile ed antica origine.
Uno scenario a dir poco surreale dove si baratta tutto per un momento di gloria che non avrà mai un seguito, s’innestano fiori nel deserto, si danno libri a chi non ha modo di leggere, si scambia ogni cosa per un attimo di gloria e l’incoscienza arriva a un punto tale che si compongono canzoni e non si difendono i valori materiali e immateriali di agglomerati interi (canzoni per paesi).
Tutti tacciono l’attuarsi di questo dramma epocale, tutti ridono, ballano e cantano, denotando un dato fondamentale, ovvero, che non comprendono o forse non hanno mai saputo cosa dilapidano assumendo queste posizioni di accomodamento politico/sociale.
“ Gnë Vashes Arbëreshë” non si compra, non si porta sull’altare promettendo una vita dorata, per poi chiuderla in una gabbia, pur se dorata, coprirla agli occhi del mondo con la Zoghä perché gelosi, rifinire poi quest’ultima all’interno con spine che incutono, pena, sofferenza per farla piangere nel silenzio di quella preziosa gabbia; atteggiamento oltremodo deleterio.
Se non si è in grado di sentire i gemiti di dolore “thë Vasheses”, la passione che essa ha per diffondere tanta grazia e sapienza intorno a noi, quale futuro possiamo assicurare alle generazioni che verranno; chi di noi sarà in grado di aprire questa gabbia dorata, dove è racchiusa la parte migliore della tradizione e farla volare come una farfalla ha bisogno quando verrà primavera.