NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tutti i popoli hanno un percorso evolutivo unico, sostenuto da uomini, fatti, cose e luoghi; nasce a seguito di questo principio, circa sessanta anni orsono, la mia passione per comprendere e capire la storia degli Arbëreşë.
Chiaramente non come quella interpretata da prelati, guerrieri, artigiani, contadini, naviganti, i quali, per le succulente storie locali poste in essere, non trovarono alcun giovamento, per il continuo atto di riversare cose e fare storia.
Alla luce di questi minimali principi posti in essere e, non avendo giusta consapevolezza della mancanza di contenuti nel definire la leg.482/99, che doveva risolvere ogni cosa, avendo come principio la Gjitonia come il Vicinato dove si prestano cose, lo stato in cui si trovano i paesi su citati non lascia liberi certamente orizzonti di tutela mirata.
Ha avuto inizio, per queste e altre cose che qui si preferisce non citare, il pellegrinaggio attraversò i cento e nove Katundë, più la capitale Napoli Greco Bizantina e di Iunctura Alessandrina, con il raccogliere, verificare, incrociare e confrontare in loco, documenti, materiali, consuetudini, genio e credenze Arbëreşë.
Una ricerca nuova che al solo pensiero che possa essere resa pubblica fa tremare quanti da secoli ripetono e diffondono comuni cose senza ragione e senza avvertire, quanto e come offendere chi si è prodigato riversando studi e principi di altre eccellenze.
La memoria popolare per questo, pone in essere e ripropone eventi o appuntamenti annuali, seguendo lo scorrere del tempo, dando forza alle memorie locali con riti, processioni ed eventi, che dal giorno del termine a febbraio e, senza soluzione di continuità accompagnano e mantengono vive le consuetudini della propria identità locale.
Tuttavia queste fanno come l’acqua, non seguono il tempo che scorre imperterrito e non si ferma mai, ma cambia destinazione e va per vie diverse al mare, che accoglie sempre ogni cosa che li si reca.
I riti di cui qui si vogliono trattare o discutere per comprenderli e valorizzarli meglio sono quelli che interessano la Regione Etnica Diffusa Accolta e Sostenuta Kanuniana dagli Arbëreşë.
E’ ormai da ben oltre cinque decenni che i riti e le rievocazioni, religiose e di credenza popolare anno perso ogni radice storica e per questo presentate più come momento folcloristico per il turista distratto e poco interessato all’evento e, non accumunano e riportano le genti residenti locali a una rievocazione che dia senso e agio alla propria identità che di anno in anno degenera e diventa sempre più flebile.
Gli appuntamenti di memoria culturale sono molteplici ad iniziare dal Matrimonio, le feste di credenza, il giorno dei morti, le feste patronali, il giorno dell’insediamento, l’inizio della stagione lunga (l’Estate), la fine di questa e l’inizio della stagione corta (l’Inverno) e cosi a ripetere.
Momenti di condivisione che rispettavano, rigidi protocolli dentro il perimetro di credenza e nelle sue prossimità, per poi via via essere espressione laica, ma sempre rimanendo entro un protocollo permissivo che non deve essere mai degenere o miscredente.
Tuttavia e purtroppo, il senso degenere in specie quello pubblico, da diversi decenni va per tangenti e diventa sempre più allegoria o meglio spettacolo da stadio.
Seminando così fatuo e ilarità a dir poco indecenti, e si immaginano sempre di più, a cose che non hanno nulla da spartire o vedere con la storia locale di quel preciso evento, quando si va fuori dal perimetro religioso.
Le libere interpretazioni civili, negli ultimi decenni, sono alimentate sempre meno di protocolli locali e lasciati al libero arbitrio di gesti e cose inconsulte e senza attinenza, da un vero e proprio vortice di copia inconsulto, sempre più scellerato, per fini privati o per emergere protagonisti, con l’arroganza che sia giusto riportare all’interno di un percorso intimo locale, le cose che attraggono il viandante organizzato.
Gli avvenimenti e le cose riportate, anche se hanno luogo in diverse macroaree e per altri avvenimenti, si applicano nell’inconsapevolezza, che sono altra cosa o rappresentazione, senza avere accortezza che non centrano nulla di locale cosi come riportato, perché copiato in altro luogo.
Ormai le cose sono poste, tutte in essere, non avendo come lume l’originario senso di quella ben identificata ricorrenza, ma secondo un principio moderno locale segue “discorsi nuovi” finalizzato a stravolgere la tradizione.
Tutto questo secondo una diplomatica che accomuna viandanti distratti a esecutori incoscienti locali, i quali si spera partecipi senza cuore o ragione, fanno tutto per la goffaggine esponendosi ignori del componimento e, fanno lacrimare sangue al cuore di chi conosce quell’evento locale.
È chiaro che richiamarli o redarguirli dalla platea, è un atto vano, giacché, viene inteso come consenso, acclamazione o lagna di un protagonista mancato, assumendo per questo gli attori del palco, la funzione sin anche di cattedratici o istitutori di un nulla che per loro si basa sul teorema che nessuno sa e, quindi posso essere o fare senza vergogna sempre cose più degeneri.
Cosa riassume questo stato di cose oggi stese alla luce del solo fu il cantautore Francesco Guccini, un anno prima che io iniziassi, ovvero nel 1976 a prevedere tutto quello che sarebbe accaduto e qui riporto il testo a mia misura;
Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni;
Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni (Nuova Storia);
Va beh, lo ammetto e mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia
Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato;
Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante;
Mia madre non aveva poi sbagliato a dir: “Un laureato conta più d’un cantante”;
Giovane e ingenuo ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo;
E un cazzo in culo e accuse d’arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta;
Voi critici, o voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa;
Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;
Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi;
Vendere o no non passa fra i miei rischi, non avrete mai i miei “dischi” e sputatemi addosso;
Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a “cantare”;
Godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare;
Se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie;
Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo;
Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, “io architetto” io fascista;
Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista;
Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino;
Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare;
Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?
Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento;
Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no di un qualche metro;
Compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco;
Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni;
Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni;
Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete;
Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate;
Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso;
Mi piace far “canzoni” e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso;
E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare;
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto;
Questa santa previsione, ebbi modo di ascoltarla e comprenderla subito perché il Nipote di Celestino “detto Gelèu” e dicevano a quel tempo, che avessi pure la tessa voce, e qui aggiungo solamente: Grazie Guccini, di aver previsto tutto questo; io il tuo disco lo comprai, lo diffusi, grazie il primo stereo che portai in paese nel 1976, in quella Trapeso, dove si diceva andassero i poveri di ogni cosa, a raccogliere gli scarti della mensa Arcivescovile e, nonostante ciò a nulla è servita la tua “avvelenata e il mio impegno profuso”.