NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.
In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.
A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.
Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.
A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.
E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.
Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.
Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.
Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia locali.
Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.
Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.
A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.
In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.
Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.
Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.
Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.
Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.
Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.
Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.
I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.
Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.
Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.
Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.
Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.
In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.
Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.
In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.
I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.
In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.
Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?
Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”
A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.
Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.
Atanasio Architetto Pizzi Napoli 2025-03-04