NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’intervallo primo della vita, di ogni arbëreshë è vissuto tra sheshi, rughe e sedili degli edificati vernacolari e, legano il cuore senza soluzione di continuità a queste cose pulsanti; e quando poi ti allontani, più vicino sei all’eco immortale in Arbëreshë.
Questa è la storia di tutte le generazioni nate sino agli anni sessanta del secolo scorso, poi venne la televisione e iniziò il gioco perverso, delle voci altre.
Da ciò Gjitonia, diventa prima Commarato, a fine secolo “copiatura del Vicinato indigeno” per terminare la consuetudine storica parlata, in confusionari alfabetari Albanesi.
Va rilevato che dall’inizio del secolo scorso, ebbe inizio il sogno di allestire il tema oltre adriatico, dell’impero ottomano, in attesa di essere posto a regime come previsto quando i nostri discendenti fuggirono, sei secoli orsono, per non pregare o innalzare inni in lingua altra.
Allo scopo va precisato che “La Regione storica diffusa degli arbëreshë” rappresenta il perimetro diffuso italiano, dove gli arbëreshë, conservano cose, fatti consuetudine, credenza avvenimenti e memoria di uomini in certezza viva.
Altra cosa è “l’Arberia”, sostantivo storico utilizzato a identificare i principati centro settentrionali dell’antica terra, oggi identificata come Albania, escludendo il centro Sud degli antichi governariati Arbër.
Nella regione storica, quella dei 109 centri abitati compresa la capitale Napoli, dove ancora ben oltre sessanta Katundë parlano e si confrontano in lingua Arbëreshë, gli stessi dell’esodo, 1769 al 1535, i quali caparbiamente, preferirono per non essere forgiati dall’invasore a nuove pronunzie, la via dell’esodo, in quelle terre dove con non poca difficoltà seminarono le antiche radici Arbër e Arbën.
Nel mentre dopo circa cinque secoli, apparati monastici militari a Monastir, esclusero gli Arbëreshë nel 1908, per definire una lingua comune, o standard dirsi voglia, mentre qui in Italia ci si confrontava per risolvere la questione sociale Albanese, da nuove invasioni, e per fare una similitudine più chiara: come se per definire l’alfabeto della lingua italiana i nostri letterati avessero escluso la scuola fiorentina supportata della crusca.
Prova rimane l’ironia di Norman Douglas, nel volume Vecchia Calabria, sul fatto che l’alfabeto della lingua Albanese non aveva termine, sia in quantità di lettere che in numero di versioni, superando le trenta lettere e, secondo il geniale osservatore, non avrebbe mai avuto termine, per la formazione monastica dei compilatori.
Nonostante nel 1871 un esempio valido portato a buon fine per unire un popolo di simili origini era stato portato a buon fine brillantemente in Germania con il Tedesco, gli Albanesi imperterriti cercano di raggirare, gli Arbëreshë raccontando favole.
Tutto avvenne nel breve tempo di poche stagioni, quando la Germania unita voleva avere la sua lingua ufficiale attraverso la quale la nazione si potesse riconoscere, ragion per la quale si rivolsero a due filosofi di Berlino che non era certamente monastici e, fuori da confini della loro terra madre, erano conosciuti perché raccoglievano e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca.
E questa loro attività nel 1871 gli consenti di definire la lingua Madre germanica, che secondo il loro principio portato brillantemente a buon fine doveva iniziare e avere radice dagli appellativi del corpo umano e dalle attività, le cose e la natura che consentivano all’uomo, di vivere e rigenerarsi nell’antichità.
Tuttavia i distratti compilatori monastici sistemati a est dell’adriatico, avessero saputo leggere il curriculum dei fratelli Grimm compiutamente, oggi non ci troveremmo a incutere, l’Albanese a bambini Arbëreshë in età scolare.
Certo che la storia non smette mai di sorprenderci e, pur se dall’alto qualcuno i segnali li invia, peccato che solo uno sa coglierli.
Oggi rimaniamo basiti per le attività di terminazione tra Israeliani e Palestinesi, ma non diamo peso alla violenza culturale che da est dell’Adriatico si indirizza ai bambini in età scolare dell’ovest Adriatico Arbëreshë.
Se il cuore di noi Arbëreshë, ha iniziato a battere nel grembo materno, tranquillo e sereno, per il riverbero di una lingua antica e familiare, perché alcuni oggi, arrogano il diritto di riverberare quello di madri ignote e nessuno fa nulla per il male prodotto?
Allo scopo urge un comitato scientifico che faccia fronte, a questo sopruso culturale di fine farina Albanese e, di eterna conquista, fatto della rudimentale crusca che non muta le cose e le tiene in salute, come insegnavano le vecchie scuole di medicina Salernitana.
Per concludere si vuole sottolineare che per realizzare la statua del Cristo di Maratea conferirono professionalità e contributi da tutto il mondo per realizzare un faro con luce di credenza, viene spontaneo chiedersi: perché per la lingua più antica indo europea parlata, c’è solo un cristo che annaspa nel volerla definire?
P.S. Nell’immagine i Fratelli Grimm e anche loro erano in due