NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Prima di vestire una ragazza o signora con il costume da sposa arbëreshë, invitava a casa sua il richiedente accompagnato dalla persona da sottoporre al rito, a bere un caffè o assaporare uno dei suoi saporitissimi taralli.
Questa chiaramente era una scusa o meglio una verifica per comprendere, a misura puramente visiva, se fisicamente la ragazza avesse caratteristiche fisiche indispensabili per portare quelle preziose vesti.
Molte volte si traduceva in un diniego con la scusa che erano state da poco riposte e avrebbe richiesto troppo lavoro, slegarle e toglierle dai legamenti di modellazione.
Altre volte la richiesta era accolta e nei giorni seguenti si dava luogo al lento rito della vestizione, previa raccomandazione di recarsi generalmente da Frangiska i Pasionatith per la pettinatura di base; denominata “kesheth” : un simbolico modo di raccogliere i cappelli in forma sferica lievemente schiacciata dietro la nuca, serrati con appositi nastri in cotone di colore bianco, emblema di adduzione alimentare naturale.
La ragazza nel tempo in cui aveva bevuto quel caffè, in effetti aveva superato ignara la prova fisico anatomica, denominata con gli abbreviativi in arbëreshë: ( G. B. S. e M.) senza i quali non sarebbe stata considerata idonea per la vestizione con garbo, gusto e senso del rito.
Ogni cosa doveva collimare perfettamente, niente era lasciato al caso, sino a che gli indumenti più a contatto del corpo e quelli più esterni di terzo grado, i più appariscenti, rispondevano rigidamente al protocollo della vestizione, senza l’ausilio di generiche appendici o apparati di accomodamento non consentiti, perché avrebbero snaturato sia il valore religioso e sia quello della credenza popolare.
Tutte queste regole Adolina, li aveva ereditati dai parenti più stretti della dinastia dei Basile, che avevano provveduto a crescerla, in quanto, orfana della madre quando lei era ancora una bambina.
Un compendio di elementi consuetudinari tramandati oralmente che non finivano solo con la vestizione del prezioso costume, ma con tutte le regole che accompagnavano la vita degli arbëreshë nel corso dello svolgimento del calendario Bizantino,
Orgogliosa di portare il cognome più sacro e più nobile del mondo degli arbanon, non ha mai smesso di mettere in evidenza consuetudini antiche che se non attingevano direttamente dal Kanon poco mancava, a tal proposito ne sapevano qualche cosa quando si discuteva di strade a confine con don Achille un omaccione rozzo e senza principi e maleshi, i quali voltavano i tacchi quando lei, minuta ed esile, li affrontava a muso duro dicendo, sapete bene quali sono le regole per utilizzare queste strade.
La ricorrenza dei morti, la pasqua, gli appuntamenti agresti, le consuetudini culinarie all’interno della propria abitazione e ogni ricorrenza, quali il Natale e l’Epifania erano preparate con dovizia di particolari, nel avvicinarsi della ricorrenza e il giorno dell’evento e nella fase di ricollocazione del vivere quotidiano.
Persona fine e considerata all’interno della comunità al punto tale che ogni matrimonio, ogni preparazione della residenza, degli sposi, compreso il letto matrimoniale, richiedeva sempre la sua supervisione finale, per risultare di buon gusto e garbo.
Noto era sin anche il forno di proprietà, per i manicaretti indispensabili alla settimana che precedeva il matrimonio; prima allocato nella sua vecchia casa, ka lemi litirith e poi ka Shigiona, quest’ultima residenza più raccolta, ma sito famoso per produrre dolciumi locali e per panificare.
Non si commette errore nell’affermare che dagli anni settanta e sino alla fine del secolo scorso, non ci sia stato matrimonio che non abbia visto protagonista quel forno, allestito in quel vivace ambito Sofiota, famose rimangono anche Rosina, Silvia, Sofia, Maria Teresa, Adelina, Annamaria e tante altre, registe onnipresenti per la produzione dolciaria e consuetudinaria di innumerevoli matrimoni locali andati a buon fine.
Esperta sarta del costume arbëreshë condivideva l’arte con Rusaria Pigionith e Sarafina Rikuth, non veniva indossato abito tipico a Santa Sofia se una delle tre non fosse presente, come quando negli anni sessanta venne chiesto di realizzare una bambola con vestizioni arbëreshë, queste tre insostituibili figure, per meglio produrre il singolare componimento sartoriale, ( il primo manufatto in miniatura sartoriale a impronta dell’arte del cinquecento napoletano) non si chiusero nel protagonismo locale, ma coinvolsero tutto il paese, per produrre il migliore manufatto condiviso, ma i più eguagliato a Santa Sofia e in ogni dove.
Richiesta quando si voleva ben figurare per la rigidità del consuetudinario arbëreshë e stata lasciata sola quando si è trattato di applicarle nel suo guscio familiare, chissà se si sentirà ripagata da lassù, nel vedere in seguito dibattersi chi le diceva di esserle amica, alle prese degli stessi adempimenti per i quali, fu lasciata sola.
Lei era mia madre Adolina i Congòrelith, un esempio di cui IO! Sono Fiero.