Napoli (di Atanasio Pizzi) – La storia la scrivono i vincitori, il tempo poi lentamente consuma le spigolature e rende la visione dei fatti chiara e priva di ombre.
Gli scritti storici, tendono a giustificare i vincitori, arricchendo con dovizia di particolari gli scontri, la sopraffazione e le pene inflitte ai vinti che non terminano mai di essere oggetto di giudizio dei vincitori e i loro sottoposti.
I vinti, oltre a soccombere materialmente, sono obbligati a rinunciare ai propri principi morali, senza che alcuno produca una nota sui motivi per i quali è stata scelta la via dello scontro.
Quanto qui di seguito viene esposto racconta di un antico e caparbio popolo, gli arbëri, i quali facendo leva sulla solidità identitaria, certi di innestare la propria radice culturale su nuove terre parallele, sopravvalutarono, purtroppo, quanti avrebbero dovuto produrre i nuovi recinti per la difesa dell’immateriale in loro possesso.
I vinti arbëreshë dal XIV secolo, (dopo la morte del loro condottiero Giorgio Castriota, secondo quanto afferma Giovanni Fiore da Cropani, “volgarmente denominato Scanderbeg”), furono accolti nei territori dal Re di Napoli, per rifiorirli e nel contempo controllare Roma e i baroni ribelli.
I profughi diedero avvio al loro illusorio percorso di tutela, prima abbandonando quanto di materiale possedevano, attraversarono mari e poi risalirono le chine delle colline meridionali, alla ricerca degli ambiti paralleli alla terra di origine, portando le cose immateriali più intime, compreso l’alias della medaglia a due teste, di matrice turca Scanderbeg.
Questo fu il primo grave errore subliminale sottovalutato, che ha dato la misura dell’ingenuità dei profughi, i quali, scappavano dalle loro terre per non essere sopraffatti, inneggiando al nome turcofono del condottiero da seguire.
Forti di quanto era rimasto impresso nella loro mente, s’illusero che sarebbe stato sufficiente attraversare nuovi territori e una volta bonificati quelli per vive, sarebbe iniziata la loro parabola di pace e prosperità.
Purtroppo non è stato così, infatti, dopo un’intervallo di confronto con le genti indigene, gli antichi abitanti della odierna Albania, (gli arbërë) immaginarono che la disfatta in terra madre, ad opera dell’invasore turco, fosse terminata e la via verso la libertà di culto e di pensiero, secondo gli antichi dettami, non avrebbe più avuto chine da superare.
A ben vedere e con il seno di poi, così purtroppo non è mai stato e neanche per un battito di ciglio, in quanto, prima la deriva religiosa imposta dai latini, poi, l’ostinazione di imporre una scrittura, in seguito, l’imposizione di svuotare la metrica del canto e riempirla di poesia, hanno portato le genti della regione storica arbëreshë, a compiere un “cerchio di tutela culturale” che li ha riportati nello stesso risultato da cui si erano illusi di sfuggire sei secoli, ormai sono.
Una vicenda paradossale che se analizzata con dovizia di particolari storici, senza alcuna forma, politica o clericale di parte, si potrebbe definire la beffa storica.
I motivi e le tappe che descrivono questa parabola illusoria, in quanto gli Arbëri miravano a quanto qui si seguito elencato:
- Non soccombere alla pressione di una religione dissimile dalla greco ortodossa;
- Non assumere consuetudini ignote fuori dalle regole degli stradioti riassunte nel Kanun;
- Non parlare attingendo in modelli scritto grafici;
- Seguire esclusivamente la propria metrica canora;
- Tutelare i propri usi e costumi;
- Tutelare ambiti del costruito storico;
Non serve molta conoscenza della storia arbëreshë, per rendersi conto che questa è la realtà che non dovevamo vivere e nonostante tutto viviamo a dispetto di ogni principio per il quale fu scelto l’esilio; ed è per questo che risulta facile segnare il punto a chiusura dell’ironico cerchio, che poi è lo stesso punto dei calori sociali da dove eravamo partiti, a conferma di ciò si riassume ogni cosa nelle note seguenti:
- I profughi arbëri una volta stabilitisi nelle terre a loro assegnate, secondo uno schema ben ideato dai re Aragonesi, furono subito al centro dell’attenzione della chiesa, che per la perdita di risorse economiche, faceva leva sui riti dissimili a quelli latini e nel tempo di pochi decenni fece volgere le preghiere non più verso oriente; già alla meta del XVI secolo, di cento comunità arbëreshë, se poco più di venti sono state parzialmente graziate lo devono all’infinita crociata che Roma attende ancora di architettare.
- Dopo questa prima fase nasce il plesso per la modellazione di prelati, per imporre lettere prima greche, poi latine, poi il mix di alfabeti che hanno fatto sorridere tutta l’Europa culturale e la grande massa degli arbëreshë che miravano al progetto di fuga, preferirono mantenere le distanze da questa blasfemia culturale.
- Intanto le vicende culturali poste in essere spezzano molte tradizioni storiche, anche se le masse in maniera palese non avvertono materialmente nessuna ferita che si può ritenere tale; così si protrae sino a dopo la seconda guerra mondiale, quando la tendenza di caratterizzare gli ambiti costruiti, a seguito del boom economico, avvia a una deriva che nel corso di pochi decenni fa ritornare le genti della regione storica nelle stesse condizioni, cui sei secoli or sono cercarono di divincolarsi.
- Nei fatti analizzando gli elementi materiali ed immateriali su cui oggi si regge la storica regione, si nota facilmente che sono mutate tutte le consuetudini laiche e clericali, secondo disciplinari alloctoni e non trovano ragione di essere in nessuna delle consuetudini arbëreshë.
- La lingua imposta e proposta, mira a quella skiph di radice e metrica turca, oltretutto irrispettosa del fatto che noi arbëreshë siamo gli unici detentori della radice originaria.
- L’inesperienza di caratterizzare gli edificati e gli ambiti urbani ha impresso una deriva folcloristica paradossale, facendo apparire come il luogo di costumi e costumanze tipiche o riferibili alla radice turca, se poi a questo associamo le feste, le sagre, le danzate del ventre in costume, associata a sventolio di fazzoletti, il ritratto dell’harem è completo; asi vuole ribadire il concetto di “ritratto”, giacche, se si volesse riprodurre una rappresentazione filmica, la tragedia per gli arbëreshë sarebbe completa, in quanto le sonorità di tamburi, clarinetti e vocalità sono la conferma che pur essendo fuggiti e allocati lontano dalle regioni di matrice imposta, gli emissari culturali inviati dai mandamenti turchi, hanno saputo fare un ottimo lavoro di piegatura all’interno dei nostri katundë, quella piegatura culturale, consuetudinaria, metrica e religiosa da cui pensavamo di essere sfuggiti.
Complimenti ai turchi e in particolar modo a tutti gli “emissari” che pur di apparire, hanno venduto l’anima e il “buon cuore” della loro memoria.