U.K .(di Atanasio Basile Pizzi) – Quando si indossa uno dei vestiti nuzioli caratteristici delle macroaree della regione storica Arbëreshë, è indispensabile, a meno di non voler giocare con le proprie radici culturali, sapere che quell’atto riassume la storia, il presente e il futuro di un popolo, che rimane legato a un’identità culturale, tramandate attraverso quella vestizione e i conseguenti gesti di portamento.
Avviare una trattazione e indicare cosa sia auspicabile fare e non fare, sarebbe troppo semplice e conveniente per quanti si addobbano, dicendo di vestire “stoljith Arbëreshë” e non lo fanno, anzi, per ogni figura di genere vestita bene, ne corrispondono almeno una dozzina “ghë setë”, senza garbo, coerenza e completezza dell’ apparire.
Il costume tipico è la trattazione di valori cristiani e pagani profondi, un messaggio per lo sposo e le genti della comunità, è credenze in ordine di valori inscindibili.
Il giorno delle nozze, un tempo, rappresentava l’inizio di una nuova generazione, un nuovo gradino aggiunto all’ultimo dove si stazionava, il passaggio di testimone di valori e credenze antichissime; il costume è la vetrina di tali auspici e le movenze davano il senso della vita e la via migliore per affrontarla.
Queste sono state da sempre abbarbicate e sintetizzate nella scelta delle stoffe e dei colori, la manifattura di ogni elemento, ogni piccolo particolare indispensabile a coprire il corpo della donna; essa rappresentava la natura, la terra florida per generare, gli indumenti rappresentavano la storia, ogni suo gesto era messaggio, un invito a produrre ed augurare domani prolifici, per il gruppo familiare che andava a formarsi, sintetizzati dal manufatto che veniva valorizzato dal modo in cui veniva indossato ed esposto.
Zoga, sutanini, gipuni, merletto, Kesa, shiali, le mille pieghe, i ricami, la scelta dei colori predominanti e ogni genere apparato o episodio sartoriale/artigiane indossato è messaggio.
Tali rimangono le gesta di piegare, l’arrotolare o il posizionare le vesti prima, durante e dopo la funzione religiosa.
Ogni cosa ha un senso e un tempo attraverso il quale apparire in forma pubblica o privata, certamente non è coerente ad esempio alzare la zoha davanti al marito, mentre si è sull’altare della chiesa davanti al prete, l’ “indumento arrotolato” non va posto mai pubblicamente in quanto è indice di fertilità pronta, piacere da condividere, intimità estrema; cosi come non si deve mai, pubblicamente sollevare il “padre” che non deve essere usato con imprudenza, facendo intravedere il bianco candore della “ligna”.
Cosi come le bretelle del “Suttanino” non si devono intrecciare o stare sullo stesso piano di quelle che sostengono la “Zoga” ne tantomeno indossare un “Gipuno” corto che non descriva le linee tipiche della doga pontificale, la stessa sibtetizzata attraverso linee costruite tra la parte sommitale del capo e la costruzione della pettinatura su cui va depositata la “Kesa”.
Questi sono alcuni dei messaggi che il costume tipico Arbëreshë, deve inviare e purtroppo non avendo consapevolezza di cio che esso conserva gelosamente nelle diplomatiche create dai saggi esecutori di quelle vesti, è come possedere una ricchezza inestimabile e nel contempo vivere in un’isola i cui conviventi sono generi che attendono solo di agredirti, al fine di cibarsi delle povere resta.