NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Il fenomeno del latifondo ha avuto grande rilievo nell’Italia centro-meridionale, nell’assegnare grossi possedimenti e produrre semplici colture, prive di un qualsivoglia modello innovativo seminativo, preferendo molto spesso il mero fine del pascolo.
I proprietari spesso si curavano solo di garantirsi una buona rendita per consolidare il titolo di proprietà.
L’attribuzione territoriale dinastica, particolarmente diffusa nel Meridione, con l’abolizione della feudalità, peggiorò la situazione per via dell’aumento delle tasse e la riforma agraria del 1950, restrinse i possedimenti superare a 300 ettari (3 km²); a memoria di ciò rimane l’esempio dei terreni agricoli abruzzesi della Piana del Fucino, un latifondo di oltre 14.000 ettari (140 km²) che fu diviso tra 5.000 famiglie di contadini.
Riversare questi parametri di latifondisti nella coltura della regione storica arbëreshë, non si compie errore, ne serve molta immaginazione per comparare i circa 3.500 km², ancora oggi suddivisi tra i quattro mandamenti di Sicilia, Calabria e Basilicata; Campania e Abruzzo; Molise e Puglia.
Quattro famiglie note per l’ostinata consapevolezza di seguire i dettami della deriva che storicamente ha reso fallimentari i latifondi.
I proprietari territoriali per evitare di essere estromessi, dai possedimenti colturali, hanno preferito fare terra bruciata verso quanti miravano verso nuovi stati di fatto e partecipare al consolidamento storico culturale di quei territori e farli emergere dalla nebbia che li avvolge e li consuma.
Occupare un territorio non vuol dire possedere il Sacro Graal per il suo bene, ne tanto meno essere i detentori dei libri sacri; i latifondisti nei fatti non sono altro che i detentori di fotocopie monotematiche, con le quali non sono in grado di fornire alcuna dignità produttiva a un territorio, che mentre loro si distraevano nei palazzi del potere, diventato regione storica.
In definitiva quattro famiglie monotematiche che si possono raffigurare in sofferenti figure predisposte in fila indiana e quanto il primo della fila inciampa, diverrà un rito per gli altri al seguito; essi sono cosi legati alla consuetudine di movimento che ormai dagli anni settanta del secolo scorso non producono più nulla e per il sostentamento del loro cammino, riversano vino da una bottiglia all’altra senza rendersi conto che è diventato pessimo aceto.
Ritenere che la regione storica non sia possa essere considerato altro che un latifondo dove pascolarvi pecore e bovini, è un atteggiamento irresponsabile specie nei tempi che corrono, in cui, il bisogno di coltura delle nuove generazioni è una emergenza improrogabile.
Si potrebbero aprire stati di fatto unici nello scenario politico, sociale e delle inquietudini odierne, in cui le vicende con protagonisti gli arbëreshë, (che non sono albanesi secondo il teorema dell’etnocentrismo), potrebbero diventare un esempio da seguire e da emulare per i processi di integrazione in atto e di cui non si conoscono risposte.
Smettiamola di ostinarci a scrivere il lingua standard per gli arbëreshë, (pascolo) in quanto è più costruttivo (seminare) rendere nota la storia di uomini unici che hanno reso possibili le parole con cui il presidente S. Mattarella, si è rivolto, lo scorso sette novembre a San Demetrio Corone alle genti della regione storica (che non è latifondo arbëria): Gli arbëreshë, costituiscono una storia di integrazione e accoglienza che ha avuto pieno successo un esempio di come la mutua conoscenza e il reciproco rispetto delle culture siano strumento di crescita per le realtà territoriali e per i Paesi in cui le diverse comunità sono. In preservazione delle antiche origini, la reciproca influenza, la fusione armonica di lingua, cultura e tradizioni, sono state nei secoli e sono ancora oggi il “valore aggiunto” di queste comunità. Realtà che svolgono un’essenziale funzione di ponte tra i due “popoli di fronte”, come spesso ci si riferisce ad Albanesi e Italiani”.