Napoli – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il revisionismo mette in dubbio ogni cosa e, costruire la memoria è un impegno che non deve essere mera memoria tramandata o lasciata nelle diponibilità dei comuni viandanti locali.
Esiste una Terra dove la popolazione oggi vive in dormiente attesa, nel prodigarsi a sviluppare l’inopportuno servilismo di riconoscenza, nei confronti del nero impositore economico di turno.
Ed è così che si smarrisce, si abbandonando e ci si inchina ad ogni, sorta di memoria, compilata con fatui ideali, che rendono gli uomini e un luogo, esempio di sgradevole progresso scambiato per cultura e consuetudine locale condivisa.
L’attuale congiuntura sociale di restrizione, fa emerge con prepotenza il potere o forza strutturata come plasmare attivamente le dinamiche sociali, culturali e persino etiche e di credenza in questa “lunatica società nascente”.
E con sempre più risalto, si manifesta la forza dell’apparire, dell’individualismo egocentrico più estremo, plasmando e modellando sempre di più il paradigma culturale dell’esaltazione del singolo/i a scapito della collettività, vive e sostiene la mente con il fatuo collettivo più degenere, a scapito della farina e della crusca che poi sono gli ingredienti più salutari per tutti i generi, perché risultato dell’operato condiviso di uomo, natura e territorio.
A questo stato di fatti e cose senza alcuna radice riconosciuta, è la deriva più invasiva, che erode progressivamente le coscienze locale, la quale una volta istituita, senza ragione di comune progresso e convivenza, si espande e rende tutti più soli dalla realtà delle cose.
Il risultato della deriva che poi è strutturata nella struttura sociale e di credenza induce a condividere interessi e obiettivi politici, sempre più flebili, indotte dalle logiche del mercato globalizzato e dalla centralità narcisistica a tutti i costi.
Il potere economico e di credenza, nella egocentrica espansione e deregolamentazione, agisce come agente corrosivo e, rende sempre più labili le consuetudinarie barriere di bene comune.
A capo della deriva si dispone il processo che vuole marginalizzare le specificità culturali di luogo, devastando le tradizioni locali e i quei sistemi consuetudinari di antica radice, ritenuti dal potere economico non possibili da allineare con le imperanti logiche del profitto e della non efficienza.
In questo contesto, la sistematica abolizione di ogni figura o atto di classe, non è un effetto collaterale, bensì una condizione funzionale alla perpetuazione di un sistema che prospera sulla competizione individuale e sulla dissoluzione delle identità collettive che sono state storicamente antagoniste a questa nuova deriva imperante, analfabeta e sgrammaticata.
Le istituzioni culturali e sociali, un tempo depositarie e dei solidi modelli culturali egemonici e di paradigmi di pensiero strutturati (siano essi scientifici, filosofici, letterari e di credenza), appaiono oggi in una fase di progressivo adeguamento alla sottocultura di massa, che si espande senza limiti, evitando ogni forma di ascolto tra adulti e giovani in evoluzione.
La Chiesa, la Scuola, l’Università e le Associazioni, un tempo erano o meglio rappresentavano il sole di un’alba che durava il tempo della luce “alta e memorabile” e, oggi cedono alla pressione di una cultura popolare e mediatica che privilegi di “restanza senza ascolto” ma pronte ad essere impotenti divulgatori, inclini alla mera spettacolarizzazione effimera che fa “luna crescente buia e immorale”.
La trazione che un tempo sosteneva la culturale non risiede più nei modelli delle storiche figure intellettuali, oggi genericamente ignote e la “restanza” si mantiene ben distante dall’ascolto dei protocolli tradizionali, colmi di consuetudini e metrica che consente prima di tutto il verificare cose reali dal fatuo.
Infatti lo stato delle cose privilegia l’attrattività pervasiva e la capacità di aggregazione di masse disposte ben lontani dai cunei della cultura che sviluppava i suoi frutti secondo le stagioni del germoglio, la fioritura e i frutti ben maturi da cogliere nel corso della “stagione lunga”.
Tutto questo induce le persone a disporsi perfettamente allineati, pur di non rimanere ai margini di questo “fantasma culturale moderno” che nasce si sviluppa o cresce al buio della “stagione corta” la stessa, facilmente identificabili nel mercato dell’intrattenimento, che ti rende un giullare senza corte o pagliacci senza un circo equestre.
Tuttavia resta un dato, ovvero: se un asino va in una reggia, non è l’asino a diventa re, ma la reggia a diventare stalla; questo è un modo di dire ricco di significato, usato per sottolineare che non basta mettere qualcuno in un contesto prestigioso o elevato perché assuma automaticamente le qualità adatte a quel contesto.
Anzi, spesso accade il contrario: è il contesto stesso a decadere, adattandosi all’inadeguatezza di una ben nota e specifica figura di genere.
In parole povere: se metti una persona rozza, ignorante o incapace in una posizione di prestigio o potere, non sarà lei a migliorarsi, ma sarà l’ambiente stesso a perdere valore.
Tuttavia, allo stato delle cose sono le istituzioni stesse a mostrarsi grandi per una crescente volontà di avvicinare questi modelli culturali “bassi e senza alcuna radice culturale alta”.
Si assiste a un rovesciamento della dinamica tradizionale e, se un tempo la cultura egemone imponeva i propri valori canonici e, la sottocultura rimaneva un fenomeno periferico, oggi, nell’era della globalizzazione e del primato del potere economico, è quest’ultima a dettare la linea di sviluppo secondo la misura che storicamente non genera cultura.
La museificazione, amplificata dalle logiche del sistema economico, si configura come un vento capace di penalizzare cultura/religioni e, pur se la sua azione non sembra di efficacia tale da velare ogni cosa essa è capace di lasciare gli orizzonti liberi, deformandoli con echi e miraggi riverberati e senza regola.
La spinta dell’omologazione di gusti, comportamenti e credenze conduce a un progressivo affossamento di quelle forme di pensiero che storicamente hanno reso migliori gli stati le cose e gli uomini.
In definitiva, il massificare o museificare le cose, alimenta il sistema economico che privilegia l’individuo che fa uso di questi prodotti di materia ed immateria del profondo cambiamento, la stessa che poi si riverbera seguendo la luna piena e mai il sole.
E se prima esisteva un regno dove il sole non tramontava mai, la globalizzazione ha creato un regno dove a non tramontare mai è la flebile luce della luna, che non ha mai fatto giorno.
Tutto questo è facile da intercettare in tutte quelle ricorrenze o momenti condivisi e, quanti dicono di voler valorizzare la “Regione Storica diffusa e Sostenuta In Arbëreşë” poi termina solo in penosi atti dell’apparire e con messaggi di sottomissione, esponendo cavalli e cavalieri, che non guardano mai dove nasce il sole, ma solo dove la luna si presenta indegna ad illuminare.
A tal proposito valga la citazione secondo cui per globalizzare, appare concretizzando forme delle quali i midia in senso generale è bene elevare i Katundë, tipici della minoranza arbëreşë, cosi come per altre culture, l’identificazione dei luoghi costruiti del bisogno vernacolare, tradotti in Italiano, in Paesi, Contrade, Frazioni, Porti, Approdi e Golfi di accoglienza, oltre ogni genere del costruito di epoche e luoghi.
In tutto quella che venne appellata il tempo del lume in risalita, identificati ed offesi con l’appellativo di “Borgo”, in senso di “bovari medioevali”, ovvero il tempo della luna calante che piegava ogni genere umani in ogni dove.
Il tempo dell’oscurantismo e della società fatta di piramidale gestione, il luogo dove l’uomo veniva misurato per essere collocato nel suo cerchio infernale di pertinenza, in favore solo del principe castellano e la sua discendenza, poteva decidere chi poteva e non doveva progredire.
Solo i media, figli della sottocultura si arrogano il diritto di istituire o allestire, addirittura un festival, dove ed essere privilegiato è solo ed indiscutibile “Borgo dei Borghi” che non ha mai fatto la storia dei generi tutti, preferendo quella di alcuno.
Per concludere si vuole sottolineare le ricostruzioni storiche che si attribuiscono alle ballate tipiche che segnano l’inizio della stagione lunga, il sole che sorge e mette la luna in secondo piano.
Peccato che anche per questa rievocazione che nessuno ha mai relazionato e per questo ignaro del valore linguistico di questi momenti di giubilo comune.
Purtroppo poi tutti terminano in concerti di cornamuse, strumenti a mantice e corde, che tutte assieme, fanno il patibolo delle cantate di genere degli Arbëreşë, che non sono i modernizzati Albanesi o Albanisti dirsi voglia.
Atanasio Arch. Pizzi Napoli 2025-04-24