NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Le annotazioni esplicite di fatti storici attinenti gli insediamenti, la vita, le attività, i rapporti delle comunità albanesi con i territori dell’Italia meridionale sono indubbiamente molto limitati nel loro numero, poiché lette in ambiti ristretti, vogliose e desiderose di apparire come protagonisti e primi attori di filmiche finzioni, dimenticando che la storia è altra cosa.
Ciò vale tanto nella storiografia delle comunità e della cultura autoctone quanto, e maggiormente, nei documenti e nelle note prodotte dai soggetti della stessa comunità minoritaria.
La mancanza in tali fonti documentali di espliciti riferimenti o contenuti attinenti la comunità arbëreshë non implica però la impossibilità a costruire (o a ricostruire) taluni passaggi o circostanze della sua presenza sui territori nei quali si è insediata.
Non nascondo di essere rimasto molto impressionato e stimolato dalla lettura delle due seguenti frasi:
– “La storia può essere ricavata da ogni parte”
– “Si studia la storia per capire se stessi”
Mi hanno fatto pensare che, forse, oltre le “fonti storiche canoniche” avrei potuto trarre suggestive ed utili indicazioni da un largo ventaglio di documenti, racconti e cartografie attinenti gli agglomerati, con il fine di formulare ipotesi verosimili sulla storia dei loro insediamenti.
Per far ciò è bastato intrecciare e collegare tra loro elementi non immaginandoli privi di nessi comuni ma, bensì, come circostanze diverse del manifestarsi della nostra comunità.
Valga di esempio una mia ricerca secondo la quale i Principi Sanseverino di Bisignano, che della tragedia e tragica vicenda vissuta dai profughi Albanesi, seppero fare di necessità virtù.
La comparazione delle capitolazioni a cui furono sottomessi gli esuli e individuando nella disposizione planimetrica i paesi di loro pertinenza in Calabria Citeriore, è apparso evidente che alla base di tutto questo c’èra un piano ben definito dai principi bisignanesi, finalizzato ad ottimizzare le terre del principato e nel contempo accogliere gli albanofoni.
Questi ultimi, oltre a rendere con la loro operosità le terre più produttive, apposero solida limitazione alle continue e bellicose incursioni vandaliche provenienti da Oriente.
La disposizione a “V”, descritta dai centri di etnia albanofoni adagiati nelle valli dell’Esaro e del Crati, non si può dire che sia casuale, a mio parere fa parte di un impianto militare di cui i Principi di Bisignano, in questa antica arte erano esperti conoscitori e da molte generazioni.
Il confronto delle capitolazioni nelle quali non si offriva la certezza di un luogo, ma zone ben definite, le regole unitarie a cui erano sottoposte le genti di Albania, oltre le disposizioni planimetriche dei centri, mi rassicuravano per il buon esito della ricerca.
La metodologia preposta dai Principi Sanseverino, faceva parte delle strategie delle ronde militari, queste ultime dovevano muoversi all’interno di un perimetro ben definito, tale che fungessero da deterrente per gli eventuali incursioni.
Appare evidente che se ad operare il controllo del territorio fossero le genti di Albania, il che rappresentava un marchio di garanzia, visto che la loro popolarità nei meriti della difesa del suolo, in senso lato , andava ben oltre i confini europei.
Il fine che perseguirono i Principi di Bisignano, era quello di accogliere le genti di Albania e valorizzare e rendere più sicuro il loro territorio, per le caratteristiche che rendevano unico questa popolazione: la capacità di vivere in gruppi familiari bonificando adeguatamente i siti nella assoluta autonomia, oltre alla grande coesione, che erano capaci di organizzare, qualora si fossero trovati a difendere loro stessi e i territori presidiati dai gruppi.
Questa mia ipotesi, poco tempo addietro o meglio nel corso del 2007, così come adesso esposta, ho avuto l’opportunità di metterla al vaglio per cercare di avere riscontri, confronti e conferme; di contro raccolsi, sorrisi ironici e dinieghi assoluti poiché non esistevano documenti su cui era esplicitamente esposta la mia teoria.
Essere deriso da chi a distanza di anni esplicitamente espone come propria la mia teoria mi fa capire che le vicende storiche degli albanofoni non sono state adeguatamente studiate ed interpretate da chi ne ha veramente titolo.
La storia non ha mai avuto documenti unitari ed espliciti atti a rievocare l’iter perseguito, ma sono gli uomini che devono saper leggere, tra le pieghe dei reperti, il giusto riscontro.
Partendo dal presupposto che la sTORIA non la può raccontare chi si reca meramente negli archivi, siano essi di Napoli, di Tirana, di Barcellona, di Parigi o quelli più suggestivi Vaticani, poiché se non si è in grado di interpretare il raccolto, i frutti diventano oggetti di arredo, o forniscono il risultato di vaneggianti interpretazioni.
Penso che quando si afferma: gli albanofoni non hanno tradizione scritta, questo scaturisca dal fatto che per ogni generazione che l’ha prodotta, c’è stata almeno una che si è adoperata per disperderla, valendo la regola: è sacro operare in un numero di componenti, sempre, dispari e che non siano mai maggiori di uno!
La storia degli albanesi e la loro integrazione nelle terre del Regno delle due Sicilie, se adeguatamente messa in luce poteva essere di esempio agli statisti degli ultimi decenni, e risolvere in modo più adeguato le instabilità scaturite dalla globalizzazione e dalle incertezze economiche, le quali hanno innescato nuove migrazioni e le conseguenti emergenze epocali.
Rievocare come siano riusciti a rendere produttivi i terreni paludosi ed incolti dopo il loro arrivo nel XVI secolo, oppure come nel secolo successivo, dalla decadente struttura del collegio Corsini abbiano saputo ricostruire l’oasi della cultura del meridione d’Italia, nel convento di Sant’Adriano o quando i figli d’arberia ebbero l’opportunità di frequentare l’Università partenopea e divennero esempi unici nelle discipline letterarie, scientifiche divenendo luminari di spessore, poteva essere un esempio e un fine da perseguire per chi oggi si trova in quelle antiche condizioni.
Io non credo al concetto secondo cui gli albanofoni non conservano forme scritte e si rifugiano in quella orale, penso che questo è un metodo a cui sono rimaste incastonate, forse, le genti di Albania; noi arbëreshë siamo cresciuti in Italia, Quella terra fatta di cultura, di sapere e di storia; oltre a ciò, nel bene o nel male, siamo stati assoggettati per ben quattro secoli agli educatori Catalani e Francesi.
Alla luce di tutto questo, forse dovremmo essere noi a dare le regole alla lingua madre Albanese che ancor oggi va alla ricerca di uno standard unitario a cui uniformarsi.
Dovremmo essere più attenti alla nostra lingua arbëreshë, fatta di un sound, che si forma associata a quella italiana con trascorsi e assoggettamenti storici di grande spessore.
Il ricordo va ad un grande cultore albanofono che diceva: non nascondere la pronuncia del tuo paese, ma rendila chiara per chi ti ascolta, in essa è depositata la tua storia.
Pianificare le vicende albanofone senza l’ausilio di veri progetti con un preciso fine da perseguire si va incontro alla perdita di ogni riferimento e come è successo ai nostri avi, anche noi, ci rintaneremo in quello che rimane dell’antica forma orale.