NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Se nel bel mezzo del vecchio continente tra gli anfratti dove termina l’adriatico e inizia lo Jonio circondati dalla cultura Orientale, Alessandrina, Latina e Greca, esisteva storicamente un popolo che ha vissuto, secoli dignitosi, pur privandosi dell’uso di un qualsiasi forma scritta, una ragione ci deve essere stata e andava ricercata con dovizia di particolari.
Se imperatori, re, papi, papesse, condottieri e ogni sorta di valorosa figura della storia, non hanno esitato a coinvolgerli proprio per questa consuetudine, è un dato steso alla luce del sole.
Se i grandi della storia hanno lasciato gli Arbanon, gli Arbëreshë dell’era illuminista, vivere secondo le consuetudini per secoli, i motivi per creare i presupposti di tutela, sarebbero dovuti essere pianificati secondo un disciplinare rigido e condiviso.
Se agli atteggiamenti delle figure dominanti, l’antico continente, si contrappongono, l’inadeguatezza storica culturale delle guide idiomatiche e spirituali, pionieri della scrittura con segni appartenenti agli storici alfabeti del vecchi contenete, a perdere il valore delle cose è stata l’umanità intera.
Fu questo l’inizio di un calvario senza fine, in cui l’idioma delle genti arbëreshë, vide essere difeso e tutelato da imperatori, re, papi e condottieri da una parte, mentre dall’altra, locali e inadatti cultori, si ostinarono a scrivere per produrre il più inadatto e l’allegorici alfabetario.
Che cosa abbia spinto questi viandanti culturali senza tempo non è dato a sapersi, ma presumibilmente, si può ipotizzare che volessero diffondere il codice linguistico attraverso una scrittura utile all’identità moderata della religione, greca bizantina, facendo riverenza ora ai latini cristiani e ora agli ortodossi greci.
L’ostinata rotta di associare una forma scritta al codice linguistico arbëreshë, ha prodotto una disarmonia culturale senza eguali e senza attinenza con la consuetudine di questo antichissimo popolo.
Se a questi elementi si associa l’inopportuno uso della metrica canora, rimarrebbe la struttura religiosa, ma purtroppo anche questa trascinata dalle inappropriate scelte di rito ha condotto l’insieme dei quattro quarti arbëreshë, verso la soglia dove si perde la sapienza e la speranza di recuperare almeno l’esenziale.
Un dato fondamentale emerge dall’ascolto delle sonorità musicali di quanti avrebbero dovuto tutelare l’elemento metrico canoro, queste figure in specie e non sono poche, nella quasi totalità dei casi è partita da presupposti secondo cui il canto arbëreshë era da ritenere libero da obblighi consuetudinari e purtroppo così non è.
Gli arbëreshë non avendo alcuna forma scritta, legavano tutto al canto e alle sonorità espressamente canore, valga l’esempio nell’ottocento Vincenzo Torelli uno degli editorialisti e musicologi più in vista del tempo, il quale per valorizzare la sua origine arbëreshë, quest’ultimo di tutte le sue attività musicali per spargere un seme dedicato, aveva realizzato due personaggi, la musica e il canto; nei suoi episodi settimanali messi in stampa, ricercati da tutti i compositori italiani e non dell’epoca, in cui la infinita battaglia vedeva la forza del canto sopraffare la musica, perché metrica originaria.
Il canto per gli arbëreshë, rappresenta il supporto fondamentale della lingua, cantare in ogni macroarea è un rito, una consuetudine è la conferma della propria identità e non una libera interpretazione senza radice.
Ho ascoltato, quanti dicono di essere la crema della cultura canora per gli arbëreshë, non comprendo chi dove e cosa rappresentano con sonorità fuori dalle più elementari nozioni musicali di lingua arbër.
A questo punto sorge spontanea la domanda: essi sanno di Torelli, sanno cosa cantando, sanno di essersi uniti ai danni del terremoto dipartimentale?
Se non c’è risposta resta solo di fissare la data per la chiusura dell’ultimo giubileo, concelebrando una pontificale idiomatica e musicale in memoria della Regione storica Arbëreshë .