NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – I territori di Serbia, Kosovo, Macedonia, Albania, Epiro e Peloponneso, dell’attuale geografia politica sono stati lo scenario di rivalità tra mussulmani e cristiani, determinando l’episodio migratorio più rilevante, dalla fine del XIII sino a tutto il XVI secolo, verso le terre parallele dell’Italia.
L’esodo per gli abitanti delle terre su citate (gli arbëreshë) è stata l’unica possibilità per tutelare la propria identità e contiene caratteristiche uniche, per tanto, bisogna porre molta attenzione nell’unificarla come movimento di masse verso terre da invadere o mero evento per sopraffare culture a discapito di altre.
Sono numerose le migrazioni che segnano la storia del mediterraneo, solo una di queste interessa e coinvolge i parlanti arbëreshë ancora viva e perfettamente integrata, mentre le alte sono sfumate lasciando solo episodiche tracce, giacché, nate con l’intento di proporre o imporre nuovi modelli.
Se le dispute economiche e sociali sono state la principale causa ad innescare i processi di migrazione, nel caso degli arbëreshë furono ragioni in ordine: Etnico, Consuetudinario, Religioso e Sociale, a conferma di ciò valgano le statistiche storiche secondo le quali, l’Italia sin dai tempi dei greci veniva ambita non per essere conquistata e distrutta, ma per essere vissuta.
Sin anche i popoli descritti come barbari, dalla storiografia occidentale, invadevano le regioni dello stivale mediterraneo, perché climaticamente e territorialmente consentivano di realizzare strutture del tutto diverse dai sistemi organizzativi sociali e dei valori etici, oltre che religiosi, su cui le etnie in movimento, si reggevano nelle terre d’origine.
Popoli quali i Longobardi, i Goti, i Franchi, i Normanni, venutisi a stabilire in area latina, pur giungendovi con la forza delle armi, queste genti di ceppo e lingua germanici si assimilarono nel giro di poche generazioni alla popolazione maggioritaria circostante, questo è successo anche per gli arbëreshë che pur senza la forza delle armi durante il XIII secolo sgiunsero lungo le coste dell’anconetano a Jesi Recanati e in quelle terra dove oggi sono note per i vitigni posti a dimora dagli operosi arbëreshë.
In queste storiche terre del vino gli arbër prima furono diseredati, ritenendoli facinorosi portatori di malattie e per questo costretti persino a soggiornare a debita distanza dalle murazioni, poi riconosciute le capacità per dissodare realizzare attrezzi e mettere a dimora la terna mediterranea, s’integrarono senza lasciare alcuna traccia, ma queste sono altre storie.
Diversamente è stato per gli Arbëreshë, costretti a varcare l’Adriatico o il mare Ionio alla ricerca di una terra parallela dove non fosse minacciata la cristianità, quindi all’interno di un sistema territoriale definito “parallelo” rispettando e mai superando le antiche arché grecaniche, riuscendo nel breve termine a produrre livelli d’inclusione con i popoli indigeni, preservando lingua, istituzioni e abitudini sociali.
Sono largamente riportate nella storiografia del mediterraneo, particolari a dir poco sintetici o addirittura elementari, quando sono trattate le numerate, numerose e allegoriche ondate migratorie, attraverso le quali agli arbër, è stata fornita la possibilità per cercare il parallelo più idoneo a impiantare la storica radice.
Essi in maniera a dir poco sintetica, sono individuati ora come drappelli accompagnati dai loro familiari e preti, ora con bauli colmi di suppellettili ori e costumi, ora come gente nuda sulle rive dello jonio aspettando il consenso o l’interesse delle autorità della nuova terra parallela come: i d’Angiò prima, gli Aragona con re Alfonso I di Napoli e Ferdinando II, in seguito, poi rispettivamente dagli imperatori Carlo V e Filippo II, da Carlo III di Borbone, sino a Ferdinando I, oltre Papi, Re e Dogi veneziani.
Nessuno si è mai preoccupato di approfondire l’argomento e sottolineare che gli arbëreshë non erano preferiti a caso o perché in fuga, ma esclusivamente quali discendenti diretti dei soldati contadino (stradioti).
Questo dato non trascurabile li rendeva indispensabili attori, per sedare con la loro presenza gli attriti economici, politici e sociali nelle epoche che videro protagonisti i regnanti, i cortigiani su citati, compresi i loro sottoposti.
Tuttavia anche se il costante flusso di arbëreshë, il conseguente inserimento senza non poche difficoltà nella società di adozione, si svolgesse in forma legittima e giuridicamente protetta, spesso sfugge agli storici osservatori, l’interesse che i regnanti aveva nel prediligerli rispetto agli indigeni, una disputa che si protrasse dalla fine del XV sino a tutto il XVI secolo, quando vennero presi i dovuti provvedimenti del caso.
Per comprendere cosa abbia innescato e prodotto il modello integrativo Arbëreshë, si potrebbe vagare all’infinito nelle diplomatiche della storia, tuttavia per tracciare anche in questo caso un’arché di riferimento si può, a ben vedere, risalire alla battaglia di Campo dei Merli, (Kosovo 1389) cui parteciparono gli Arbër attivamente; questo evento di giugno, segnò il dominio turco nei Balcani, ma anche l’inizio di una strenua difesa delle genti Arbër, terminata dopo le dette migrazioni prima della fine della pressione con sconfitta degli ottomani a seguito della battaglia di Lepanto, nel 1571.
Le conseguenti repressioni della battaglia del 1389 diedero seguito al primo stanziamento di profughi albanesi in Italia meridionale attestata su una lapide nella chiesa di S. Caterina a Enna, dove è ricordato un Giacomo Matranga comandante arbër.
Analoghe ragioni indussero Alfonso d’Aragona re di Napoli, in lotta con Renato d’Angiò, a far passare in Italia Demetrio Reres e i figli Giorgio e Basilio e farli poi stabilire in Sicilia.
A questi episodi vanno aggiunte le vicende che videro protagonista Giorgio Castriota, figlio di Giovanni, in Italia, iniziate nell’agosto del 1460 e durarono circa due anni, anche se altri due viaggi a Napoli e a Roma nel 1464 e nel 1466, ebbero luogo.
La permanenza di Giorgio Castriota nelle terre del regno di Napoli consentì di delineate le linee dell’infinito arbëreshë, in altre parole, “le Arché” linee strategiche secondo le quali dovevano essere predisposti i Katundi delle genti arbëreshë.
Un dato non preso in considerazione dagli storici, non essendo protagonista una figura maschile, passata per lungo tempo poco analizzata, tratta della sottovalutata invasione o accoglienza, dirsi voglia, comunque pacifica, che si è articolata durante la permanenza della moglie, del defunto Giorgio Castriota, Marina Donica Arianiti, che dal 1468 al 1505 visse a Napoli, con il figlio Giovanni, la figlia Vojsava e la giovane figlia di Vlad II°, prima nel castello Angioino e poi in via Santa Chiara, ospite dei regnati Napoletani.
È in questo periodo che non potendo più fare affidamento della figura del valoroso condottiero arbëreshë è consentito a molti gruppi familiari allargati, di insediarsi lungo le “archè” predisposte ai tempi della battaglia di “Terra strutta” dal valoroso condottiero, prima della sua morte.
È così che nasce la Regione storica Arbëreshë e se da un lato creava attriti con gli indigeni, dall’altro confermavano una presenza numerica non indifferente, con il fine di confermare una regione parallela, la stessa temuta dagli ottomani, specie se realizzata in tutte le caratteristiche identitarie.
Alle popolazioni della regione storica dopo la caduta di Corone, molti degli Arbëreshë e Greci, che si erano rivelati i più convinti ausiliari dell’ammiraglio della flotta cristiana Andrea Doria, ottennero dal Viceré di Napoli il permesso di lasciare su molti navigli la città riconquistata dagli Ottomani, dove la incolumità loro e delle loro famiglie venne assicurata con il trasferirsi a Napoli.
Un numero considerevole di profughi, in numero di circa ottomila, di questi poco meno di tremila preferirono trasferirsi in Sicilia in Calabria e in Basilicata, in tutto, lascati alla libera circolazione per trovare la migliore sistemazione all’interno della regione storica.
Dopo la fase dell’insediamento e definiti i contorni e le macro aree della regione storica, inizia la fase di crescita sociale e culturale, la sua esplorazione si è rivelata molto carente ogni volta che è stata utilizzata la mera visione puntuale, senza mai avere uno sguardo all’insieme regione.
Le opere condotte a vario titolo sono solo episodi che devono essere ricuciti: Rodotà, La Mantia, Schirò, Sciambra, Coco, Zangari, le dispute campanilistiche e immobiliari del collegio Corsini, le priorità culturali, garantite dalle simpatie territoriali, sono da considerare, come i filamenti di una tela scippata e vanno ricomposti con sapienza e garbo, onde evitare di sortire alle disquisizioni che hanno relegato la regione storica e i suoi uomini a non essere contemplata in nessun ambito culturale che conta e fa la storia.
Alla regione storica diffusa arbëreshë è tempo che le sia data “una storia” unica e secondo i fatti, non per racconti; valorizzare alcuni aspetti a discapito di altri non è più concepibile, è ora di smettere nel considerare valorosi figure di secondo piano rispetto a quanti hanno dato se stessi, la vita per il valore del loro lume, in favore di tutti gli arbëreshë, lasciamo al tempo di valutare pi quanti ostinatamente si cimentano a scrivere una lingua ereditata crescendo e vivendo in arbëreshë.
Le migrazioni non devono essere intese come un mero evento, per datarlo e numerarlo, giacché, rappresentano un insieme di cause cui è legato un solo ed unico effetto, sta alle persone di cultura comparare i due elementi e dare merito a quanti posti nelle difficoltà, cosa e come abbiano fatto a discernere la mano giusta da quella sbagliata, per emergere con dignità dal buio innescato da quanti miravano ai propri valori e non ad altro, anche se in prima fila tendevano la mano ai poveri emigranti ancora in acqua.
(bilë e Arbëreshëvet diovasni letir se zeni kushë Jini; mos jiejni the chiarturat e qenvet, se janë skip!)