Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il costume arbëreşë è la testimonianza visiva della storia, della cultura, della fede e delle tradizioni, in tutto la rappresentazione della perseveranza indissolubile con la quale segnare identicamente lo scorrere dei secoli.
Per questo il passaggio di testimone da una generazione all’altra è un rito fondamentale, che consolida il proseguimento della propria identità nel corso della storia, con l’ausilio delle consuetudini e tutte le tradizionali credenze solidamente radicate.
Se questo poi avviene per popolazioni che tramandano esclusivamente attraverso la forma di gesta e parlato, avendo quale prioritaria la metrica del canto, l’evento diventa codice delicatissimo al pari di un’oggetto di cristallo lavorato e, mal riposto nella “credenza “quando fa terremoto.
Quanti utilizzano la storia, quale mezzo per confermare messaggi senza alcuna fondatezza di luogo, di tempo e persone, produce danno, specie quando si vogliono piegare i ricorsi per il mero fine di apparire, con atti notarili o editi cattivamente interpretati.
Storicamente sono molteplici i casi che per glorificare private falsità, usano satinare miti, eroi e avvenimenti, senza luogo e tempo.
Il sistema si può raffigurare come una frana che nella sua greve corsa verso il basso, amalgama ogni cosa e, il ricordo a questo punto, diventa il protagonista grazie alle figure più inesperte, giovani in tutto le meno adatte per riferire memoria di tempo.
Questi atteggiamenti sono il frutto di una cattiva morale culturale e, già nel passato remoto, era uso formulare specifiche richieste (a degenerati scrittori) che tramandavano avvenimenti ereditati da memorie false, costruite a misura, con l’ausilio di documenti apocrifi creati ad arte.
Allo scopo si ritiene adoperarsi per realizzare la “diplomatica” adatta che si analizza e studia i documenti ufficiali, in particolare dei documenti storici prodotti, e il nostro compito rimane quello di analizzare la forma, la struttura e il contenuto di tali documenti verificandone l’autenticità, interpretarne il significato e studiarne il contesto di produzione.
Certamente concentrandoci sui documenti scritti in epoca medievale e moderna, come pergamene, lettere, privilegi, diplomi, e contratti.
Questo dato consente alla minoranza arbëreşë di riconoscere i trattati storici originali e differirli dalla “isola felice”, dove ogni cosa appare esclusivamente candida, meravigliosa e sempre positiva.
Tuttavia a devastare ogni cosa, non sono le menzogne prodotte dai falsi finanziatori, giacché il danno reale è prodotto dalla mancanza di volontà dei dotti, o preposti, i quali sanno e scientemente non separano i falsi dai veri avvenimenti, anzi assistito divertiti alla riproposizione degli ottimi prodotti taroccati on puro fatuo.
Sono proprio queste narrazioni, addirittura poste in stampa, che contribuiscono a rendere celebri, per cattiva conoscenza/coscienza, gli annali della storia, dove la rotta punta a ottenere un’icona di rilievo e non garantire la logica narrazione di fatti, persone e cose.
Come affermava Michele Baffi, figlio del più noto Pasquale originario di Santa Sofia d’Epiro in una sua diplomatica riferita a quanto pubblicato della storia dei romani: “mescolavano le divine con le umane cose, per rendere più augusti i cominciamenti e tanto andò avanti questa confusione, che nessuno fu in grado di comprendere cosa fosse vero e cosa era mescolanza di fatti mai avvenuti”.
Furono gli stessi storici che in seguito ebbero a trarre la conclusione che: in questo modo nacquero gli annali delle prime nazioni, usciti dalle tenebre dell’antichità e dalla stoltezza delle malfondate tradizioni.
Dopo questa breve introduzione gli scenari che si presentano vanno e devono essere analizzati avendo consapevolezza di cosa si potrebbe produrre se attratti dai frutti di pura e più conveniente stoltezza.
La ricerca storica quindi va fatta comparando costantemente gli elementi finiti con quelli indefiniti e la propria capacità di interpretare e affiancare fatti, uomini e cose, avendo capacità di comprendere cosa è storia possibili e cosa no!
Un esempio che qui riporto valga per tutte le cose che banalmente si raccontano: come l’esser giunti i Kalabanon nelle rive dell’adriatico e dello jonio, allocandosi nelle colline del meridione con i loro bauli colmi di costumi, trascinati dalle colline dell’antica illiria, sino ai porti delle rive adriatiche ad est, caricate nelle navi, scaricati poi nei porti pugliesi a ovest e in seguito trascinati per la Puglia, la Basilicata e la Calabria; un gesto a cui sicuramente agli arbëreşë va dato merito della loro proverbiale caparbietà, ma, pare così a dir poco di esagerato e palese ritenerla una storia senza alcun senso.
Se a ciò si aggiunge il dato che questi bauli spariscono nel XV secolo, dato che il Rodotà li descrive nudi al papa a cui si rivalse per trovare soluzione cristiana.
Nasce spontanea la domanda, a meno che non si tratti di un miracolo come fanno ad apparire nel XVII secolo e, in quale località climatizzata con tecnologie ultra moderne di quell’epoca sono stati custoditi?
In questo mio breve, per questo si vuole affrontare la disanima del contenuto di questi bauli mai esistiti, il cui contenuto teoricamente nasce all’inizio dell’era industriale europea, quando gli esuli posero in essere, ovvero, realizzarono la bandiera identificativa di macro area della cinta Sanseverinese, ovvero, “il Costume Arbëreşë”, memoria riassuntiva laica e clericale di un’identità forte e mai dismessa nella provincia citeriore presilana.
Va a tal proposito sottolineato che il costume arbëreşë, completo, che identifica area e luogo; scaturisce da una solida e coerente narrazione storica, allocata nelle sub aree della Pre Sila arbëreşë.
Rappresenta il Componimento unico, solo, primo ad essere considerato narrazione storica e, da cui sono stati poi estratti frammenti, della macro area delle Miniere e del Pollino.
Questi costumi dal primo che ha come emblema la Sposa, all’ultimo di Vedova Incerta, vanno perdendo il senso originario cosi come i cerchi concentrici di una pietra buttata nell’acqua, si attenuano quando si allontana dal centro di caduta.
I costumi identificati come: da Sposa, moglie e Regina della casa, Giornaliero o del fuoco, di Vedova e Vedova Incerta, sono i fondamentali, gli altri, seguono una rotta che è affine più alle genti autoctone che al consuetudinario arbëreşë di radice e credenza.
Alla raffinatezza del costume si accosta la dualità dell’impegno storico, sociale e clericale degli arbëreşë; ciò nonostante serve un’attenta analisi per comprendere movenze e significato, il che restituisce uno scenario artistico che aumenta, in quei centri in cui la valorizzazione, la tutela identitaria, l’idioma, la consuetudine, la metrica e la religione Bizantina, rendendo il legame tra casa e chiesa, ovvero, il valore civile e religioso forte, solido e completo.
Tutti gli altri centri dove uno di questi elementi o componenti, che compongono il costume, dovessero variare o mancare, restando il costume sintesi o addirittura segno per altra identità, se non addirittura tradizione popolare indigena o llitirë dirsi voglia.
Alla luce degli avvenimenti cadenzati dall’ultima decade del secolo appena terminato, dove a segnare il passo della vestizione dei preziosi componimenti sartoriali, sono inesperte/i giovinette/i, i quali, pericolosamente tralasciano il senso non scritto, custodito nel ricordo di donne adulte, che vengono e sono perentoriamente ignorate se non rinnegate.
Va in oltre marcato il concetto secondo il quale il costume è un testamento, un trattato non scritto; e per questo deve essere letto o interpretato da artigiani/artisti in grado di avvertire vibrazioni molto profonde e colme di significato, nei colori nei ricami, nelle pieghe clericali e di laica credenza.
Coprire il corpo il giorno della nascita, durante la crescita, quando si diventa donne, il giorno del matrimonio, durante l’invecchiamento e al termine della propria esistenza, fa sentire il genere femminile protagonista del mondo arbëreshë, dal primo vagito sino all’ultimo sospiro della vita e, simboleggiano tutto ciò i colori qui in elenco:
Il bianco: associato alla luce alla purezza;
il rosso: associato al sangue e alla fedeltà;
il giallo: associato al sole;
il verde: associato alla vegetazione il lavoro nei campi;
il blu: associato al cielo alla ricerca del termine;
l’oro e l’argento: associato alla ricchezza;
il porpora: associato alla luce del fuoco sempre acceso;
Il raso: associato alla luce della credenza;
il marrone: associato alla terra;
Il nero: associato alla negazione assoluta, come la notte, o buio di termine;
Tutto questo va difeso con forza ed energia culturale solidamente radicato nelle cose del trapasso generazionale, affinché non termini tutto per continuare ad essere inculturazione e trasmette, riproducendo le proprie “tradizioni” all’interno di tutte le macro aree; evitando l’acculturazione ovvero l’invasione dei tratti culturali provenienti dall’esterno, da altre aree geografiche-culturali che possono terminare con il modificare i valori del manuale sartoriale indivisibili.
L’analisi per questo inizia naturalmente citando il significato di ogni singolo colore: la pigmentazione delle stoffe che non è casuale ma mira mai casuale, anzi ognuno di essi e il relativo accostamento inviano messaggi chiari, univoci, il cui fine e legato a un messaggio di onestà, prosperità dell’unione e la relativa discendenza.
Il costume, è il sunto dei travagli di operosità onesta sociale, etnica, religiosa e di credenza all’interno della Regione storica diffusa, sostenuta in parlato e movenze Arbëreşë; esso racchiude antiche gesta e messaggi, codice identitario, rappresenta l’unica forma figurata in senso generale di un’etnia che si è avvalsa per secoli della sola forma del parlato.
L’atto della vestizione, diviene codice di arte, massaggi figurati e di comportamento, discipline o protocollo figurativi tramandato oralmente e con gesta di segni; esso rappresenta e valorizza credenze e pratiche condivise da generazioni, in tutto, il codice che diventa arte.
Esso rappresenta l’anello che lega l’apparire femminile con il territorio, mille pieghe di rinforzo calettate su un basamento dorato, la radice fondale e, ogni piega difende solidamente le cose più intime del genere Arbëreşë, in senso generale e generazionale.
Quattro strati inferiori di vestizioni in colore diverso, la prima indica la natalità, quella più a contatto con il corpo, la seconda la purezza e la fede, la genuinità giovanile e la terza il padre, per arrivare a quella più estrema o pubblica che rappresenta il marito, per generare specie, ovvero il sacrificio.
Fede e sacrificio sono sostenute e regolate dalle rotondità della vita, ma nella connessione con il gallone dorato del basamento assumono andamento rettilineo come segno di rispetto verso il territorio in ogni direzione.
Il costume rappresenta la sintesi dei rituali condivisi, in sintonia con la vita e i rapporti che essi hanno avuto con gli indigeni.
Tutto questo qui riassunto diventa espressione delle diverse macro aree, insiemi di usanze e, in certi casi vere e proprie tradizioni, tramandate attraverso i trattati liturgici come ad esempio le pergamene a doppia faccia, lette dal clericale nella parte rivolta a esso e nelle immagini riferite al Vangelo, volte ai credenti.
Oggi indossare un costume Arbëreşë non deve essere solo occasione per esaltarsi a gesti e referenze senza avere cognizione culturale e linguistica del ruolo che si assume, né bisogna indossarlo sinteticamente, sciattamente o addirittura volgarmente, in quanto, il costume rappresenta un simbolo che deve inviare messaggi dell’appartenenza di un popolo e del suo territorio.
Indossare il costume vuol dire avere rispetto di ogni suo elemento e caratteristica estetica perché quando è esposto, diventa vessillo di un popolo ben identificato.
Come lo sono le dorature del Xhipùni che non deve essere sintesi del generare prole, ma vestizione coerente con il senso del matrimonio che genera prole, imbibendosi prima nella fontana della vita e poi in quella dell’intellighenzia matriarcale, del governo delle donne
Il rito ha inizio con la pettinatura këshètë, messa in atto della tipica forma, entro cui raccogliere i capelli saldamente avvolti dalla candida fettuccia bianca.
Per poi essere il supporto della corona dogale del matrimonio solidamente invalicabile dalla vista delle intimità femminili più esposte.
La stiratura del ricco merletto, linjë che va impostato prima dell’uso, con la giusta rigidezza dosando acqua e amido e, fornire solidità alla preziosa trama che genera la fonte della vita.
A questo punto si dà avvio al rito dell’apposizione xhipùntëi i còha e sotto còha, dal cassetto appositamente attrezzato, seguita la rimozione dei lacci che garantiscono la postura di riposo e la svelatura degli altri elementi conservati e avvolti dalle apposite stoffe di cotone.
Ogni cosa in seguito va prima indossata, calibrata e in fine fissata con raffinata perizia, manualità e dedizione; il costume richiede regole precise, per questo indossate le vestizioni intime e la linjë si continua con sutànini, poi sutàna me raset e in fine la còha, tutte queste una volta indossate vanno calibrate al fine di raggiungere la vestizione che deve essere un’armonia di linee che sul davanti è lineare da sotto il seno fino all’estremità inferiore della còha; sui fianchi e il di dietro, deve essere arrotondata nella parte iniziale per poi allinearsi subito con andamento verticale dettato dalla parte rinforzata da cui partono le bretelle; il contorno inferiore, Gagluni deve risultare perfettamente livellato e il davanti sfiorare la punta delle scarpe, la cui regola è garantita dall’altezza del tacco.
La parte superiore dalla base del collo sino al seno, deve descrivere un piano inclinato che poi s’innesta con la linea curva della prominenza sulla linea verticale su citata.
Xhipùni, deve aderire perfettamente sulle spalle e allinearsi alle rotondità del seno cui deve rimanere aderente persino nei piccoli movimenti delle braccia sollevate.
A seguito di tutto ciò e dopo continue verifiche si fanno gli ultimi rintocchi rivolti alla vestizione degli ori (orecchini e collana con diadema) con l’apposizione della kesa che copre këshètë, rappresentazione dogale della corona della regina del fuoco e della casa.
Poi segue il tocco finale con l’apposizione sul capo o piegata ordinatamente sul braccio del velo dorato da sposa o di quello porporati di regina della casa e del fuoco domestico sempre acceso e diretto.
Poi arriva il tempo dello sfilare o l’apparire, momenti in cui, chi si assume la responsabilità di rappresentare con il raro vessillo un gruppo ben identificato, deve saper trasmettere secoli di storia riassunti in quei preziosi filamenti di porpora e oro; l’atto di apparire e attirare con quei movimenti di grazia e coerenza, deve ricordare che una favela diversa nel sud dell’Italia ancora vive nella più completa sana e onorata integrazione.
Va in fine sottolineato che i tempi e le modalità di mettersi in mostra a casa, negli ambiti di Gjitonia e, negli ambiti diffusi del Katundë, sono momenti in cui, la ruota, la coda e ogni sorta di pendaglio o elemento indossato o portato per essere esposti, ha un luogo, un tempo e un momento di riverbero per essere reso pubblico, altrimenti si perde il senso della vestizione, che non ha né segreti e né tasche, dove celare o nascondere sgradevolezze di unione e condivisione familiare.