NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Verificando ulteriormente la storia letteraria della comunità albanofona si deve dare atto al papa Clemente XI, dì origine albanese e in seguito con Clemente XII, i quali prendono atto della necessità di una diversa linea, più aperta e tollerante verso questa comunità di tradizione ecclesiastica bizantina.
In questo clima, anche per interposizione di Pietro Pompilio Rodotà, vescovo arbëreshë di San Benedetto Ullano, viene istituito il Collegio Corsini che si trasferirà, poi, nel centro Basiliano di Sam’Adriano a San Demetrio Corone, finalizzato alle comunità greco-ortodosse della Calabria.
Due anni dopo, nasce il seminario greco-albanese per le comunità della Sicilia, collocato in Piana degli Albanesi ove vi studiò anche Francesco Crispi.
Fu un fatto dirompente per l’epoca, non solo perché queste decisioni, per ciò che rappresentavano, costituivano una vittoria per le comunità interessate ma anche perché il collegio di Sant’Adriano divenne una grande palestra per il clero ortodosso e per l’intelligencija arbëreshë per tutto XIX secolo, affermandosi come fucina dì idee democratiche e di formazione patriottica libertaria è straordinario il contributo dato dal gruppo di intelettuali religiosi e laici, formatisi nel collegio di San Demetrio Corone. All’interno del ricchissimo panorama di personalità che hanno segnato la storia degli arbëreshë e hanno marcato la loro coscienza etnica emergendo ben presto con il loro contributo politico, amministrativo, educativo, nella società italiana vanno ricordati, ad esempio, Francesco Bugliari e Demetrio Bellusci vescovi entrambi; Pasquale Baffi ed Angelo Masci, esponenti di primo piano degli ambienti illuministici napoletani; e poi: Pasquale Scura e Luigi Giura, ministri del governo dittatoriale di Garibaldi; Domenico Mauro, Agesilao Milano, Attattasio Drainis, Angelo Basile protagonisti straordinari della storia risorgimentale.
La crescita della coscienza politica rafforzatasi contro l’assolutismo, sprigionò anche una vigorosa letteratura militante ed impegnata imponendo anche la questione albanese nell’ambiente culturale europeo.
Capostipite di questa rinasciti fu Gerolamo De Rada, di Macchia Albanese, che suscitò l’ammìrazione di Mistral e di Lamartine.
Ma anche Antonio Sentori dì Santa Caterina Albanese Vincenzo Dorsa, di Frascineto, Angelo Basile di Plataci con la sua Ines De Castro; Giuseppe Serembe dì San Cosmo Albanese; tra quelli considerati impropriamente “minori” Demetrio Chidichimo e suo nipote Carlo Brunetti dì Placati, che ebbero contatti con il mondo letterario più elevarlo e agirono attivamente per l’indipendenza dell’Albania, avvenuta, poi nel 1912.
Dopo l’unificazione d’Italia un ruolo di fondamentale importanza è affidato alle donne arbëreshë, messo in risalto dai massicci fenomeni di emigrazione che trasformarono e caricarono di nuove responsabilità la loro funzione.
Questo dato costituisce una costarne nella storia del meridione, basti pensare alle lotte nelle campagne, dopo il secondo conflitto mondiale e la grande migrazione interna e continentale, a questo elemento comune, le donne italo-albanesi aggiungono qualcosa in più alla loro storia dì sofferenza e di rinunce, la loro indole fiera, la loro coscienza di avere un ruolo preciso dentro un mondo difficilmente assoggettabile ad angherie e soprusi, una coscienza che essa, coltiva nel silenzio, nella modestia degli atteggiamenti, entro una struttura della famiglia retta da ferree leggi orali che ne formano l’elica sociale e la gerarchia.
La gestione interna alla famiglia, in questo schema, era affidata alla donna, remissiva verso il ruolo esterno del capo famiglia, la cui immagine veniva difesa con ogni mezzo, e rigida nella conduzione concreta della casa e nell’educazione dei figli sui valori dell’onore e del coraggio, oltre che nell’assolvere alla gestione dei rapporti di amicizia e solidarietà col vicinato: insomma, una specie di matriarcato interno e di remissione esterna con delega totale al prestigio dell’uomo.
Nel 1909 le donne escono, all’improvviso, dal silenzio e saltano sulla ribalta in maniera, traumatica; a Plataci durante una rivolta contadina dei quattro morti, tre sono donne, e trentuno le imprigionate, oltre a numerose ferite.
Su di esse si è infierito maggiormente perché si erano assunto il compito della prima fila facendo scudo ai loro uomini e reagendo con mezzi rudimentali di difesa che portavano nascosti nei capienti costumi femminili tradizionali arbëreshë.
In questa maniera drammatica esse saltano le fasi dal movimento delle donne sul terreno delle battaglie per l’emancipazione e pongono problemi di una gravita estrema e pur in una situazione convulsa e confusa come quella della rivolta evidenziano una specificità della questione femminile all’interno di quella sociale.
Alla fine della rivolta, passato il diluvio ritorna il silenzio che nel Mezzogiorno segue le grandi vampate.
Come in tutte le vicende meridionali, anche qui, si scoprirono i fatti e un mese dopo il loro tragico svolgimento.
L’assenza di una forza politica di orientamento è testimoniata dal ruolo preminente della Chiesa come punto di riferimento e di coagulo sociale.
Ancora oggi, purtroppo, non si riesce ad avere una pregnante forza politica idonea a difendere e promuovere con adeguata fermezza le esigenze della comunità albanofona; siano essi politici uomini che donne non si riesce ad avere un emblema di riferimento, che adeguatamente possa ricercare e rilanciare idoneamente la minoranza e i centri albanofoni tutti.