NAPOLI (DI Atanasio Pizzi) – Quello che fa la differenza tra i grandi uomini e gli altri, sta nel fatto che: i primi hanno un progetto di vita, che perseguono non per fini personali ma per il bene della comunità dove svolgono il loro mandato; gli altri si adoperano per rendere difficoltosa la vita e la via del prossimo.
Quando padre Giovanni Capparelli, la mattina del diciotto giugno del millenovecento e quarantaquattro giunse a Santa Sofia d’Epiro, era appena terminata una violenta tempesta e come un segno del destino, il giorno seguente inizio a splendere il sole.
È in questo piccolo paese albanofono, adagiato tra gli anfratti della Presila Greca, che il giovane prelato mise a dimora i semi del suo progetto, affidandoli al teorema, secondo cui il sacro perimetro, ancorato al rito Greco-bizantino delle genti arbëreshë, doveva fungere da collegamento tra le sintonie materiche territoriali dei suoi fruitori e il credo religioso.
La nuova “chiesa per gli arbëreshë” fu sempre la luce che egli, in oltre mezzo secolo di caparbia abnegazione, ha seguito per dare un senso compiuto alla matrice di Santa Sofia d’Epiro; eretta dai devoti in ricordo di Sant’Atanasio il Grande agli inizi del XVIII secolo, restaurata perché cadente nel 1835 e poi trasformata secondo la nuova idea, a partire, dalla meta del XIX secolo, dal giovane prelato.
La struttura voltata della navata, il campanile, la sacrestia, l’altare, il ciborio, il fonte battesimale, i lampadari, i banchi e sin anche la volumetria esterna è il frutto dell’espressione territoriale in cui ogni sofiota si riconosce e avverte il senso più profondo del messaggio religioso.
Ogni cosa che Zoti Xhuan, in comune accordo con i fedeli Sofioti, ha depositato nella sacra fabbrica, è stata sempre e comunque verificata per evitare ogni discutibile interpretazione, divenendo così il luogo di pura condivisione di buona convivenza civile e religiosa.
Ogni tipo di esternazione fuori dalle regole era sfumato attraverso la diretta intercessione di Zoti Xhuan, sin anche le lodi al signore se prendevano una nota troppo alta, erano attenuate e riportate entro i toni più idonei attribuiti al sacro involucro.
Sin dai primi interventi degli anni cinquanta fino alla fine degli anni novanta del secolo scorso, quando l’ultima pennellata di vernice era apposto alle porte della chiesa, è stato, prima vagliato, poi provato e in fine posto in opera senza che nessuno sollevasse neanche un alito per dissentire.
Il suo mandato il giorno della sua morte il 20 gennaio del 2005 si poteva ritenere largamente portato a buon fine, giacché, la chiesa era l’espressione religiosa dei Sofioti e di tutta l’arberia.
Rimaneva da sostituire gli infissi dei varchi finestra allocati tra il cornicione e la volta di copertura, che risalgono all’intervento di adeguamento strutturale degli anni cinquanta.
Questi ultimi innescano ancora oggi, copiose efflorescenze che danneggiano la pellicola pittorica, causa che scaturisce della scarsa tenuta termica dell’antico manufatto di trasparenza.
Dal giorno della compianta dipartita dell’arch. Giovanni Capparelli, non molto è stato fatto con lo spirito dell’antico progetto d’identità locale, anzi in controtendenza degli antichi dettami, i corpi illuminanti dono di un noto artista locale, sono stati sostituiti con violenti, inadatti e discutibili lampadari di manifattura greca(?), nonostante ciò, a deturpare ulteriormente la chiesa, oggi si persegue l’incauto fine di sostituire il fonte battesimale con uno simile a quello di una chiesa del versante arbëreshë del Pollino.
Santa Sofia d’Epiro dal giorno della venuta degli arbëreshë ha rappresentato un modello da imitare e da cui tanti centri di simili costumi hanno tratto beneficio, per questo presupposto è giunto il momento di dire: BASTA MANOMETTERE LA CHIESA E SHËN THANASIT!!!!!!, non è costume dei Sofioti copiare i componimenti altrui, in quanto, le nostre menti sono abbastanza lucide da pensare, progettare e mettere in essere prodotti che sono alla base della nostra tradizione.
La chiesa di Sant’Atanasio è l’espressione di tutti i Sofioti chi la violenta, con l’apposizione di corpi estranei utili solo a turbare le valenze del passato, non sostiene i messaggi religiosi che il manufatto è preposto a trasmettere.
La comunità si deve opporre a questo scempio per non compromettere i canoni della propria identità stravolti da alloctone interpretazioni; anche se gli esecutori, di ciò, dovrebbero pensare in maniera religiosa al mandato di mantenere e difendere l’integrità della fede, non imporre sottoforma di sterile operosità, “MODELLI ORTODOSSI”.
Oi Zò: Shën Sofia nëgh thë hàroj