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IL PENSIERO LIBERALE DI PASQUALE BAFFI E IL PARLATO PRIMO DEGLI ARBËREŞË (Motet i Ghiùhesh Tonë)

Posted on 25 aprile 2024 by admin

Aprile 2NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gli alfabetizzati non comprendono, cosa sia “la cultura orale prima”, ovvero, quella mancante di ogni sorta di scrittura, né immaginano sia possibile valorizzarla, per questo voi che sapete tutto, provate ad immaginare di non dover mai cercare una parola in un dizionario, avrete così consapevolezza che le parole, non hanno una presenza visiva ma un semplice suono di ri­chiamo.

Quando Pasquale Baffi, mi riferisco al primo, grande e unico letterario, nello studio di comparazione della lingua Arbëreşë pubblico, in Svezia, dal 1774 al 1776 perché unico paese europeo ad avere tutti i caratteri dell’alfabeto Greco e Latino per la stampa di Gutenberg.

Scrisse con genio diversi “discorsi” sulla storia della lingua Arbëreşë che vivevano a ridosso della via Egnazia, gli stessi che per sfuggire alla gogna di credenza mussulmana, si stanziarono allocandosi negli anfratti collinari del Regno di Napoli diffusamente, si limitò esclusivamente a comparare questo parlato, con quelle dei viandanti indo europei che li transitavano.

Naturalmente senza azzardo di voler stravolgere con esperimenti alfabetari dirsi voglia, diversamente da come agirono dopo meno di un secolo, prelati e i loro figli copiatori; avviando così, da quei tempi e, ancora oggi con ostinazione, la lingua parlata Arbëreşë di noi e dei nostri a una china giullarescamente scritta, senza eguali.

Un dato rimane inconfutabile, ovvero, se il Baffi nella sua carriera di lettore primo e grande interprete di testi Latini e Greci, sin anche delle forme più arcaiche, oltre ad essere un parlante natio di lingua Arbëreşë, ha ritenuto solo comparare la lingua, senza mai esporsi a fare romanze o alfabetari; un progetto ancor oggi inarrivabile, da lui posto in essere, ritenendo che quel codice, di parole non doveva essere stravolto, dai copiatori seriali senza adeguata formazione.

Allora è spontaneo chiedersi se lui che era ai vertici della cultura, non ha mai posto in essere nulla che violasse la lingua parlata degli Arbëreşë, gli altri a cosa ambivano quando si recavano in chiesa, nei collegi e poi correvano a Napoli per stampare cose per una schiera di analfabeti?

E chi diceva che una prima versione degli scritti sugli Albanesi era stata distrutta per difformità dei caratteri a stampa di Gutenberg, cosa cercavano di nascondere quando diceva che erano stati distrutti quegli scritti errati?

Se a questo aggiungiamo il dato che avere un titolo di scolaretto e merito di chiedere interessi esagerati per grano imprestato, non tifa diventare eccellenza di storia e di cultura, specie se mandante di eccidi, davanti granai e poi perisci in solitudine con gli scritti delle tue vittime pubblicate dai tuoi parenti ignari.

Per millenni l’uomo ha trasmesso le proprie conoscenze con lo “strumento voce” e le informazioni passavano di bocca in bocca al ritmo della lena del pedone.

L’uomo che vive ambiti di cultura orale primaria, pone in essere la cultura che non conosce scrit­tura, non possiede documenti, ma solo memoria uditiva.

Da ciò si deduce che questo popolo conosce solo ciò che ricorda, e per farlo, ha bisogno di formule quale ausilio, da ciò, l’uomo siffatto, ha una relazione con le paro­le profondamente diverso dagli alfabetizzati, in quando fanno uso più dell’udito che del visivo.

Dei suoi sensi l’orecchio è considerato il più importante, specie in una cultura in cui non esistono testi scritti a mano o stampati, e il sapere si sostiene perché disposto in memoria.

In tali ambiti culturali, si ricorre articolare le conoscenze in pensieri memorabili, in altre parole, il pensiero nasce all’interno di moduli bilanciati con solidità di contenuto ritmico.

Esso per questo viene strutturato in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in tutto, epiteti ed espres­sioni formulaiche, in temi standard, o proverbi costantemente uditi da tutti i partecipanti, in forma di rammentati facili, formu­lati per un semplice apprendimento di ricordo; ovvero, for­me di funzione mnemonica, intrecciata a sistemi determinati di sintesi.

Nella cultura orala primaria, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa molto ritmica, con forme di ballo, in quanto, il ritmo aiuta la memoria anche dal punto di vista fisiologico.

A tal fine è noto il solido legame fra modelli ritmici orali, del pro­cesso respiratorio, in gesti e simmetria bilaterale del corpo uma­no e, sin dai tempi delle antiche parafrasi Aramaiche e Greche del Vecchio Testa­mento, sin anche dell’Ebraico Antico.

Tutte queste popolazioni, passava­no la vita «ruminando» in continuazione, brani della Scrittura, ma tale loro incredibile performance mnemonica (per i culturali parametri odierni) era resa possibile anche dal fatto che il testo sacro era stato trasmesso per secoli oralmente.

Tutto questo avveniva o posto in essere secondo un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile, ma purtroppo, queste caratteristiche di memoria, sin anche della Bibbia, sono andate disperse nelle traduzioni delle lingue moderne.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quintessenziali.

In tutto resi, proverbi e mas­sime come ad esempio: Rosso di sera bel tempo si spera; Divide et im­pera; Sbagliare è umano perdonare è divino; Il lupo perde il pelo, ma non il vizio; Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore.

A tal fine esistono diverse frasi brevi, secondo le quali le giovani generazioni Arbëreşë erano allevati, come ad esempio; Kicchiricchi këndonë Ghielli e Sofia te Kangelli; kushë kianë, kianë pulari e Sofia thë kamizari; gnë gherë jshë gnë mij, ghiri thë ghë shëpië………

Tuttavia nelle culture orali esse non sono espressioni occasionali, perché formano la sostanza stessa del pensiero e, senza di loro è impossibile un pensiero che abbia una qualche durata, poiché esse lo costituiscono.

Nelle culture orali primarie, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti che posseggono una memoria di ferro.

La memoria è la custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato se non con l’aiuto della scrittura e, per quanto raffinata non sarebbe perciò conoscenza duratura, ma solo pensiero fuggevole.

Una cultura orale possiede caratteristiche particolarissime che appaiono decisamente insolite a chi si è formato nella galassia Gu­tenberg o vive nel mondo della parola elettronica.

L’uomo del­l’oralità primaria ha con la dimensione storica e del sacro, con gli altri e con sé stesso, con il linguaggio e con la poesia rapporti diversi da quelli che hanno gli uomini della parola scrit­ta.

L’uomo che non conosce la scrittura vive nel mondo magico dell’orecchio e non in quello neutro della vista, in altre parole, per lui il senso più importante è l’udito, è questo infatti il senso privilegiato con cui viene in contatto con l’intero sapere della sua cultura.

Ma il mondo dell’orecchio è «un mondo caldo e iperestetico mentre il mondo dell’oc­chio è relativamente freddo e neutro.

L’uomo biblico, ad esempio, è per antonomasia l’uomo dell’a­scolto, infatti, nell’Antico Testamento il verbo ascoltare ricorre da cin­que a sei volte più frequentemente del verbo vedere.

In tutte le società a cultura orale le produzioni verbali sono centra­te, in genere, su dinamiche agonistiche, tali culture si ama scon­trarsi verbalmente attraverso l’insulto reciproco, lo sbeffeggia­mento, il vituperio verbale, ma anche talora ci si può esibire in lodi che suonano tremendamente esagerate ai nostri orecchi.

Del resto, in una cultura orale, la stessa conoscenza non è mai astratta, ma è sempre vicina all’esperienza umana ed è, quindi, situata perennemente in un contesto di lotta.

In queste culture, «i proverbi e gli indovinelli non vengono usati semplicemente per immagazzinare conoscenza, ma anche per impegnare gli altri in una battaglia intellettuale e verbale: pronunciare un proverbio o un indovinello significa sfidare gli ascoltatori a rispondere con un altro più appropriato, o con uno che lo contraddica.

Il vantarsi del pro­prio coraggio e/o il sarcasmo sul nemico sono atti che regolar­mente ricorrono nella narrativa orale, basti pensare a quanto accade ad esempio fra Davide e Golia.

La cultura orale è conservatrice, tradizionale, in tutto, sono società magiche e tribali, in breve società chiuse, società fortemente conservatrici e tradizionali in cui la critica, il miglioramento o l’innovazione non vengono favorite, ma guarda­te con diffidenza e spesso osteggiate.

I motivi di questa propen­sione alla difesa della tradizione sono molteplici, ma tra i princi­pali va posto quello inerente ai processi comunicativi propri di tale cultura.

Infatti, «poiché in una cultura a oralità primaria una conoscen­za concettualizzata che non venga ripetuta ad alta voce svanisce presto, le società che su di essa si basano devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente impa­rato nel corso dei secoli.

Gli uomini della cul­tura orale, pertanto, sono un pubblico più caldo e rumoroso del pubblico della cultura tipografica.

Essi sono soliti ascoltare con la piena fioritura dei sensi e sono disposti a lasciarsi coinvolgere totalmente da colui che parla o che canta.

In altre parole, l’uomo della cul­tura orale vive sotto la tirannia del presente, ricorda solo ciò che è utile per la sua esperienza quotidiana. Egli non ha nei confronti della «verità» storica la nostra stessa sensibilità, in quanto l’inte­grità del passato è sempre subordinata alle esigenze nel presen­te. Ecco perché parti «scomode» o non più «attuali» del passato vengono ben presto dimenticate, immolate sull’altare della quo­tidianità.

A livello linguistico, tutto ciò comporta che in quelle culture so­pravvivano solo le parole che sono di uso quotidiano e che termi­ni arcaici possano rimanere in circolazione solo se entrano a far parte del vocabolario specializzato dei poeti. Ma anche in questo caso esse rimangono in vita sin quando vengono quasi quotidia­namente usate, altrimenti anch’esse sono destinate a svanire.

 

Le società a cultura orale, infatti, erano riuscite a risol­vere il problema connesso alla trasmissione del loro sapere grazie a una scoperta fondamentale: esse avevano imparato a co­struire contenitori verbali ritmici e formulaici.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione delle conoscenze e alla trasmissione, da una generazione all’altra, dell’intero loro sapere.

In particolare, le società a cultura orale riuscirono a conservare una memoria sociale collettiva associando la poesia alla musica e alla danza.

Nella civiltà moderna si verifica una situazione simile a quella presente nella cultura orale, nei meriti di testi invece che canzoni di successo, che finiscono con l’imprimersi nella mente del grande pubblico popolare grazie alla loro ossessiva e piacevole ri­petizione.

Di fatto, anche nella cultura orale la tecnica più comune per tra­smettere la tradizione era quella della ripetizione o delle rime di ironica partecipazione popolare.

Mentre la poesia epi­ca viene recitata da cantori professionisti, ma anche da adulti e anziani, da bambini e da adolescenti e ciò avveniva durante i ban­chetti, all’interno della famiglia, a teatro e sulla piazza del mer­cato.

Ovvero fare dimostranza attiva della propria storia, ricordando con canti e danze, le tappe della propria identità in diverse attività pubbliche nella stagione lunga; e poi nella stagione corta allevare le nuove generazioni davanti al camino, in forma riservata, e seguiti dal governo delle donne,

Per mantenere viva la tradizione, la memoria doveva essere esercitata continuamente e consolidata in ogni avanzare delle attività sociali.

Il cantore epico trasmetteva, in modo piacevole, ai suoi ascoltatori l’intero sapere giuridico, storico, religioso e tecnolo­gico del proprio tempo.

Resta un dato fondamentale, ovvero se l’intellettuale primo della cultura Arbëreşë tracciata da una figura che ha vissuto le sue stagioni colme di principi morali, perché oggi non è ricordato come esempio della minoranza; allora un problema di fondo ci deve esser stato, in favore di quanti oggi vanno per la maggiore sul palcoscenico da cui si rivolgono alla platea incosciente, dichiarandosi in colpevoli del danno prodotto per aver voluto promuovere Monastir e non il genio del parlato delle Terre di Sofia.

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