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IL CORPO UMANO, LO STATO, LA CASA, L’ORTO E GLI ANIMALI PER LA SOSTENIBILITÀ CURMI, SHËSHI, SHËPIA, COPSHËTI, TËBUTURATË SATË SHËNDESËTH

Posted on 20 marzo 2020 by admin

IL corpo umanoNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) –  Il problema dell’identità è una delle questioni più difficili da affrontare nei contesti di una società come quella contemporanea, che pur se globalizzata va alla ricerca di tradizioni o episodi in forma materiale ed immateriale che  caratterizzi un ben identificato gruppo.

Nel meridione Italiano chi vive questa endemica vicenda è la minoranza storica denominata Arbëreshë, questa oggi, scandisce il suo “vissuto storico” tra episodi indigeni e quelli della propria radice, senza avere cura e memoria di cosa gli appartiene e quanto sia stato preso in prestito.

In questa prospettiva, dunque, nasce la necessità di disegnare un quadro di riferimento semplice e ben definito, attraverso il quale individuare “la matrice” quella in grado di essere parte integrante, in una prospettiva di appartenenza multiculturale e nel contempo capace di for­nire le coordinate necessarie al vivere civile, avendo ben cura di non uniformare popoli.

La questione dell’identità, intesa come valore descrittivo non solo dei singoli, ma anche e soprattutto come impronta costitutiva della comunità e della cultura che la caratterizza­, si può quindi proporre come oggetto d’interpretazione e di analisi critica, oltre che come elemento di costruzione della personalità storica di un ben identificato gruppo culturale.

E in quest’ottica di confron­to continuo, entrano in gioco le tradizioni e ciò che caratterizza il gruppo, solo queste possono costituire un fattore importante sia per la comprensione delle dinamiche costitutive delle differenze, sia come elemento di stabilità e di radicamento capace di consentire l’integrazione e l’acco­glienza delle alterità.

Non vi è dubbio che i luoghi vissuti da diverse personalità sociali e culturali, lì sviluppano e lì abitano nello scorrere del tempo, diventino l’elemento fondante di una riflessione condivisa con le identità, che di fianco scorre.

 

“Nulla nasce dal nulla;

ogni storia ha sempre una preistoria, nasce da una storia e prelude a un’altra storia”

 

Con queste parole Giu­seppe Galasso è riuscito a esprimere in modo lapidario la ne­cessità dell’uso della memoria, pensata e condivisa, esistenza delle identità collettive prime e individuali poi.

Accomunate da senso di appartenenza successivamente, vanno analizzate secondo prospettive di storicità primitiva e discernere cosa le è stato arbitrariamente assegnato.

In oltre il tempo ritmato tra globalizzazione e campanilismi per identificare l’oggetto della riflessione storiografica pone problemi nuovi e di non immediata soluzione.

L’omogeneità dei luoghi violentata dall’inconsapevolezza della politica economica, ignara del filo logico fornito delle carte storiche a tutela, del restauro dello stato dei luoghi, li ha resi protagonisti di prima linea, nell’usufruire del banale atto dell’abbellimento formale, specie quando lo sviluppo economico poneva nelle loro disponibilità consistenti risorse economiche.

Il risultato forse è in linea con le esigenze della spazialità contemporanea e con i processi di riconoscimento comunita­rio, rintracciabili nella società del consumismo odierna, ma l’usa e getta per poi rifare non è adatto per le originarie essenze o la memoria,  depositata ai margini del progetto e talvolta la prima ad andare in discarica, giacché ritenute poco adatte ad una modernità che porta nell’ignoto.

La connotazione delle diverse macro aree, dal punto di vista amministrativo, non sempre si dimostra capace di disegnare un ambiente nel quale i cinque sensi arbëreshë siano in grado di rintracciare i tratti distintivi necessari a intraprendere lo storico percorso identitario.

Percorrendo la storica via del complesso meccanismo condiviso, non è facile riuscire a emergere con coerenza in tutta la regione storica e adagiare l’immateriale e il materiale di appartenenza indispensabili ingredienti al ripetersi in armonica coerenza.

La dimensione globale dei paesi o Katundë arbëreshë ha contribuito in ordine fondamentale nel Mezzogiorno peninsulare con particolare pregnanza in ben determinate e identificate aree parallele.

Queste sono e costituiscono il luogo di ricerca, realizzazione di progetti e cosa fondamentale, che ad oggi manca , di confronto dell’analisi prodotte di quanti si si sono occupati con quelli che si occupano di ricucire i processi, politica, sociali religiosi e linguistico/consuetudinari di questi territori.

Ed è proprio nel confronto in lingua di macro area tra quanti vissero e vivono oggi, dalla capitale del regno sino all’angolo più sperduto della regione storica, che dovrebbe partire il progetto su cui edificare il contesto della realtà meridionale attraverso una alternanza serrata tra panorama geo/economico, strutture politiche e istituzionali e dimensione culturale e sociale.

In questa continua connessione tra l’idea del centro e quella di un tessuto periferico dovrebbe nascere il polo di attrazione, quel presidio ideale da cui avere gli ingredienti fondamentali per innalzare la “storia locale”.

Il territorio rappresenta la piattaforma della scienza storica, non vi è dubbio che la percezione della collocazione spaziale, in relazione con i legami identitari di appartenenza assumono un ruolo importante nella ricostruzione locale anche quando vennero innalzati i primi modelli edilizi, che rappresentano gli scrigni, o meglio le culle dove allevare la propria identità.

I termi “cultura” e “società” sono gli ingredienti più abusati nelle pagine di quanti fanno ricerca al giorno d’ggi, utilizzate diffusamente per disegnare il quadro del vivere e del sen­tire delle popolazioni attraverso relazioni dialettiche, comportamenti e ideologie delle quali poi non si creano mai momenti di confronto e affinamento.

Non vi è dubbio che il tratto ricorrente con regolare cadenza nell’analisi delle comunità meridionali, alle Tanto spazio ha dedicato l’antropologia storica, verso la presenza di una forte confronto tra gruppi con la sfera maggioritaria sia dal punto di vista comportamentale sia sociale/linguistico sia sacro, cristiano che bizantino.

Un nesso che non si esaurisce certamente nella tradizione tramandata nel caso degli arbëreshë attraverso una lingua ignota e senza alcuna forma scritta, identificandosi e dipendenti alla Chiesa bizantina impostata dalla terra di origine ma di cui trovarono intrisi i luoghi da loro intercettati per essere bonificati e vissuti.

Essi estendono i comportamenti entro i limiti imposti dalle forme istituzionali della religione, per addentrarsi in un universo nel quale hanno trovato lo spazio per la sopravvivenze di antiche tradizioni e devianze, in un coacervo di devozione e superstizione che ha costituito uno dei tratti distintivi della società arbëreshë, la più penalizzata e compromessa in tal senso.

Una specificità che ha fatto sì che molti studiosi siano finiti nel libero arbitrio, durante le analisi del contesto del Sud dell’Italia; specie nel legame tra antico e popolare in una chiave evocativa, producendo un intreccio allegorico che non sempre trovato riscontro, non essendoci stata  rivolta la giusta attenzione verso il ruolo delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche.

Perché l’approccio all’osservazione delle comunità possa davvero arricchirsi della vera storia, essa non può in alcun modo prescindere dalle condizioni ambientali, dalle caratterizzazioni immateriali,  dai rapporti sociali ed economici prodotte da situazioni e comportamenti sviluppati nel corso dei secoli.

La necessità del luogo, accanto alla consapevolezza dell’evoluzione, viene in questo modo a determinare il percorso metodologico necessario alla ricostruzione di qualsiasi identità.

Se nel Mezzogiorno appare costante la presenza, attiva e operante, di una minoranza capace di caratterizzare il territorio e la sua storia, essere e sentirsi parte attiva nel percorso di tutela e crescita della società, deve nel contempo mantenersi viva la sua tenuta morale e gli stili di vita della sue popolazioni, è necessario anche soffermarsi su di un tempo specifico della evoluzione del loro tessuto connettivo, capace di identificare i passaggi periodizzanti che diano una connotazione effettiva al legame dell’oggi con le sue radici.

È chiaro che i limiti cronologici della storia in senso generale, non  devono solo seguire  la regione storica o le sue sedici macro aree, ma per l’intera penisola meridionale italiana e le terre di origine.

Va cercato il punto comune di tutta la regione storica, in buona sostanza amalgamare  uomo territorio e risorse utili al sostentamento di una radice antica, tramandata oltre modo nella sola forma orale e senza alcun segno, se non quelli delle impronte,  dalla l’operosità tipica.

Una fase sospesa che parte dall’Alto Medioevo, nella quale segnalare le attività seguendo le sfumature dei confini esistenti tra la sfera civile e la sfera economica, una prospettiva che apre una finestra condivisa, o meglio creare un senso di appartenenza unitaria, che unisce e non divide il tessuto sociale.

Proprio per questo motivo, mantenersi in vita nel periodo storico nel corso del quale si sono poste le basi della percezione tra individui, ci doveva essere una parlata unica che non creava ne squilibri ne doppie interpretazioni per questo l’analisi di approfondimento che si sta eseguendo è finalizzata seguendo le orme dalle quali la preistoria, da una storia e il preludio di un’altra storia” appellava per descrivere il territorio Sheshi (lo stato), il corpo umano (l’individuo), l’orto copshëti,(la farmacia) gli animali domestici capshërat (risorsa alimentare e forza lavoro collaborativa essenziale).

Questa è la radice da cui partire, non ci sono altre vie ed è inutile  sprecare tempo immaginando che la Sapienza Orientale, seduta tra le rive del, Settimo e del Surdo”  a bighellonare possa trovare altre soluzioni diversi da quella di descrivere se stessi e gli ambiti di attesa.

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