ARBERIA (di Adriano Mazziotti) – Cristòs Anèsti (Cristo è risorto). E’ il canto di gioia che da mezzogiorno del sabato di Pasqua, viene intonato nelle chiese dei centri arbëreshë ricadenti nella giurisdizione della eparchia di Lungro, ancora legati alla tradizione religiosa della Chiesa orientale, che “per la festa delle feste” scrivono una pagina significativa, ricca di suggestivi e antichi rituali.
Canto in greco, Kristòs Anèsti, ripetuto da sabato, per quaranta giorni fino alla festa dell’Ascensione in tutte le funzioni religiose, quasi a marcare la gioia della comunità cristiana profondamente coinvolta nel dare l’annuncio della vittoria di Gesù sulla morte.
E’ la Pasqua di Resurrezione, la ricorrenza più ricca di tradizioni e per questo la più importante, forse più del Natale; perchè da venti secoli ripropone puntualmente il fondamento della morte e della resurrezione, che vanno al di là del fatto personale di Cristo, per diventare fatto storico, di tutta l’umanità.
Non a caso questa Festa cade sempre in primavera, stagione durante la quale la natura risorge e rifiorisce.
La rinascita del mondo esterno coincide così con la Resurrezione del Salvatore.
Archiviato il periodo di Quaresima, dalla Domenica delle Palme si entra nella Settimana Santa o la Grande Settimana (Java e madhe).
Le funzioni liturgiche bizantine, proprio perché non sono legate agli orari stabiliti dalle norme ecclesiastiche latine, anticipano la funzione della chiesa di Roma di dodici ore.
E così a Santa Sofia d’Epiro e in altri centri calabro-albanesi di rito greco, a mezzogiorno di sabato dopo le letture della Genesi e delle profezie di Giona, levate le tende scure dalle finestre della chiesa, tra i fedeli esplode in greco l’inno “Tòn Kirion imnite, kiè iperipsute is pàndas tus eònas” (Lodate il Signore ed esaltatelo in tutti i secoli), accompagnato dal suono delle campane che danno l’annuncio della Resurrezione.
In segno di giubilo, intanto, il sacerdote sostituisce i paramenti rossi (simbolo di lutto) con quelli bianchi in segno di festa e sparge fiori profumati verso i fedeli.
Un rito molto peculiare e in linea con la tradizione è in programma sabato sera, poco dopo le 22,30.
Si tratta di un’usanza ancora ben radicata a San Demetrio Corone e nei paesi viciniori di Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e San Giorgio Albanese: l’andare a “bere o rubare l’acqua” in una fontana posta fuori del centro urbano.
La tradizione impone il più rigoroso silenzio all’andata, ma non manca chi hanno già portato a termine il rituale, che tenta gli altri perché infrangano la regola del silenzio, rispondendo al saluto o a qualche domanda artatamente rivolta.
Per questo, tra le donne c’è chi impugna la “dhokaniqja” (bastone dalla estremità biforcuta), pronta per essere bonariamente tirata addosso a chi induce a infrangere la regola!
Una volta giunti alla meta e sorseggiata l’acqua, si ritorna in paese intonando il “Cristòs Anèsti”. Sono in tanti a chiedersi il significato dell’antico rituale.
Cercare una risposta univoca, forse, è sbagliato o vano.
Un riscontro attendibile potrebbe essere trovato nel Vangelo, dove vi è un passo in cui le pie donne, recatesi sul luogo di sepoltura di Gesù, osservarono il più cauto silenzio nel timore di essere scorte dai soldati di guardia.
Una volta giunte sul posto, solo quando un angelo apparve per annunciare loro la resurrezione, esse ripresero a parlare comunicando “la buona novella” ai seguaci di Gesù.
Il rito legato a “l’acqua muta” la sera del Sabato Santo avrebbe pure una spiegazione nella antica convinzione, diffusa in diversi centri della regione, secondo la quale al momento della Gloria l’acqua che sgorga dalle fontane è benedetta.
Il secondo atto con la tradizione, che non si arrende alla modernità, si tiene a San Demetrio Corone, sabato a mezzanotte.
Anche qui sacro e profano si uniscono in un secolare abbraccio.
In un luogo stabilito si dà fuoco al tradizionale enorme falò di Pasqua, “Qerradonulla”, (simbolo di purificazione da ogni peccato e colpa).
L’etimo di questo termine si potrebbe cercare nella parola “carro”, in ricordo del mezzo di un certo “Ndoni,” un tempo usato per trasportare la legna da ardere in piazza la notte di Sabato Santo. Domenica mattina, ultimo appuntamento con le cerimonie religiose più peculiari e significative della Pasqua arbëreshe.
Il rito dell’acqua e del fuoco sono univocamente anticipati dalla messa di mezzanotte, durante la funzione si svolge la singolare funzione della “Fjala e mir”, (la Buona Parola), che evoca l’entrata di Gesù negli inferi, la sua Resurrezione e la riconquista del Paradiso.
Il sacerdote munito di una grossa croce si presenta sulla porta della chiesa tenuta chiusa all’interno dal sacrestano o da un parrocchiano che, impersonando il demonio inferocito, urla e impedisce a chiunque di entrare, fino a quando il papàs, al terzo tentativo, dopo un breve ufficio che si conclude con tre colpi con la croce sul portone, battuta la finta resistenza di chi si oppone all’interno, fa il suo ingresso in chiesa seguito dai fedeli al canto del “Cristòs Anèsti”.
La lavanda dei piedi da parte del sacerdote a dodici uomini della comunità il Giovedì Santo e la solenne e toccante processione con la bara di Gesù portata a spalla per i diversi rioni del paese il venerdì al tramonto sono i riti più espressivi in comune con la liturgia latina.
Il Giovedì e il Venerdì Santo, nonostante il periodo di lutto, le chiese sono abbellite di vasi pieni di germogli di grano, un trionfo di fili multicolori e di fiori che adornano il Santo sepolcro.
In questi due giorni le campane rimangono mute, e per annunciare l’inizio delle funzioni riappare la “troka”, il rumoroso strumento di legno usato dai ragazzi, che riproduce l’alternare di due suoni secchi e fragorosi.
Un tempo la troka era usata in molte zone della Calabria durante la settimana santa all’esterno delle chiese per avvertire i fedeli dei servizi sacri quando era vietato l’uso delle campane e anche nel corso della processione, come è usanza ancora oggi.
Venerdì, dopo il tramonto, ha inizio la solenne e suggestiva processione con Gesù morto portato a spalla attraverso i rioni del paese.
Due i cori: quello delle donne che portano la statua della Addolorata e quello degli uomini, cui è affidato il trasporto della bara di Gesù.
Suggestivi anche i canti intonati in italiano e in albanese.
Al rientro in chiesa, i fedeli prendono un fiore dal simulacro di Cristo morto o dalla statua della Addolorata per conservarlo in casa.