NAPOLI – (di Atanasio Pizzi)
“Gli Scavi di Pompei”, già il nome corrente con cui sono individuati preoccupa per il loro adeguato futuro.
E’ venuto giù l’intonaco di una volta del Colosseo, è venuta giù una parte della Domus Aurea, ed oggi la casa dei gladiatori, ma si continua a pensare, costruire e realizzare edifici concepiti per lo spettacolo e sulle futili tendenze passeggere.
Oggi siamo qui a rimpiangere un bene inestimabile che è andato perduto “grazie” all’incapacità umana.
Abbiamo persone che ci amministrano, le quali preferiscono spendere il denaro pubblico per costruire il Maxi, il Macro, la Cavea o realizzare sterili eventi atti a rievocare e concertare il nulla, invece di investire per la tutela dei monumenti che dovrebbero darci da campare attraverso l’agoniato turismo.
Questo perché le scuole che insegnavano l’arte del restauro e dalla conservazione hanno perso gli uomini di riferimento, lasciando insabbiata la difficilissima vocazione a una miriade di emulatori che non essendo adeguatamente preparati preferiscono l’abbandono dei monumenti alla assunzione della responsabilità di un progetto.
Per anni e stato utilizzando il cemento, pessimo materiale, chi l’ha inventato non prevedendo i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine.
La Carta di Atene del ’31 ne consentì il suo utilizzo, insieme ai materiali sperimentali, motivandoli perché più resistenti e capaci di riconoscere l’antico dal moderno.
Oggi però, a distanza di tanti anni, tutti conoscono, specie nelle soprintendenze, ciò che il cemento armato ha provocato, è non si è provveduto alla sua sostituzione da tutti i restauri, appena si scoprì che quel materiale non ha nulla in comune con le strutture antiche, semmai le distrugge.
Occorre rivedere l’insegnamento nelle facoltà di architettura e ingegneria, e solo allora sarà possibile garantire una riformazione idonea che possa sovrintendere adeguatamente i beni culturali.
Sicché a più di 70 anni di pessima gestione ideologica del nostro patrimonio, si deve ritornare ad operare con il sano buon senso del passato, utilizzando gli stessi materiali e le stesse metodiche utilizzati dai vecchi artigiani li dove gli edifici necessitano di interventi.
Riutilizzare le saggezze costruttive e di restauro che ci hanno consentito di godere della bellezze che tutto il mondo ci invidia, non è ammissibile che l’egoismo e l’ostinazione ideologica di malsani tecnici, storici e critici possa continuare a scardinare il nostro patrimonio, dietro l’inutile lettura del nuovo e dell’antico che si potrebbero evidenziare con dei semplici cromatismi.
Rileggendo la legge 457, in essa non si parla di “conservazione” del bene, ma del ripristino.
Nelle soprintendenze si conosce solo l’idea di conservare nel vero senso della parola e solo in rarissimi casi di “rimessa in vita” che il termine restauro prevede.
Il dibattito nasce per le inestimabili perdite, ma quanti esempi di quella che è detta patrimonio minore vengono dismessi o completamente stravolti nella completa indifferenza generale.
Ogni scarrafone e bell’a mamm’ soja, mai un detto fu appropriato come questo, per indicare l’abbandono e la poca considerazione che viene perpetrata nei confronti del patrimonio storico architettonico così detto minore.
Niente nel nostro paese può considerarsi minore, infatti, non si possono preferire manufatti rispetto ad altri, poiché ogni prodotto dell’arte e dell’architettura del nostro paese é veicolo certo della storia.
Non dimenticando mai di catalogarli o schedarli agli organi che in teoria li devono difendere e tutelare dalle manomissioni perché appartenuti e quindi identificano la comunità.
Altrimenti si corre il rischio che rari esempi di storia vengano messi alla merce di pittori, muratori e tecnici che non avendo adeguata preparazione storica preferiscano imbiancare l’interno di una chiesa risalente all’anno 1000 e che solo la provvidenziale visita di un cultore e il conseguente avviso degli organi di polizia ne impediscano lo scempio.
O succede che palazzi in cui sono state delineate le migliori strategie per evitare inutili spargimenti di sangue per l’unificazione d’Italia vengano stravolti perché affidati alla inventiva edilizia di privati.
Le basi per la conservazione del patrimonio storico architettonico dell’Italia devono partire in modo adeguato dagli esempi detti minori, tale che possano fornire validi esempi utili a risalire la china di un’adeguata gestione del patrimonio.
Ricostruendo una scuola di valide metodiche d’intervento, che all’interno contengano eccellenze e non protagonismi, ci si auspica di evitare il rivedere nei notiziari televisivi cumuli di storia ricoperti da teli che non servono più a preservare il manufatto ormai perduto ma solo a coprire le nostre vergogne.