SAN DEMETRIO CORONE (di Adriano Mazziotti) – Nei centri albanofoni di confessione cattolica e di tradizione greco-bizantina, quella di sabato 26 febbraio è stata una giornata velata di profonda tristezza, dedicata alla riflessione, alla preghiera e caratterizzata dal massiccio pellegrinaggio di fedeli nei cimiteri.
E’ stato il giorno commemorativo dei “defunti arbëreshe”, l’ appuntamento religioso più caratterizzante, partecipato e sentito nei centri calabro-albanesi.
Una commemorazione nel corso della quale si accentua, ancora più della ricorrenza latina del due novembre, il legame costante con chi ha lasciato questo mondo per sempre.
Una giornata strettamente legata alla simbologia della Resurrezione, che oscilla in dipendenza delle festività pasquali ed esattamente cade il sabato precedente la domenica di Carnevale e quindici giorni prima dell’inizio della Quaresima.
Per gli arbëreshë si tratta di una vera “festa dei morti”, celebrata alle soglie della primavera che prende il posto dell’inverno, in un periodo dell’anno in cui la natura incomincia lentamente a svegliarsi e a rinascere.
Probabilmente proprio per questa convinzione, sulla scia di una tradizione che si perde nella notte dei tempi e piena di significati religiosi, si pensa che le anime dei defunti nel giorno dedicato alla loro memoria lascino per l’intera settimana i luoghi di riposo eterno per ritornare tra i vivi, visitando quelle che una volta erano le loro abitazioni.
Ed è per questo che in molte case, dal sabato della commemorazione e per sette giorni, è tenuto acceso un lume alimentato con olio di oliva, secondo una suggestiva usanza, così da rendere alle anime “il ritorno” più agevole e gradito. Poi, il sabato successivo, il mesto rientro nelle tombe.
Due i momenti peculiari della giornata: la visita in camposanto e la benedizione del grano bollito una volta tornati in paese.
Nelle prime ore della mattina, partendo dalla chiesa madre i papàs seguiti dai fedeli si recano in processione al cimitero, recitando preghiere e intonando canti funebri in albanese.
Affascinante e alquanto arcana è l’usanza seguita dagli abitanti di San Demetrio Corone.
Sul bordo di una stele eretta tra il 1930 – 1932 lungo il viale che conduce al camposanto, in memoria dei giovani soldati Sandemetresi caduti durante il primo conflitto mondiale, la gente nel corso dell’intera giornata e anche dopo depone piccole pietre.
Non si sa come e perché l’usanza abbia preso corpo. Forse quale pegno offerto alla morte perché stia ancora lontana per molto o una sorta di “pedaggio in cambio della salvezza” o ancora un modo per esorcizzare la paura di una fine violenta e prematura, come quella che ha troncato la giovane esistenza dei soldati.
Giunti in cimitero, nella cappella viene celebrata la liturgia in suffragio dei defunti, dopodiché il sacerdote procede alla benedizione collettiva dei sepolcri, recitando preghiere in albanese e in greco “per entrare in contatto diretto con gli estinti”.
Piena di significati storici e demo-antropologici è la remota consuetudine di consumare nelle prime ore della mattina tra le tombe il frugale “pasto comune” con i morti, consistente in vino e cibarie e di offrirli ai passanti affinché partecipino direttamente alla festa in memoria degli “invisibili” .
L’antica usanza trova una spiegazione nella credenza che questi ultimi restino uniti ai vivi attraverso il cibo e i piccoli piaceri della vita, quali una bevanda abituale, una sigaretta o un dolce.
Ma anche nella convinzione che la ricorrenza non sia solo di dolore. La consuetudine di “mangiare” tra le tombe – in verità piuttosto appannata negli ultimi anni – può apparire agli estranei molto insolita o una barbara usanza. Essa è, tuttavia, simbolo e segno di comunione tra i vivi e i morti.
Lasciato il cimitero, il corteo fa ritorno in paese, dove il papàs è invitato dalle famiglie che hanno subìto un lutto recente o in passato a benedire le “Panagjie” (Tutta Santa) o “collivi”, il grano bollito, simbolo della resurrezione, contenuto in un piatto.”Il grano che muore sotto terra torna in primavera a nuova vita e produce molto frutto”, recita il Vangelo.
Sul tavolo trovano posto anche una bottiglia di vino, due pani (simboli sacramentali: il sangue e il corpo di Cristo), un cucchiaio, un coltello e una candela accesa (simbolo della luce eterna).
Dopo la benedizione il celebrante spegne la candela immergendola nel grano, quindi offre un pezzetto di pane con del grano ai parenti del defunto e ai presenti.
Carico di significati è l’ultimo atto della giornata.
Convinti che il giorno in cui venivano ricordati, i defunti “partecipassero” ai banchetti preparati dai vivi, comitive di amici si ritrovano per ricordare, in un clima di gioiosa compostezza, compagni e congiunti scomparsi, in banchetti a base di vino, formaggi e salumi, rinnovando così i conviti della chiesa primitiva.
Attorno alla tavola si lascia una sedia rigorosamente libera, e inoltre un piatto con la prima portata e un bicchiere di vino vanno aggiunti nel desco e non consumati, in quanto “riservati” al defunto più caro, che nel giorno della “festa degli invisibili” viene a fare visita nei luoghi frequentati da vivo prima di fare ritorno, il sabato successivo, nelle dimore eterne.
Forse tutto ciò sul solco di millenarie tradizioni pagane, retaggio della cultura greca “le Antesterie” (le feste dei fiori in onore di Dionisio) e latina, “le Febbruali” (che si
svolgevano verso la fine della stagione invernale e alle porte della primavera), i cui popoli commemoravano i morti all’inizio della nuova stagione con fiori ma anche con vino e vivande.
Una volta anche i poveri beneficiavano Sono solo un ricordo le scene dei poveri che bussavano nelle case per chiedere l’elemosina per le anime dei defunti, ricevendo in cambio soldi,pane o vino e olio. Una usanza spazzata via dalle migliorate trasformazioni social