SANTA SOFIA D’EPIRO (di Elio Miracco) – La cultura analfabeta si conserva, si trasmette e si tramanda con l’oralità e con la memoria, ma scomparsa la civiltà contadina tutto è affidato alla scrittura o consegnato ai computer, così il suono della campana è ovunque identico, anzi è regolato elettronicamente senza il contributo creativo del campanaro che componeva e ripresentava le proprie note a festa o a lutto.
Centro di formazione della famiglia non è più la vatra – il focolare -, e nello stesso tempo sono scomparse le piccole botteghe artigiane, dove si elaboravano e si fissavano nella mente versi e racconti da consegnare alle nuove generazioni.
Lo spazio lasciato vuoto è stato occupato da bar e ristoranti, luoghi d’incontro dei giovani che restano lontani da chi tramanda e vivono in una specie di autoesclusione generazionale, in un recinto di incomunicabilità con gli anziani, spesso con se stessi. Si è creata una bolla mnemonica, una “amnesia” che strozza lo scorrere del passato nel presente e la conseguente innovazione.
Questa non vuole essere nostalgia del tempo nel quale una bottiglia d’olio costava quanto l’equivalente di un giorno di lavoro nei campi, né commovente pietas per un mondo scomparso, ma testimonianza di stagioni estranee a chi è nato e cresciuto con la televisione, in una società preindustriale, se così si può chiamare in queste terre, economicamente povere, il repentino dissolversi della cultura contadina.
Quindi l’assenza di una memoria anche sensitiva che non percepisce più il profumo del pane che si diffondeva nelle gjitonie – vicinato -, che non vede le nonne, incanutite prima del tempo, o le mamme sedute, a primavera, sul sedile, sjeti, o sul gradino della porta di casa davanti allo sheshi-spiazzo -, filare la bianca conocchia o sferruzzare ruvide calze di lana e pesanti maglie interne per l’inverno; che non ode il sordo calpestio sul selciato degli zoccoli dell’asino rientrare, al tramonto, dalla campagna e fermarsi per dissetarsi te fìshkialari-all’abbeveratoio sopra – o posht-sotto -, o il tric trac del telaio che durante il giorno rompeva gli intriganti silenzi, e gli strilli festosi dei bambini confusi con lo starnazzare dellegalline che razzolavano alla ricerca di cibo, o il fabbro che batteva ritmicamente il ferro incandescente da forgiare; una memoria per quanti non vivono più l’alternarsi delle stagioni con i suoi riti, i suoi frutti e le feste che accompagnavano semine, raccolte dei prodotti della natura e vendemmie, per quanti hanno perduto il sacrale gesto di baciare il pane quando un boccone cadeva a terra, per chi ha dimenticato che alla vigilia dell’Epifania si porgeva l’orecchio nel tentativo di ascoltare gli animali che parlavano.
Vuole essere soprattutto un rinnovare il ricordo, almeno nei nomi, dei tanti anonimi verseggiatori che con i loro vjershè- versi – per amori conquistati o perduti, per la gioia che diffondevano con i canti negli sposalizi e per la quotidianità elevata a poesia, allietavano la comunità che viveva di queste piccole cose.
Ancora oggi si conserva qualche soprannome, Grofi i Terezines (Ceramella Gennaro), oppure il solo nome o cognome ad es. Xha- kineti (Baffa Gioachino), Miniti (Bugliari Armenio Angelo), Karuzi (Caruso Paolo), Kurti o Ciciandoni (Curti Francesco), Skorci (Scorza Vincenzo), quest’ultimo felice traduttore di poesie apprese nella scuola elementare.
Le loro voci o musicalità, vuxhet, distinguevano un verseggiatore dall’altro, tra le più conosciute continuano ad essere rievocate vuxha e Xhakinetite vuxha e Minititche nelle serenate, caso unico, cantava insieme alla moglie.
Ma la più celebre e nota aria del pipiceli1 ha perduto la sua paternità.
Musicalmente proponeva toni alti e bassi, dridhet vuxha – la voce vibra -, termine che rimanda al tessuto particolare della coha- gonna -, in seta e cotone. Si pensa che abbia preso nome da un vjersh dedicato a una ragazza che indossava quel tipo di coha, poi riferito, per espansione semantica, all’uomo kush èsht kipipigeìsaììtatur- chi è questo giovane saltatore – con il significato di “bel giovane intraprendente”.
Da quando si è affermata la società alfabetizzata, i nuovi modelli di vita o i nuovi bisogni, influenzati dalla “modernità” televisiva, respingono o rifiutano la circolazione, all’interno della comunità, di questi canti così come la scuola dell’obbligo, giustamente elevata a tredici anni, ha generato modelli culturali diversi e omologanti. II mondo contadino si è spento non in seguito a un’agonia ma improvvisamente, dissoltosi, dopo cinque secoli, nella civiltà industriale della emigrazione che ha spezzato la trama sociale del paese, lacerandone il tessuto.
Una sdrucita tela antica i cui spazi vuoti non possono la stessa moderna urbanizzazione, dagli anni Ottanta, con la costruzione di ville isolate e “falansteri” condominiali, sproporzionati alle case di uno o due piani di un tempo, ha contribuito alle ferite spaziali e il paese arbèresh, katundi, è diventato una struttura a brandelli del nuovo assetto urbano e sociale, determinando la scomparsa della gjitonia.
L’identità, elaborazione di secoli di contatti con le comunità romanze, si era mantenuta anche per il processo di conservazione, per quello che Saussure chiamava spirito di campanile o etnocentrismo.
Ma spesso ‘”altro” è stato talmente interiorizzato in un inconscio crogiolo da diventare elemento arbèresh.
Un ibridismo identitario vivo ed elaborato per gli incontri con altre culture che hanno contribuito ad arricchirne le caratteristiche.
Nel frattempo gli Arbéreshè, perduta la vitalità linguistica, tentano il recupero culturale cercando di porre degli argini con una tutela che fol-clorizza e alimenta elementi ormai diventati artificiali.
Le stesse manifestazioni folcloristiche, alle quali basta aggiungere arbèresh, “week-end arbèresh”, diventano una ricostruzione di balli e canti in costume tradizionale, con protagonisti i bambini che si esibiscono e i genitori che vivono teneramente questi momenti alla presenza di distratti spettatori locali.
Mentre qualche turista lèti- italiano – alla ricerca e riscoperta di un mondo esotico, percepisce una realtà vivente e non uno spettacolo dal palcoscenico che ripropone scene simulate, quindi una realtà artefatta.
E purtroppo da artificiosità in artificiosità si è giunti alle superficiali pubblicazioni finanziate da enti comunali nelle quali si legge di “rosa balcanico” per il colore, forse uno dei pochi in commercio a Santa Sofìa, di una casa dipinta con questa tinta nella anni Cinquanta, di “postura di guerriero balcanico” per un pastore accovacciato, o addirittura di piante urbane che richiamano la geometria dell’accampamento militare romano.
E ancora di elementi architettonici balcanici, ignorando che solamente a più di un secolo dal loro arrivo in Italia gli Arbéreshè ebbero il permesso di costruire con “calce e arena”, dopo esser vissuti in capanne che a volte incendiavano per non pagare il “focatico”.
Ormai il villaggio è diventato un villaggio globale e a Santa Sofia si vive con internet, con le televisioni satellitari, si va in crociera, si fa turismo nei posti alla moda e si frequentano scuole e università. Sono il segno del progresso che inesorabilmente incomincia ad espellere quanto non è più funzionale nella società estesasi oltre la frontiera invisibile, che un tempo circoscriveva la comunità.