NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.
una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.
Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.
La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran considerazione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché conoscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.
Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.
Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.
Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.
In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.
Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.
Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specialisti, tuttavia altri mezzi di più facile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.
In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essenzialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.
In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.
Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.
Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.
Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.
Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.
In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.
Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.
Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.
E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.
Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.