NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Quando sentiamo parlare di tutela delle minoranze storiche e come fecero gli incaricati del governo all’alba degli anni settanta del secolo scorso, riferiamo dell’art.6 della Costituzione italiana, tralasciando il dato che una minoranza non è solamente un esperimento idiomatico, rispetto al maggiore o maggioritario.
Tutto ebbe inizio agli inizi degli anni Settanta, quando il Parlamento, per attuare la tutela delle minoranze, nominò un “comitato di tre saggi” cui delegò il riconoscimento delle comunità costituenti minoranze linguistiche motivandone l’inclusione.
I designati furono Tullio De Mauro, Giovan Battista Pellegrini e Alessandro Pizzorusso, i primi due accademici linguistici e giurilinguista il terzo; essi in una relazione depositata nell’archivio del Parlamento, individuarono tredici minoranze, corrispondenti alle dodici, riconosciute con l’aggiunta dei Sinti e Rom.
Il 20 novembre 1991 la Camera dei Deputati approvò, per la prima volta, la legge n. 612 ( in 18 articoli) per la tutela delle minoranze linguistiche.
La proposta di legge n. 612 non fu approvata perché fu sciolto il Parlamento prima della sua approvazione anche al Senato.
E nel dicembre 1999, il governo D’Alema (1998-2000), la legge ebbe le idonee approvazioni per inserisrsi nei canali di attuazione.
Ad oggi se analizziamo, senza allontanarci troppo dai primi articoli della costituzione e nello specifico gli art. 3 e il 9, si evince un senso di manchevolezza fondamentale al significato di minoranza, verso aspetti materiali che l’articolo sei della costituzione, non contempla per realizzare una larga visuale di accoglienza della continuità detta minore.
Infatti, se nell’art. 3 cita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; l’ art. 9: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Si evince l’ampiezza del tema indispensabile per tutelare compiutamente la minoranza, alla luce dello stato di fatto, relegare tutto nell’art.6, si omette di considerare aspetti materiali, in senso di luogo caratteristico e caratterizzante la minoranza.
Questo spiega anche i risultati, in essere, da quando la legge ha dato avvio alla tutela, privando il percorso di attuazione dagli aspetti del costruito storico e del paesaggio naturale dove i minoritari trovarono dimora.
Se le minoranze storiche contemplate nel provvedimento, non hanno brillato in valorizzazione, si deve proprio a questa mancanza, specie nel caso degli arbëreshë, erroneamente citati come Albanesi che sono altra cosa, storicamente privi di forma scritta, quindi sarebbe stato fondamentale affiancare al genio locale a danze parlate e suoni senza radice.
Questo dato, per gli Arbëreshë in particolare, è stata una mancanza fondamentale, giacché, ad essere tutelati sono stati aspetti immateriali non riferibili a nessuna forma materiale, preferendo addirittura adottasse esperimenti “indigeni” quando è stato il tempo di citarli.
Alla luce di questi e di altri innumerevoli stati di fatto, mai ritenuti indispensabili, nelle manifestazioni che avrebbero dovuto solidarizzare la minoranza, si è ostinatamente seguita la china idiomatica, al punto tale che i riferimenti storici in figure intellettive si ritengono siano solo quanti si sono cimentati a scrivere una forma linguistica nota per la diffusione orale.
La china così intrapresa restituire uno scenario senza precedenti, al punto tale che si ignorano eccellenze dell’editoria, della scienza esatta, della giurisprudenza e delle lettere classiche solo per citarne alcune.
Preferendo oltre agli scrittori impropri e improbabili, manifestazioni, in cui l’unico elemento in mostra sono le qualità musicali, le attività danzanti e l’espressione sintetica di un costume che si identifica come tipico e in mille sfaccettature dissimili.
Ogni manifestazione non ha mai posto in evidenza aspetti materiali come il costruito storico, nonostante una lingua con la sola metrica canora dovesse avere un luogo circoscritto o naturale, dove poterla riverberare senza inflessioni anomale.
Non è stata posta attenzione verso i modelli abitativi, prima estrattivi e poi additivi, ritenendoli simili a quelli indigeni, cosi come il modello di mutuo soccorso, confuso, con quello mediterraneo che ha tutt’altra radice.
Gli errori sono molteplici e perpetrati sempre dalle stesse figure, le stesse che immaginavano e ritengono ancora possibile che ogni atto commesso o prodotto negli ambiti del costruito potesse essere un prestito indigeno mal realizzato.
Certamente questa è una leggerezza storica senza precedenti e se oggi si ritiene che la legge di tutela non sia stata efficace, lo si deve al fatto che abbia mirato solo alla salvaguardia da via monotematica.
Non ritenere che gli ambiti attraversati, bonificati e costruiti dal genio arbëreshë non fosse da considerare fondamentali, è un errore senza precedenti.
Una ben identificata minoranza si tutela identificando il territorio dove essa vive e se non è circoscritto come nel caso degli arbëreshë, si identifica come regione storica diffusa.
Essa va studiata identificata e caratterizzare con elementi finiti, gli stessi che nel meridione italiano identificano bel 109 centri antichi, ventuno macro aree, in sette regioni del meridione italiano.
Davanti a un dato di fatto cosi esteso, seguendo le vicende storiche che rendono la regione storica la più solida in senso integrativo nel mediterraneo, pretende disciplinari di tema, capaci di rendere chiaro ogni aspetto, in senso tangibile ed in tangibile.
Oggi è terminato il tempo di pensare, pretendere e ordinare, che gli alberese sono un esperimento linguistico o esclusiva di una ventilata favella diversa.
Un paese arbëreshë nasce perché è il risultato di un pensiero antico, ideato dal genio arbanon locale, comprenderne il valore non è un esperimento di quanti non possiedono titoli; e ad essi che si raccomanda almeno di vivere con semplicità la conservazione di un paese arbëreshë, cercando di non trasformarlo continuamente in un cantiere a cielo aperto, dove ogni cosa è consentita, compreso cancellare strade della storia locale con adempimenti comuni, solo perché non si è in grado di progettare e capire dove si mettono le mani, quando si tratta dei solchi della storia.