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VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË  (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

VERNACOLARE SONO LE ARCHITETTURE DEL PRIMO BISOGNO ARBËREŞË (Kalljve e katokjetë i motithë tònë)

Posted on 25 aprile 2025 by admin

DSC_1008sNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Vernacolo dal latino vernaculus appartenente ai servi nati in casa, e quindi domestico, paesano, da verna vesna schiavo natio da una schiava in casa, del padrone.

Il parlato deriva dalla radice vas-ana abitare, restare, fermarsi, vas-a, vas-ana abitazione, vas-tu, citta, vas-tu, sito, casa, vas-tya, abitare rimanere stare città, asteios cittadino.

Verna dunque e una di quelle parole portate dall’Asia nel suolo italiano dai primi emigranti, e per questo si trovano isolate dalla lingua latina e non trovano l’interpretarsi con l’aiuto del sanscrito.

Gli antichi perciò la spiegarono con ver-nare germogliare a p r i m a v e r a:   lat verë, paragonando i nati dalla schiava locale, ai germogli o frutti di quella terra.    

Oggi la voce Vernacolo rimane solo come attributo, della lingua naturale d’un paese, in quanto si scosta dalla lingua comune, ma la parola sarebbe la Lingua dei Servi, quindi plebe volgare.

In tutto, “vernacolare” significa “nativo di un luogo”, riferendosi, per questo a qualcosa che è proprio di un luogo, di una regione o di un popolo specifico.

Le case vernacolari, o architettura vernacolare da ciò, si riferiscono a edifici che si adattano alle condizioni ambientali, ai materiali disponibili e alle tradizioni locali di un’area geografica specifica.

Esse sono spesso costruzioni semplici, frutto di conoscenze tramandate di generazione in generazione e, si concretizzano nella espressione architettonica spontanea di un popolo specifico.

Con essa si vogliono indicare gli elevati abitativi costruiti secondo le tradizioni bisogni, locali, con materiali del posto, senza utilizzare modelli tipici dell’architettura storica fatta dai professionisti.

Da ciò l’espressione “vernacolare” è semplicemente la tipologia di una cultura locale, non “importata” o “standardizzata” da maestranze specifiche, perché segue il bisogno primo e, quindi, in continua evoluzione.

Ed essa si manifesta negli elevati di un paese o di una regione particolare, a questo va anche aggiunto che l’aggettivo è un sostantivo relativamente recente, nonostante l’etimologia latina e, compare infatti solo a partire dal XVIII secolo. 

L’architettura “vernacolare” è in sostanza, “architettura dell’aria”, come citato da Yves Klein e, questa espressione immaginata pensata e realizzata in funzione delle cose che un determinato ambito sviluppano i suoi abitanti e, in linea con le cose che qui offre la natura.

In tutto, l’edificato è ideato rispetta i tre criteri dello sviluppo sostenibile, ovvero: sociale, economico e ambientale, promuovendo e valorizzando le attività sociali e professionali all’interno di un nucleo abitativo nascente.

Gli immobili o cellule prime, sono costruiti servendosi delle risorse disponibili nella regione e il maggior vantaggio è che resistono meglio alle condizioni metereologiche tipiche di questi luoghi e partecipa alla valorizzazione del patrimonio senza incidere ne sulle prospettive naturali e ne sull’ambiente che non deve prodigassi a subire alcuna invasione. 

Il costruito per questo si iscrive in un contesto di rispetto dell’ambiente, del clima e occupa un posto importante nella riflessione architettonica, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di temperamento abitativo. 

Alla luce delle cose esponete in questo breve, potremmo definire, il costruito secondo i principi del bisogno locale come “un edificio appartenente ad un patto nato da un movimento di attività locali stipulato dalla natura e dall’uomo con la supervisione del tempo”.

Il sancito denota il fatto che un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca, durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato il realizzato secondo la necessità di bisogno.

Questo antico modo di costruire per necessità è stato uno dei cardini che hanno consentito alla minoranza di radice Arbëreşë, allocatasi nel meridione italiano dal 1469, per addivenire a quel modello di integrazione tra i più solidi e duraturi di tutto il mediterraneo.

Infatti essi una volta definite con gli indigeni locali ambiti e spazi di loro pertinenza hanno dato seguito al costruito sia in agro e sia nei centri antichi dei modelli del bisogno che appellarono “Kalljva e Katoj”, la prima in memoria della terra parallela da cui furo costretti fuggire o luogo del governo del genere maschile, la seconda come luogo dove sostenere la propria consuetudine sociale, grazie al governo delle donne.

Qui si apre una nuova diplomatica, che mai da nessuna istituzione ha immaginato di affrontare per essere idoneamente diffusa, tuttavia chi volesse approfondire questo nuovo discorso delle storiche attività che gli Arbëreşë, giunto nella regione storica no citato in sgrammaticati e riversi concetti, ma esclusivamente nel cuore e nella mente di chi è cresciuto sotto il governo delle donne e poi seguendo nel pieno rispetto i docenti Olivetani.

E chi volesse approfondire, l’argomento per che manchevole di formazione del bisogno, basta che si rechi a Napoli e dialogare con lo scrivente, senza avere il bisogno di salire in cattedra, giacché solo chi siede in platea è migliore, di chi siede in questi seggioloni ammortizzati, che di sovente non hanno lumi per intravedere le prospettive di questo nuovo orizzonte, di parlato e di ascolto del bisogno formativo vernacolare, che si trova depositato nei centri antichi vissuti dagli Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-25

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LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

LA TERRA LACRIMOSA DOVE SI CANTA SEGUENDO LE ARMONICHE DELLA LUNA (Ştruènë motin i şcurturë e şuitjnë motin e madë)

Posted on 24 aprile 2025 by admin

KesaNapoli – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il revisionismo mette in dubbio ogni cosa e, costruire la memoria è un impegno che non deve essere mera memoria tramandata o lasciata nelle diponibilità dei comuni viandanti locali.

Esiste una Terra dove la popolazione oggi vive in dormiente attesa, nel prodigarsi a sviluppare l’inopportuno servilismo di riconoscenza, nei confronti del nero impositore economico di turno.

Ed è così che si smarrisce, si abbandonando e ci si inchina ad ogni, sorta di memoria, compilata con fatui ideali, che rendono gli uomini e un luogo, esempio di sgradevole progresso scambiato per cultura e consuetudine locale condivisa.

L’attuale congiuntura sociale di restrizione, fa emerge con prepotenza il potere o forza strutturata come plasmare attivamente le dinamiche sociali, culturali e persino etiche e di credenza in questa “lunatica società nascente”.

E con sempre più risalto, si manifesta la forza dell’apparire, dell’individualismo egocentrico più estremo, plasmando e modellando sempre di più il paradigma culturale dell’esaltazione del singolo/i a scapito della collettività, vive e sostiene la mente con il fatuo collettivo più degenere, a scapito della farina e della crusca che poi sono gli ingredienti più salutari per tutti i generi, perché risultato dell’operato condiviso di uomo, natura e territorio.

A questo stato di fatti e cose senza alcuna radice riconosciuta, è la deriva più invasiva, che erode progressivamente le coscienze locale, la quale una volta istituita, senza ragione di comune progresso e convivenza, si espande e rende tutti più soli dalla realtà delle cose.

Il risultato della deriva che poi è strutturata nella struttura sociale e di credenza induce a condividere interessi e obiettivi politici, sempre più flebili, indotte dalle logiche del mercato globalizzato e dalla centralità narcisistica a tutti i costi.

Il potere economico e di credenza, nella egocentrica espansione e deregolamentazione, agisce come agente corrosivo e, rende sempre più labili le consuetudinarie barriere di bene comune.

A capo della deriva si dispone il processo che vuole marginalizzare le specificità culturali di luogo, devastando le tradizioni locali e i quei sistemi consuetudinari di antica radice, ritenuti dal potere economico non possibili da allineare con le imperanti logiche del profitto e della non efficienza.

In questo contesto, la sistematica abolizione di ogni figura o atto di classe, non è un effetto collaterale, bensì una condizione funzionale alla perpetuazione di un sistema che prospera sulla competizione individuale e sulla dissoluzione delle identità collettive che sono state storicamente antagoniste a questa nuova deriva imperante, analfabeta e sgrammaticata.

Le istituzioni culturali e sociali, un tempo depositarie e dei solidi modelli culturali egemonici e di paradigmi di pensiero strutturati (siano essi scientifici, filosofici, letterari e di credenza), appaiono oggi in una fase di progressivo adeguamento alla sottocultura di massa, che si espande senza limiti, evitando ogni forma di ascolto tra adulti e giovani in evoluzione.

La Chiesa, la Scuola, l’Università e le Associazioni, un tempo erano o meglio rappresentavano il sole di un’alba che durava il tempo della luce “alta e memorabile” e, oggi cedono alla pressione di una cultura popolare e mediatica che privilegi di “restanza senza ascolto” ma pronte ad essere impotenti divulgatori, inclini alla mera spettacolarizzazione effimera che fa “luna crescente buia e immorale”.

La trazione che un tempo sosteneva la culturale non risiede più nei modelli delle storiche figure intellettuali, oggi genericamente ignote e la “restanza” si mantiene ben distante dall’ascolto dei protocolli tradizionali, colmi di consuetudini e metrica che consente prima di tutto il verificare cose reali dal fatuo.

Infatti lo stato delle cose privilegia l’attrattività pervasiva e la capacità di aggregazione di masse disposte ben lontani dai cunei della cultura che sviluppava i suoi frutti secondo le stagioni del germoglio, la fioritura e i frutti ben maturi da cogliere nel corso della “stagione lunga”.

Tutto questo induce le persone a disporsi perfettamente allineati, pur di non rimanere ai margini di questo “fantasma culturale moderno” che nasce si sviluppa o cresce al buio della “stagione corta” la stessa, facilmente identificabili nel mercato dell’intrattenimento, che ti rende un giullare senza corte o pagliacci senza un circo equestre.

Tuttavia resta un dato, ovvero: se un asino va in una reggia, non è l’asino a diventa re, ma la reggia a diventare stalla; questo è un modo di dire ricco di significato, usato per sottolineare che non basta mettere qualcuno in un contesto prestigioso o elevato perché assuma automaticamente le qualità adatte a quel contesto.

Anzi, spesso accade il contrario: è il contesto stesso a decadere, adattandosi all’inadeguatezza di una ben nota e specifica figura di genere.

In parole povere: se metti una persona rozza, ignorante o incapace in una posizione di prestigio o potere, non sarà lei a migliorarsi, ma sarà l’ambiente stesso a perdere valore.

Tuttavia, allo stato delle cose sono le istituzioni stesse a mostrarsi grandi per una crescente volontà di avvicinare questi modelli culturali “bassi e senza alcuna radice culturale alta”.

Si assiste a un rovesciamento della dinamica tradizionale e, se un tempo la cultura egemone imponeva i propri valori canonici e, la sottocultura rimaneva un fenomeno periferico, oggi, nell’era della globalizzazione e del primato del potere economico, è quest’ultima a dettare la linea di sviluppo secondo la misura che storicamente non genera cultura.

La museificazione, amplificata dalle logiche del sistema economico, si configura come un vento capace di penalizzare cultura/religioni e, pur se la sua azione non sembra di efficacia tale da velare ogni cosa essa è capace di lasciare gli orizzonti liberi, deformandoli con echi e miraggi riverberati e senza regola.

La spinta dell’omologazione di gusti, comportamenti e credenze conduce a un progressivo affossamento di quelle forme di pensiero che storicamente hanno reso migliori gli stati le cose e gli uomini.

In definitiva, il massificare o museificare le cose, alimenta il sistema economico che privilegia l’individuo che fa uso di questi prodotti di materia ed immateria del profondo cambiamento, la stessa che poi si riverbera seguendo la luna piena e mai il sole.

E se prima esisteva un regno dove il sole non tramontava mai, la globalizzazione ha creato un regno dove a non tramontare mai è la flebile luce della luna, che non ha mai fatto giorno.

Tutto questo è facile da intercettare in tutte quelle ricorrenze o momenti condivisi e,  quanti dicono di voler valorizzare la “Regione Storica diffusa e Sostenuta In Arbëreşë” poi termina solo in penosi atti dell’apparire e con messaggi di sottomissione, esponendo cavalli e cavalieri, che non guardano mai dove nasce il sole, ma solo dove la luna si presenta indegna ad illuminare.

A tal proposito valga la citazione secondo cui per globalizzare, appare concretizzando forme delle quali i midia in senso generale è bene elevare i Katundë, tipici della minoranza arbëreşë, cosi come per altre culture, l’identificazione dei luoghi costruiti del bisogno vernacolare, tradotti in Italiano, in Paesi, Contrade, Frazioni, Porti, Approdi e Golfi di accoglienza, oltre ogni genere del costruito di epoche e luoghi.

In tutto quella che venne appellata il tempo del lume in risalita, identificati ed offesi con l’appellativo di “Borgo”, in senso di “bovari medioevali”, ovvero il tempo della luna calante che piegava ogni genere umani in ogni dove.

Il tempo dell’oscurantismo e della società fatta di piramidale gestione, il luogo dove l’uomo veniva misurato per essere collocato nel suo cerchio infernale di pertinenza, in favore solo del principe castellano e la sua discendenza, poteva decidere chi poteva e non doveva progredire.

Solo i media, figli della sottocultura si arrogano il diritto di istituire o allestire, addirittura un festival, dove ed essere privilegiato è solo ed indiscutibile “Borgo dei Borghi” che non ha mai fatto la storia dei generi tutti, preferendo quella di alcuno.

Per concludere si vuole sottolineare le ricostruzioni storiche che si attribuiscono alle ballate tipiche che segnano l’inizio della stagione lunga, il sole che sorge e mette la luna in secondo piano.

Peccato che anche per questa rievocazione che nessuno ha mai relazionato e per questo ignaro del valore linguistico di questi momenti di giubilo comune.

Purtroppo poi tutti terminano in concerti di cornamuse, strumenti a mantice e corde, che tutte assieme, fanno il patibolo delle cantate di genere degli Arbëreşë, che non sono i modernizzati Albanesi o Albanisti dirsi voglia.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                             Napoli 2025-04-24

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STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i  mëmesë pà  redë thë gnë khëmbë)

STOFFE COMPILATE CON TRAME CHE UNISCONO LA CASA E LA CHIESA (Thë bhënurat me Argalljnë i mëmesë pà redë thë gnë khëmbë)

Posted on 22 aprile 2025 by admin

Arazzo2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il mercato della seta, raso e stoffe pregiate in Calabria, conobbe il suo massimo splendore tra il XV e il XVIII secolo.

Con mete di scambio luoghi come Catanzaro, Reggio Calabria, Monteleone (Vibo Valentia) e San Giovanni in Fiore (Cosenza), grazie alla presenza di un pregiato artigianato tessile locale, che faceva largo uso dei filamenti naturali di ginestra, cotone e baco da seta diffusamente in ogni Katundë.

Tuttavia, il declino di questa risorsa locale, ebbe inizio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a causa di vari fattori, innescati dalle vie di scambio Francofone, Anglofone e d’Oriente.

E ancor di più, quando la richiesta in queste terre, venne indirizzata alla produzione di olio per facilitare le rotative industriali britanniche, che demandavano olio e, non più filamenti di tessitura, dando avvio per questo alla estirpazione dei gelseti sostituita da uliveti.

Ben presto lo scambio divenne florido, commerciando olio a misura di “litro” in favore anglosassone che era fatto di quattro pinte.

In otre, incise anche le crisi economiche e politiche legate alla fine del Regno di Napoli e all’unità d’Italia, che mentre industrializzava il Nord, rendeva poco competitiva le produzioni Meridionali in senso generale, dove prevalevano senza soluzione di continuità, le metriche artigianali non competitive, a cui si aggiunse la malattia del baco da seta, come la pebrina, che penalizzarono, non poco, la filiera della produzione serica e dei filamenti.

Possiamo dire che il mercato del tessile di Calabria assume una forma flebile, nella seconda metà dell’Ottocento, anche se alcune attività artigianali residuali continuarono senza sosta, ma non in grado di rispondere al mercato che migra.

Da ciò l’assemblaggio di vestiti nuziali, tipici della regione strica diffusa e sostenuta in arbëreşë, si dovette rivolgere a fornitori partenopei, almeno sino alla seconda decade del secolo XIX, quando le nuove leve che ambivano ai voti clericali, iniziarono a frequentavano il “collegio romano di formazione greco bizantina”, giacché Sant’Adriano aveva trasferito le funzioni, di Vescovato e formazione Clericali, mantenendo esclusivamente la Scuola Collegiale civile.

Furono molti di questi gli aspiranti clerici, a fare da ponte con i Katundë arbëreşë di Calabria citeriore, veicolando stoffe ornamenti e decori, atti a sostenere la vestizione femminile di tradizione locale.

E anche se all’interno della Città del Vaticano, non erano presenti negozi di stoffe o merletti di pubblica vendita, era possibile trovare articoli tessili, per vesti religiose di alta qualità, nelle immediate vicinanze di Roma Capitale.

Restano note la ditta di Gammarelli, Comandini, Galleria San Pietro, Desta e Sartoria, incorniciate dal 1798 nello storico contesto di confine delle due città Capitoline, in tutto una simpatica coincidenza che rappresenta l’armadio di credenze sulla Terra, che va della casa e, lungo la via che unisce tutti gli ideali di credenza.

Tante pieghe di stoffa ben composte, che poi si ritrovano nell’abbigliamento ecclesiale e femminile delle consuetudini degli Arbëreşë.

Sorge dunque spontanea la domanda: le donne Arbëreşë dopo la chiusura della via della seta e in Calabria, escludendo la breve parentesi Partenopea, dove trovavano gli elementi che caratterizzavano il vestito tipico di donna, sposa regina della casa, vedova e vedova incerta di un tempo?

La risposta sorge spontanea o meglio, la risorsa nasce grazie ai giovani che seguirono la via della devozione nelle scuole ecclesiali vaticane e, mia madre nel corso degli anni cinquanta sino alla fine degli anni settanta usava questo canale per reperire merletti e tessiture dorate da sostituire a molti indumenti di vestizione ormai invecchiati.

Non Solo la Sarta Adelina di Santa Sofia ma molte altre, nei centri antichi limitrofi, avevano come riferimento un B. Golia locale, i quali lavorando presso il Vaticano, potevano fornire le stoffe e i merletti secondo la giusta debita misura che solo qui trovavano commercio.

In genere erano persone disponibili, preparata e consapevoli di cosa potesse intendersi per ogni richiesta, che le sarte di ogni Katundë necessitavano e, con tanta perizia e memoria del costume locale, riportavano o inviavano nel Katundë, quei frammenti richiesti e indispensabili a restaurare o in molti casi cucire ex novo, l’indumento di tradizione danneggiato o mancante, per le famiglie più legate alla consuetudine Arbëreşë.

A tal scopo torna in mente il periodo appeno giunto a Napoli per intraprendere i miei studi di architettura e offrivo, continuamente la mia disponibilità a mia madre Adelina, a reperire stoffe e fasce dorate, ma lei riteneva che Napoli non fosse eccellenza, in quanto le misure di sviluppo in altezza delle fasce dorate non avessero la dimensione in misura di palmo napoletano ma solo la meta.

Per questo doveva sovrapporre la stessa trama che non risultava essere un lavoro di mano esperta, perché, ripetizione di trama modesta.

Così anche per altri elementi che chiedeva e dandomi frammenti di tessitura, misura e coloritura, che qui a Napoli non ho mai trovato, mentre richieste a Golia, nel breve i nipoti che frequentavano il Collegio di formazione clericale a Roma portavano, il richiesto in perfetta tessitura, misura e coloritura, quando tornavano nelle festività e in vacanza, ndë Katundë.

Tuttavia al giorno d’oggi rievocare questi epici frammenti della storia del costume danno la misura delle inquietudini e i sacrifici che il governo delle donne arbereshe dovette superare per dare lustro e merito alla vestizione in ogni pregnante momento rappresentativo della loro esistenza.

immaginare che il gusto estetico di vestizione, possa ricomporre, nuove vesti di tale peso, esse non troverebbero vetrina se non in particolari momenti di giusta, falsa e ridicola rievocazione museale, come impunemente avviene.

A tal fine sarebbe il caso di avviare le rotative oleandole con olio di oliva DOP e non con quello dei refusi di lavorazione, per realizzare un’opera epocale che riunisca come facevano le vesti del governo delle donne un tempo, tutta la cultura storica ormai allo sbando e che non trova misura in nulla, se non poetizzando suonando e favoleggiando ogni cosa.

L’unica risorsa che rimane ancora viva e si può riprendere con garbo e senso, è l’arte manuale delle tessitrici Arbëreşë e, allora perché non tessere la storia, dai tempi della nascita del nostro eroe, il parlato, le consuetudini del bisogno e la credenza, senza fare nodi o alcun intreccio irregolarità di politica e cultura irregolare, in tutto “un arazzo Arbëreşë” dove si possa disporre secondo la luna ed il sole, la storia e dove evidenziare chi è dovuto migrare per non dover soccombere alle necessità di credenza di chi rapiva i figli altrui per fare discendenza di minareto.

Il tutto per essere una compilazione ragionata e precisa, a iniziare dalle dimensioni che devono essere contenute in 13 metri, per un’altezza di 89 centimetri: ovvero; la data da cui ha inizio la pena di storia Arbëreşë a cui è sempre stato imposto di fare campanili altrui, ad opera dei prevaricatori di turno e, meno adatti dirsi vogli.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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Cattura9

ANCHE CHI PARTE CRESCE E TORNA SA INTERSECARE LE COSE PER FARE MARCHI ARBËREŞË (Satë mosë birmi palljenë tonë)

Posted on 17 aprile 2025 by admin

Cattura9

NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Essere Partiti il 18 gennaio del 1977, con la promessa di rendere merito alle cose essenziali del loco natio e, darne valore economico senza il bisogno di museare quell’economia parallela dei suoi storici cunei agrari è una grande promessa data.

Tuttavia quella storica promessa, fatta nella “Somma Trapeza” non è stato semplice da mantenere, sostenere e portare a buon fine, perché le chine da superare e le ire gratuite indirizzate, non trovano, ancora oggi sedici aprile del 2025, fine di continuità.

“Chi parte torna e fa memoria, chi resta ne smarrisce i senso” trasforma questa frase in un tono poetico riflessivo che, lega viaggio esperienze, ritorno, applicazione, e memoria per valorizzare gli antichi luoghi.

La frase è un proverbio che esprime la differenza tra chi vive un’esperienza in prima persona e chi la osserva da lontano, essa non è attribuita a un autore specifico, ma saggezza popolare condivisa in molte culture del vecchio continente.

Un concetto simile è espresso nella frase: “Odiarsi è più facile di quanto si creda, e la grazia consiste nel dimenticarsi”.

Anche se non identica, questa affermazione sottolinea l’importanza del dimenticare, suggerendo che la vera grazia, risiede nel non ostinarsi.

In sintesi, un pensiero condiviso sulla memoria e sull’esperienza, di due aspetti che se opportunamente intersecati posso portare al successo sociale di un ben identificato luogo.

Tuttavia se scomponiamo le fasi, si ha visione chiara di quando possa essere utile allontanarsi dai lenti luoghi natii, per fare esperienza maturare e dinamica al pensiero, mantenendo sempre vivo gli storici principi locali, gli stessi che si possono intravede, in ogni luogo dove si vive l’atto del produrre, fare economia e, quando si torna si ricompongono quelle prospettive di progetto in memoria rinnovata.

Per questo chi si allontana, viaggia, lascia un luogo o condizione di memoria e al ritorno, si ricorda, riflette, rielabora nuove prospettive che possono vantaggiare quelle generazioni spente o prossime ad inginocchiarsi alla globalizzante locale più in auge.

Il distacco permette di vedere le cose da una nuova prospettiva, la stessa che in ogni luogo visitato appare all’orizzonte con emblema le case natie e familiari.

Diversamente da quanti non si muovono e restano legati a dinamismi rigidi lenti o addirittura statici, gli stessi che fanno smarrire il contatto con il significato e il ricordo autentico, forse perché troppo immersi nel buio quotidiano che crea l’isolatamente in forma di riverbero.

Il tutto poi si trasforma e diventa, nenia fastidiosa che ti rende debole e senza prospettiva di rinnovamento o dinamismo alcuno.

Questa potrebbe esse interpretata come una lode al viaggiare, inteso non solo in senso fisico, ma anche interiore, che da agio all’essersi allontanati per comprendere, per ricordare meglio lambito locale intrecciato come una nobile tela con altre realtà produttive semplici e connesse dalle forme agri silvo pastorali, le stesse che hanno dato notorietà agli Arbëreşë nel corso dei secoli.

Tuttavia recuperare un’antica filiera agricola è un processo affascinante, un parallelismo che interseca, cultura, economia locale, territori, natura e, con mira di far coincidere passaggi che contribuiscono a guidare con garbo il recupero.

Questo non è un adempimento semplice, infatti richiede informazioni storiche, documentali, che possano far immaginare prospettive nuove avendo riguardo dei racconti orali di memoria locale.

Tutte quelle consuetudini parallele di tecniche e saperi antichi custodite e non documentate se non nelle vicende sociali che in questi ambiti era espressione indelebile del governo delle donne, sostenute dalle attività di quello degli uomini.

Il tutto per identificare, quali varietà di piante o razze animali venivano utilizzate (es. grani antichi, vitigni autoctoni, razze rustiche).

Studiando le tecniche agricole tradizionali, rotazioni, concimazioni naturali, sistemi di irrigazione antichi, coinvolgendo agricoltori locali, associazioni, scuole, università o istituzioni.

Perseguendo il fine di ricercare per creare una rete di interesse attorno al progetto, intercettando mulini, frantoi, cantine, caseifici o magazzini antichi, realizzando il restauro per il più idoneo riutilizzo.

La dinamica tipologica locale di ogni cuneo agrario o della trasformazione mira a reintrodurre colture/razze autoctone con metodi biologici o rigenerativi.

Poi se la ricerca o meglio la radice del progetto ha come scenario il valorizzare prodotti tipici della Presila Cosentina, come i Grani antichi, nelle varietà locali come il Senatore Cappelli, ma anche altri grani duri e teneri, adattati all’altitudine della collina, il cuneo geografico è di rilevanza strategica, l’insieme renderebbe possibile il recupero della filiera del pane, della pasta e dolci tradizionali.

Se a questo affianchiamo la storia dell’ulivo locali come la Carolea, qui molto diffusa, riattando e facendo rifiorire, gli uliveti storici, eseguendo la raccolta a mano e, riattivare l’antico concetto di olio extravergine di alta qualità, prodotto in loco e senza attesa di macerazione, facendo ruotare gli antichi frantoi a ciclo continuo e del breve tragitto a pietra.

Non da meno sarebbe risvegliare l’antica risorsa, della viticultura e puoi puntare su varietà locali come il Magliocco Dolce, Greco Nero, o il Mantonico, realizzando vitigni resistenti (con l’aiuto di istituti agrari) piantando i roseti come vigilanti naturali dei filari.

Vale cosi anche per i noti allevamenti di pecore e capra, collocando l’antica e onnipresente “mursica” che prima era in ogni famiglia di queste storiche macro aree.

Il tutto darebbe agio alla produzione di caciotte, ricotte fresche e stagionate, butirro, predisponendo e avendo cura di riattivare gli originari pascoli, caseifici artigianali, o piccoli laboratori.

Non da meno sarebbe utile la produzione e selezionare di Fagioli, ceci, lenticchie rustiche, senza dimenticare le patate e della Sila IGP, il tutto commesso a una filiera bio integrata con cucina e trasformazione o punti di accoglienza, racchiuso in una filiera corta o comunitaria.

Una Micro-filiera “Vino, Olio e cereali” di Calabria citeriore degli Arbëreşë a cui affiancare grano antico locale e, oliveti.

Avendo cura di collaborare con mugnaio artigiani locali, in grado di produrre di olio EVO e farina integrale a pietra, con lievito madre, a cui affiancare eventi di degustazione “Bukë e Valljë”

Quello che ad oggi manca è un marchio unico che garantisca il valore di tutti i prodotti naturali che erano la primizia alimentare del Governo delle donne Arbëreşë, cose fatte con continui abbracci di amore e manualità che passava da madre in figlia, le stesse che hanno sostenuto questo popolo antico, a integrarsi ed essere considerati i fautori dell’economia in diverse macroaree delle sette regioni del meridione, oggi identificate come Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë; che non è l’Albanistica Arberia senza radice e solidità che non trova germoglio alcuno.

Se a tutto questo ricordiamo la memoria storica di queste terre ambite, da tutti i popoli europei che le ritemevano le più soleggiate e climaticamente equilibrate, di tutto il mediterraneo.

Infatti il sud dell’Italia di tutte le terre d’Europa, rientrando tra i paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, quindi i più centrali, non sono mai stati mira di popoli che la volevano sottomettere distruggerle, schiavizzare o violentare, ma viverci in comune convivenza con gli indigeni locali, in agio di vita lunga.

Tuttavia resta un dato fondamentale; che a valorizzare il territorio non possono essere le filiere lineari di un mero prodotto solitario, ma la tessitura del genio di chi è partito in concertazione con le forze umane e naturali di un ben identificato luogo, tutto il resto e fatuo, che non fa buona farina associata alla salutare crusca Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                Napoli 2025-04-16

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KATUNDI IMË

KATUNDI IMË

Posted on 10 aprile 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricercare attorno a un Katundë, vuol dire analizzare le diverse realtà ed indagare sulle figure formali dell’organismo urbano, le morfologie insediative, le diverse tipologie vernacolari e architettoniche, ma soprattutto gli spazi all’interno della trama costruita e prendere forma, senso e tempo, dei sistemi di socializzazione poste in essere nel corso dei secoli.

Infatti gli spazi pubblici di tutto il Mediterraneo costituiscono un patrimonio culturale di rilevanza strategica e, da sempre hanno costituito il fulcro della “centralità” e non la borgatara periferica ridda circolare in difesa.

Il simbolo di questi modelli è la centralità della croce avvolta da cerchi di iunctura familiare e, fin dall’antichità il punto centrale assume ruolo “cruciale” che unisce e fa incontro di ogni Katundë.

I luoghi simboli dell’incontro sono gli spazio pubblici, il luogo di relazione tra i cittadini e, l’uso pubblico diventa il primo governo di questi luoghi liberi.

Lo spazio di relazione è costituito da elementi urbani, territoriali e sociali, in relazione alla forma, la storia e la struttura del Katundë, con i suoi fondamentali quattro sheshi, dove le funzioni sociali e culturali, sono i recinti ideali in cui si allevano le nuove generazioni con le quali la civis, progredisce in ogni cosa insieme.

Gli spazi di relazione rappresentano Gjitonia, il modello ideale senza spazi di confino, per questo non è individuabile alla pari di Katundë.

Questi agglomerati urbani del bisogno, sono ancora oggi, scrigni ricchi di storie, ricordi, simboli, tuttavia negli ultimi anni sono avvolti da una miriade di nuove costruzioni che ne hanno cambiato il profilo e la forma e sin anche la misura delle strade.

I centri storici dei Katundë sono patrimonio dell’umanità, e dovevano essere considerati, “delicati organismi” da, estrapolare dai canali e le pressioni del turismo di libero accesso, rimanendo immensi nell’inutile traffico che senza tregua, stravolge le reali prospettive che non erano fatte per parcheggiare.

Difendere i centri antichi di questi agglomerati in forma di Katundë, non vuole dire imbalsamarli o impedirne ogni adattamento a nuovi stili di vita, perché in questo modo si darebbe agio a tematiche ancora più pericolose desertificandole e, trasformando ogni cosa in scenari nostalgici e comunque indebolendone il valore abitativo che diverrebbero al pari di un parco o banale osservatorio di un tempo senza vita.

Per questo valorizzare i modelli abitativo del mediterraneo, che non sono assolutamente paragonabili a borghi, bisogna saper coglierne la straordinaria capacità di assorbire e reinventare spazi di vita endogena, in conviviale integrazione esogeni.

Da sempre questi centri antichi collinari e montani del mediterraneo vivono di storia e architetture del bisogno importata da altri luoghi paralleli.

Sono proprio questi ad aver saputo metabolizzare e a volte addirittura riesportare presenze nuove, come non è accaduto nelle terre ad est del fiume Adriatico che non ha stoicamente abbracci naturali lungo le sue coste.

Per questo difendere e tutelare i centri antichi di radice Arbëreşë significa valorizzare l’identità di uno specifico luogo edificato, la propria natura storica del bisogno vernacolare, il tutto capace di assorbire e adattarsi alle culture e le popolazioni che nel corso dei secoli le hanno percorse, abitate e sostenute ampliandole a misura.

C’è la necessità di preservare il più possibile l’eterogeneità di attività e di usi che li ha sempre caratterizzati e, nelle analisi di valorizzazione del territorio e in generale in quelle per la riqualificazione, la riflessione sulla perdita di valore degli spazi di relazione storici a svolgere la loro funzione d’incontro, mentre i nuovi luoghi di relazione delle pratiche quotidiana, delle nuove generazioni devono essere ben distinte se proprio non si vogliono accogliere i sensi della Gjitonia, al femminile materno.

La questione degli spazi di relazione sembra un problema nodale nel processo di rigenerazione di questi ambiti, infatti pur essendo validissima e tornata in auge la sua radice di crescita e incontro, come elementi di aggregazione.

Un Katundë “si compone materialmente di due parti che si compenetrano strettamente: spazi liberi e spazi costruiti.

“Gli spazi liberi sono di due tipi: pubblici e privati.

I primi, comprendono le strade, le piazze, gli spazi di pascolo pubblico dell’epoca delle costrizioni di alba e tramonto. Gli altri sono e rappresentano gli spazi di ogni famiglia dove era si sosteneva l’orto botanico, in tutto la garmaccia di iunctura familiare.

Tuttavia secondo le epoche la superficie urbana è ripartita in modo molto differente e l’evoluzione alla crisi epocali si manifesta nell’intricato labirinto di questioni che si possono affrontare solo se si raccolgono gli aspetti geografici, storici, architettonici, artistici, urbanistici, economici, sociali o i risultati delle ricerche di discipline “contigue”.

Anche se non è mai facile tenere insieme una gran mole di dati e un grado di approfondimento accettabile nello studiare e tradurre la toponomastica storica costantemente e impietosa li presente in memoria.

Se a questo sommiamo i modelli sui quali ragionare e, tale difficoltà si accentua e sono quasi nulle le figure a cui fare riferimento per ricucire questi labirinti di storia legata a eventi di una radice antica che non trova editi per essere accolta. o criticata

Dopo un lungo periodo di stasi, si sono moltiplicati negli ultimi anni gli interventi destinati alla salvaguardia, al miglioramento e alla rivalutazione di questi spazi senza conoscerne radice uso e valore soprattutto al femminile dove ogni genere in crescita trovava la propria dimensione.

La ricerca che qui si prova a proporre ad ogni amministrazione, istituzione ed istituto, si muove su diversi piani, ciascuno dei quali necessario per giungere ad una attenta qualificazione delle modalità nuove di funzionamento che gli spazi di relazione dovrebbero avere, ma ad oggi nonostante i tanti segnali non si ha alcuna adesione.

La considerazione che lo studi organizzativi degli spazi di relazione ed in particolare quelli storici può essere considerato un passo obbligato per la comprensione moderna di un Katundë, per proiettarsi verso progetti consapevoli dei significati e delle identità locale.

La riflessione sulla valenza del concetto di spazio di relazione diventano elementi portanti della struttura della ricerca a supporto di tesi che potrebbero essere dannose per la memoria.

Ossia riconoscere come luogo di accoglienza, confronto e incontro, con luoghi di crisi e conflitto ma anche luogo delle opportunità che avviano processi di salvaguardia dell’identità attraverso interventi di riqualificazione urbana con esiti di natura culturale, economica e sociale.

La ricerca ad opera dell’Olivetaro è rivolta all’analisi dei meccanismi che hanno generato dato senso alla distribuzione degli spazi urbani, siano essi vichi, archi, vicoli ciechi, orti botanici o piazzette senza uscita per estrapolare le conoscenze e rendere noti i principi, secondo cui l’urbanistica, intrecciata con le culturali di luogo natio, compilano la tessitura raffinata indispensabile, agli interventi di

Rigenerazione, al fine di intercettare, identificare i necessari strumenti per la salvaguardia odierna degli spazi di relazione come essenze parallele di tutto il Mediterraneo.

Il progetto di studio difatti tende ad individuare, attraverso specifici aspetti, la trasformazione degli spazi di relazioni all’interno del rinnovamento mediterraneo in senso generale secondo il ruolo della storia, vista come memoria di un passato importante, specie in questa parentesi storica di confronto tra popoli in ansia e quanti vivono la modernità e.

E quindi la qualità urbana deve avere o derivare da modelli la cui radice e rappresentato dal fusto del passato e da poter germogliare nella primavera che viviamo i suoi frutti migliori.

Pe questo il ruolo della storia deve essere interpretato in funzione del sito, la cui conoscenza diviene fondamentale per interpretare il senso e la direzione che ha fatto il costituito di questi progetti del bisogno.

Abbiamo già visto che la ricerca affannosa che è solo modernizzazione porta in auge solo comuni viandanti, gli stessi che portano molte volte, ad adattare vecchie piazze, strade e vichi, immaginati che siano nate, per altri usi e per altri utenti veicolati, deformando così, l’identità che nel tempo aveva caratterizzato e solidarizzato quel luogo.

Allo stesso tempo vediamo interventi di recupero e riuso degli spazi di relazioni, trasformando così, luoghi strategici per la centralità, solo per impegnare risorse.

La salvaguardia, il recupero e la valorizzazione degli spazi diventa pertanto un elemento fondamentale della ricerca, come questione nodale nel processo di rigenerazione di un Katundë, rispetto alle tendenze globaliste che mirano ad altri concetti sociali, comunque senza radice di luogo.

Queste potrebbero essere la fonte di una possibile perdita del “ruolo storico del tessuto” sociale e culturale di questi ambiti, poiché azzerando i tratti di riconoscibilità tra luoghi e persone, si smarrisce anche la memoria.

Rimane un dato inconfutabile ovvero, subite le maggiori trasformazioni, appare difficile attivarsi per il processo verso una corretta valutazione dell’entità in lavorazione e, né un controllo della qualità urbana diventa più possibile da attivare, ed è così che il ripetersi di modelli esogeni alla cultura endogena locale trovano più agio.

Un’attenta politica di valorizzazione dell’esistente, o la giusta simbiosi con le tendenze eclettiche e spettacolari dell’architettura globalista può consentire alle identità, alle peculiarità, della storia di questi agglomerati composti di Sheshi, non solo di non essere soffocate o estinte, ma diventare fondamento di un’originale china, dello sviluppo che si nutra anche dell’ambizione di produrre e diffondere “nuovi scenari chi la politica amministrativa ritiene inesistenti”.

Il senso di questa ricerca porta ad identificare un percorso di salvaguardia, in tutto, un processo posto in essere dalle civiltà meno note del passato qui in Italia, a casa nostra, e nel meridione disprezzato; un’operazione intesa a ricostruire i valori della città che si sono sgretolati nel tempo, memorie passate o memorie più recenti che ancora vivono nei ricordi locali.

Ciò che cambia è l’immagine della Gjitonia, che si trasforma e svela il suo potenziale storico, estetico e sociale di uguaglianza, di cui oggi si va alla disperata ricerca.

La finalità che in questo breve si vorrebbe perseguire, è racchiusa nelle linee progettuali, le quali impongono per prassi, una precisa consapevolezza dell’idea a cui si vuole tendere, la stessa che ha come passaggio obbligato la comprensione dell’identità arbëreşë,

Questa è operazione, non facile perché presuppone una conoscenza profonda dei suoi valori e dei suoi luoghi, spesso nascosta tra le pieghe dei tessuti e degli strati, avvolte velati appositamente per quanti vivono la città o altri ambiti di borgata o bavara, dirsi voglia residenza condivisa.

Risulta essenziale che il progetto, o forse meglio il processo di modernizzazione, vada ad investigare gli aspetti in merito alla forma, alla memoria e alla cultura collettiva per cogliere l’essenza dei luoghi e le dinamiche che li governano.

Quindi l’obiettivo della ricerca e del progetto è stato finalizzato allo studio e l’analisi dei processi di recupero e ri-qualificazione degli spazi di relazione per comprendere la conoscenza di questo patrimonio culturale e delle modalità con cui non è stato più gestito, per garantirne la salvaguardia e la continuità in solita valorizzazione.

Il risultato a sortito tuttavia è sortito nonostante l’estrema complessità per l’osservazione, la ricerca, l’intuizione indispensabili a comprendere il migliore approccio, il metodo e la procedura.

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UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

UN VOTO A SANT’ATANASIO PORTATO A BUON FINE IL DUE DI MAGGIO Janarj i bërj vutë shën thanasitë

Posted on 05 aprile 2025 by admin

Sergente

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gennaro raccontava spesso, ai suoi familiari riuniti, nelle gelide serate d’inverno, quando ad illuminare era il fuoco di quel camino antico di casa, che guardava la piega della via detta “lljëmë llëtirjtë”.

Era qui che al calar del sole, lui riuniva i suoi figli, per raccontare il patire, lungo la via del ritorno a seguito del disarmo dell’esercito Italiano, finite le ostilità il settembre 1943, della seconda guerra mondiale.

Egli raccontava che, dopo aver parcheggiare il camion officina, nel cortile della caserma a Riva di Trento, gli venne ordinato di recarsi nella camerata, ritirare il tascapane, gli effetti personali e, poi un ufficiale preposto gli fece consegnare il percussore del fucile in dotazione, la baionetta e, in fine di tornare a casa, perché i servigi verso la patria erano terminati.

All’inizio grandi grida di gioia con i commilitoni e, subito dopo si rese conto che casa sua distava oltre mille chilometri e, dalla parte opposta della penisola Italina.

E non nella comoda direzione Est-Ovest; ma secondo quella più impervia e colma di pericoli, Nord-Sud, che pur se abituato a percorrere distanza da giovane con il suo gregge quella era una distanza inimmaginabile e doveva svolgersi senza lamenti o belati di genere alcuno.

In tutto, un percorso intriso di pericoli, in quanto, andare controcorrente alle truppe tedesche che ripiegavano devastando ogni cosa e imprigionando ogni figura che non avesse effigi germaniche, in altre parole sarebbe stata tratta non semplice da percorrere.

Infatti in quella verde vallata dove erano terminati i doveri di soldato e servitore della patria, rimaneva un solo ed unico alleato: il pensiero Sant’Atanasio il Grande Patrono e di Adelina la sua amata moglie; fu per questo che fece voto di rientrare in paese entro e non oltre il due di maggio, per onorare il santo e abbracciare moglie e figlia.

Stava sbocciando dopo un lungo inverno, quel voto antico di tornare a casa e festeggiare con la sua amata il mito protettore; un fine antico sempre perseguito ma mai, in questa esagerata misura, con le uniche forze, fisiche, mentali sostenute dalla credenza bizantina.

Gennaro raccontava che dopo aver salutato i commilitoni, e presa la via solitaria, onde evitare di apparire come gruppi antagonisti alle eventuali truppe tedesche in pericolosa ritirata, ogni commilitone prese la via di casa propria rimanendo comunque a debita distanza.

Sapeva di non dover seguire strade carrabili, porti e ferrovie, in quanto, la campagna, i boschi e i corsi fluviali erano gli unici alleati, di cui fidarsi e, quante chine e quante discese, dovette percorrere seguendo torrenti e campi senza semina, sempre vigile ed attento dovette attraversare con occhi e orecchie allertate.

Si cibava di cose naturali, assieme alle poche cose, che ogni tanto, gli donava contadini che cercavano di rigenerare, gli scenari di semina dismessi dalla guerra che avevano voluto altri e lui si portava in spalla quel peso di dovere.

Pastori, contadini, mugnai e manovali che svolgevano attività, nel vederlo come figlio che tornava a casa, dividevano volentieri con lui le poche cose del pranzo e, lui per ricambiare, avevo solo il racconto della sua storia e la meta a cui ambiva.

Nell’esporre il suo entusiasmo per il ritorno, non ricordava a quanti aveva detto di essere un Sofiota e quali ideali lo sostenevano; poi giungeva il momento di riprendere l’orizzonte ancora soleggiato e in solitaria meta.

Giunto in Campania era ancora incredulo e quanti incontrava, dicevano che forse non avrebbe mai potuto portare a termine l’audace impegno, perché era stanco e forse non sarebbe giunto il due di maggio.

Cosa lo spingesse ad andare avanti era la memoria di quel sagrato, quella chiesa e la famiglia, che aveva promesso di sostenere dal 9 ottobre del 1937 e, i visi fiduciosi di quanti incontrava, come in una gara podistica facevano il tifo per lui, non avendo altro da offrirgli, se non le poche cose per cibarsi.

Tuttavia, la sua rimaneva, una gara contro un invasore che contro corrente, avrebbe potuto portarlo con se in un loco più distante e concentralo a termine.

Tutte le persone che incrociava ritenevano che la distanza fosse eccessiva e trovare un passaggio era pericoloso, in quanto avrebbe potuto mettere fine al suo voto, quindi, ogni volta gambe in spalla fino che la luce del sole lo accompagnava.

Lungo la strada immaginava di risalire dalla chiesa vecchia, via Castriota e arrivare in piazza Sant’Attanasio, nel momento in cui le campane a festa annunciavano l’uscita del Santo; poi gli amici, i parenti come lo avrebbero accolto, chissà se nella processione ci sarebbero state la moglie Adelina con in braccio la figlia Francesca o come promesso, era in casa ad attendere il suo ritorno.

Questo e tanti altri erano i pensieri che lo accompagnavano, e intanto chilometro dopo chilometro la meta era sempre più vicina.

Era iniziata la terza decade di aprile e iniziate già le novene, quando si trovò ad affrontare la piana del Sele e, se le forze lo avessero sostenuto così come, nelle settimane passate, l’impresa sarebbe stata possibile.

Intanto continuava a cibarsi di ogni cosa che la primavera offriva, la meta diventava sempre più prossima e sempre più familiari, erano gli scenari naturali.

Intanto continuava ad evitare centri abitati, così come fece da diversi mesi, preferendo le gole e boschi impervi e deserti, riposando in grotte e anfratti naturali.

Preferiva seguire percorsi impervi per evitare di incontrare le retroguardie tedesche o le avanguardie parigiane e comunque senza mai fidarsi di alcuna divisa o gruppi armati.

E finalmente l’ultima settimana di aprile, vedendo valicando gli scenari del dolce dorme e intravede il luccichio del suo paese natio dove lo attendevano le cose di credenza materiali e non, le stesse mire di memoria che lo avevano sostenuto.

Solo adesso ebbe modo di concedersi una pausa di riposo per presentarsi degnamente da soldato al raggiungimento dei suoi cari e dei suoi paesani.

Attraversato il Crati vicino il cimitero di Tarsia e raggiunti, i luoghi della giovinezza, dove portava le pecore a pascolare, la china che avevo percorso tante volte la conosceva bene e, lo fece sentire a casa, conoscevo ogni zolla e ogni anfratto di quegli ameni luoghi, per mesi immaginati.

Quell’anno il due del mese di maggio cadeva di martedì e quando, Adelina si senti Chiamare da suo zio Giuseppe, mentre iniziavano i primi rintocchi delle campane a festa, nulla di più intonato e desiderato per lei il sentire le parole che gli diceva: Adollì, ezë ndë quishë, se u mbioshë Janari!

 P.S. Gli attori primi di questa storia di devozione antica, sono: Gennaro Pizzi padre, Adelina Basile madre e il Santo che sostenne e diede agio agli avvenimenti di questa casa senza termine: Atanasio.

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L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË  (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

L’ABITO DA SPOSA ARBËRESHË (Stolljthë i ghratve mishjtë Arbëreşë)

Posted on 01 aprile 2025 by admin

 

Bimbo4NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile)

LA STORIA DEL COSTUME E LA REGINA DEL FUOCO

Premessa

Questo discorso, vuole svelare e, dare significato o senso definitivo al prodotto di vestizione femminile arbëreşë relativo allo storico protocollo del matrimonio.

Espressione consuetudinaria di memoria e augurio in forma d’arte o manuale sartoriale, realizzato seguendo l’antico disciplinare, contemplato in ogni particolare che fa vestizione o costume nuziale femminile, prima durante, dopo l’evento di promessa coniugale, sino alla solitaria convivenza generata di certezza o incertezza della continuità coniugale.

Il tema pone ed evidenzi, in oltre, il valore associato al matrimonio, in espressione di sistema famiglia, sotto gli auspici e le consuetudini beneauguranti di credenza diffusa Greco Bizantina, su radice di promessa data Kanuniana.

Sono numerosi i teoreti o teorete che hanno diffusamente sparlato di questo manufatto identitari, ma tutti o tutte nel farlo hanno più mirato ad illuminare se stessi, che il costume di macro area di cui trattavano senza alcun fondamento storico.

Tuttavia prima di dare inizio alla trattazione di questo discorso in merito, la macro area presilana e il trittico di paesi noti per le saline.

Prima di iniziare questo discorso è doveroso ringraziare: Adelina e Lucia da Terra di Sofia, Caterina e Carmela da Frascineto, Anna Maria da Vaccarizzo, Gabriella da San Benedetto Ullano, Fortuna da Lungro, Anna Rita da Falconara, che assieme a Paola di Firmo, hanno espresso in forma di genere femminili, i valori sostenuti nell’atto della vestizione e, di quanto qui esposto, perché rilevato nell’atto dalla vestizione perché atto di genere.

Va in oltre sottolineato che il numero delle figure, cui era stato posto il breve dialogo per l’analisi, doveva essere più consistente, per esprimere sensazioni e pareri direttamente da chi indossa e ripete quegli attimi di antica consuetudine con rispetto e senza travalicare il termine .

Tuttavia c’è stato un numero di addette/i, che ha ritenuto più idoneo seguire la “via fatua”, per la definizione della ricerca in forma sensoriale; per questo continuano a vivere, di sentito dire, in forma di favole o di quanto si presentano al cospetto pubblico con la storica vestizione, per caso, per moda o per apparire in forma folcloristica e offendere la morale femminile pubblicamente di questo storico, ricco e rigido protocollo di vestizione.

Questi ultimi, in specie, continuando imperterriti, ogni volta che indossano le vesti, a vivere orfani dei principi fondamentali dell’identità arbëreşë, entro i termini dettati da teoreti/e malevoli/e di comuni messaggi, e coloro che le espongono, invece di unire separano e offendono la memoria del popolo che si riconosce con rispetto nella Regione Storica Diffusa e Sostenuta, attraverso scenari privi di valori attinenti la storia delle consuetudine di promesse date in Arbëreşë.

Introduzione

Di sovente si racconta e s’illustrano i costumi arbëreşë, elencando le parti che lo compongono, secondo il mero apparire, attraverso enunciazioni locali, ben distanti dal loro reale significato, consuetudinario e, non rispettando il il protocollo identitario generazionale secondo cui la madre parla, gesticola e veste la figli che ascolta, segue ogni cosa e apprende.

Il più delle volte infatti, la consegna non avviene direttamente come la storia vuole, ma per sentito dire, terminando la consegna storica ereditaria, nell’esprimere pareri gratuiti di vestizione, coronando il tutto di errori a dir poco paradossali e, addirittura amalgamando arte sartoriale, con attività non proprio di radice di tessitura, non certo per l’onore o il rispetto del genere femminile che termina di apparire senza decoro dove si passeggia sulla retta via di scesa indecorosa.

Un’altra metodica che ormai è diventata regola per il turista distratto della breve sosta, consiste nel proporre il tema della vestizione nuziale, per divagare con tesi di laurea o esperimenti editoriali, in cui docenti o esperti/e di, non appartenenti al protocollo di “madre che parla e figlia che ascolta”, quindi senza alcun titolo, finiscono per approvare, invece di correggere, quanto portato come vessillo folcloristico il valore più solido e intimo del genere femminile degli Arbëreşë.

Questi inopportuni atteggiamenti di vestizione, producono un duplice danno: il primo proprio da quanti dovrebbe sostenere il prezioso modello, arbëreshë, purtroppo, certificando come istituti o plessi pur non avendo alcuna capacita culturale, titolo o conoscenza di radice, in questo campo, ma solo la notorietà del plesso dove non score certamente la consuetudine di radice Arbëreşë; il secondo ancor più pericoloso è che si lasciano in eredita alle nuove generazioni componimenti scrittografici, come vangelo originale, traducendo tutto in una perdita della tradizione più intima della minoranza, il più delle volte espresso in parlato di lingua moderna Albanistica.

In tutto formano componimenti che poi non sono altro che riversamento malevolo di concetti senza alcuna attinenza del protocollo consuetudinario arbëreşë, oltremodo facendo grande sfoggio, nel citare il senso di appartenenza, senza avere alcuna consapevolezza del significato dell’oggetto esposto in misura, di mezza festa o mezzo lutto o mezza sposa, compromettendo il valore depositandolo in forma liberamente pagana o volgare invece di depositarla nella culla della religione sostenuta, che a questo punto non è più tradizione.

Questo è il motivo che ha determinato la deriva, senza precedenti, mina vagante del significato della vestizione in giovane donna, sposa, regina della casa, vedova, e vedova incerta; le cui vesti, pur se accumunate in presidi preposti da quando le istituzioni, ancora non in grado di fare editoria hanno ritenuto utile tutelare e promuovere, immaginando che esporle in forma di statici manichini queste vesti, serva a diffondere con coerenza antica i temi del disciplinare o della ricerca condivisa dalle nostre madri arbëreşë, le quali nel contempo si rivoltano in pena lì dove vivono il loro termine.

Tutto ciò ha condotto quanti si elevano ad emblemi esonerati dai cinque sensi, ad assumere per arroganza di passaggio generazionale, privi dei fondamenti di olfatto, tatto, visione, ascolto che non fa lungimiranza, di gusto e orecchio del governo Ghratvemëşianë .

  E Qui si ferma la prima parte

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ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

Posted on 21 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A Napoli, in quella via dove si ricorda il grande maestro che compose la famosa canzone “anima e core”, si sente la melodia di un battito antico, eseguita dal maestro della scuola napoletana degli incisori.

Tutto si svolge su di un tavolo speciale, con tanti fori per la giusta ammorsatura, dove il maestro con un martello di legno e, mille attrezzi per scalfire il legno, sfida il tempo e batte i ritmi dell’atre più antica dell’uomo e, lascia stupiti gli uomini, più di quanto faccia oggi l’intelligenza artificiale che aiuta le conquiste moderne dei generi umani.

Qui dove Napoli venne scelta come una delle capitali delle fratrie più antiche del vecchio continente e, dove si dice vi sia il tesoro più ricco ancora non ritrovato, il maestro Antonio, continua solitario a incidere secondo la scuola della più antica arte, che rendere case, chiese, corti e palazzi nobiliari degne di questo appellato nome.

Un lucido e geniale ottantenne, con la sua manualità, rende unico ogni ramo fusto o radice stagionata, di essenza naturale adeguatamente modellata poi dal suo fare.

In tutto un antico patto che la natura stipulo con l’uomo, al fine di rendere le cose naturali indistruttibili e non solo utili per riscaldare e fare cenere per lavare storia.

E mentre il centro antico di Napoli è invasa da gitanti, turisti della breve sosta e scolaresche alla riscoperta dei fatui sapori di pizza, spaghetti, dolciumi e manicaretti presepiali, qui in solitaria armonia, i batti di un martello in legno e le scalfitture concesse dei mille scalpelli sagomati, Antonio compone arredi di una raffinatezza unica e irripetibile, prima disegnando, poi incidendo e in fine liberano la forza e il senso di un’arte antica mediterranea, senza eguali.

Una attività che il saggio padre Giuseppe, vedendo crescere Antonio, lo indirizzo a seguire i vecchi maestri dell’epoca, oltre un mezzo secolo addietro e, lui credendo in questa via prospettatagli dal padre, da giovinetto, frequentava la scuola di mattino e i pomeriggi, la bottega del suo maestro, il quale a quel tempo riconobbe il lui, il futuro maestro che presto di affermò.

Napoli, notoriamente venne segnata e riconosciuta nel corso della storia, per i palazzi. i vicoli e le strade sempre affollate, il tutto sviluppava, rioni quartieri e sobborghi, che la storia ricorda per le su arti ed eccellenza, in campo della stampa, dell’oreficeria, della tessitura e di tutte le arti che fanno eccellenza in questo abbraccio costruito.

La Calata Capodichino è nota storicamente per tante numerose vicende, tra le quali l’arte della manualità dell’incidere a realizzare manufatti in legno ricercatissimi.

Ed è qui nello sviluppo di questa china storica, precisamente il un vicolo cieco, senza uscita che ricorda “Anema e Core”, il maestro Antonio segna e scolpisce essenze di legno senza mai smettere di suonare con i suoi mille attrezzi che creano componimenti, che solo l’intelligenza dell’uomo può sprigionare e rendere visibili.

Un vicolo cieco, è una strada da dove non si può sfuggire, essa è un percorso antico che per la complessità delle cose della storia di Napoli fu necessario realizzare.

Antonio questa strada l’ha scelta da adolescente indirizzata dal padre e, da allora la segue senza mai ripensare di tornare indietro, perché l’arte di eccellenza napoletana, una volta che le fai in fondo alla strada, dove questa piega e illude il distratto passante, ma chi la segue e la conosce sa già che non ha bisogni di altre vie di sfogo, in quanto il podio dell’eccellenza non la trovano quanti vagano incerti e, senza meta.

L’invito di questo breve, è rivolto a scuole, turisti e viaggiatori distratti della breve sosta: venite a Napoli; ma non per soddisfare solo il senso del palato o dell’incultura turistica presepiale, ma per ascoltare vedere, odorare, assaporare e toccare, componimenti di incisione unici e irripetibile, mentre nascono e vedono la luce. 

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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

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Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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