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ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

Posted on 21 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A Napoli, in quella via dove si ricorda il grande maestro che compose la famosa canzone “anima e core”, si sente la melodia di un battito antico, eseguita dal maestro della scuola napoletana degli incisori.

Tutto si svolge su di un tavolo speciale, con tanti fori per la giusta ammorsatura, dove il maestro con un martello di legno e, mille attrezzi per scalfire il legno, sfida il tempo e batte i ritmi dell’atre più antica dell’uomo e, lascia stupiti gli uomini, più di quanto faccia oggi l’intelligenza artificiale che aiuta le conquiste moderne dei generi umani.

Qui dove Napoli venne scelta come una delle capitali delle fratrie più antiche del vecchio continente e, dove si dice vi sia il tesoro più ricco ancora non ritrovato, il maestro Antonio, continua solitario a incidere secondo la scuola della più antica arte, che rendere case, chiese, corti e palazzi nobiliari degne di questo appellato nome.

Un lucido e geniale ottantenne, con la sua manualità, rende unico ogni ramo fusto o radice stagionata, di essenza naturale adeguatamente modellata poi dal suo fare.

In tutto un antico patto che la natura stipulo con l’uomo, al fine di rendere le cose naturali indistruttibili e non solo utili per riscaldare e fare cenere per lavare storia.

E mentre il centro antico di Napoli è invasa da gitanti, turisti della breve sosta e scolaresche alla riscoperta dei fatui sapori di pizza, spaghetti, dolciumi e manicaretti presepiali, qui in solitaria armonia, i batti di un martello in legno e le scalfitture concesse dei mille scalpelli sagomati, Antonio compone arredi di una raffinatezza unica e irripetibile, prima disegnando, poi incidendo e in fine liberano la forza e il senso di un’arte antica mediterranea, senza eguali.

Una attività che il saggio padre Giuseppe, vedendo crescere Antonio, lo indirizzo a seguire i vecchi maestri dell’epoca, oltre un mezzo secolo addietro e, lui credendo in questa via prospettatagli dal padre, da giovinetto, frequentava la scuola di mattino e i pomeriggi, la bottega del suo maestro, il quale a quel tempo riconobbe il lui, il futuro maestro che presto di affermò.

Napoli, notoriamente venne segnata e riconosciuta nel corso della storia, per i palazzi. i vicoli e le strade sempre affollate, il tutto sviluppava, rioni quartieri e sobborghi, che la storia ricorda per le su arti ed eccellenza, in campo della stampa, dell’oreficeria, della tessitura e di tutte le arti che fanno eccellenza in questo abbraccio costruito.

La Calata Capodichino è nota storicamente per tante numerose vicende, tra le quali l’arte della manualità dell’incidere a realizzare manufatti in legno ricercatissimi.

Ed è qui nello sviluppo di questa china storica, precisamente il un vicolo cieco, senza uscita che ricorda “Anema e Core”, il maestro Antonio segna e scolpisce essenze di legno senza mai smettere di suonare con i suoi mille attrezzi che creano componimenti, che solo l’intelligenza dell’uomo può sprigionare e rendere visibili.

Un vicolo cieco, è una strada da dove non si può sfuggire, essa è un percorso antico che per la complessità delle cose della storia di Napoli fu necessario realizzare.

Antonio questa strada l’ha scelta da adolescente indirizzata dal padre e, da allora la segue senza mai ripensare di tornare indietro, perché l’arte di eccellenza napoletana, una volta che le fai in fondo alla strada, dove questa piega e illude il distratto passante, ma chi la segue e la conosce sa già che non ha bisogni di altre vie di sfogo, in quanto il podio dell’eccellenza non la trovano quanti vagano incerti e, senza meta.

L’invito di questo breve, è rivolto a scuole, turisti e viaggiatori distratti della breve sosta: venite a Napoli; ma non per soddisfare solo il senso del palato o dell’incultura turistica presepiale, ma per ascoltare vedere, odorare, assaporare e toccare, componimenti di incisione unici e irripetibile, mentre nascono e vedono la luce. 

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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

Posted on 22 febbraio 2025 by admin

ciliegio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della popolazione arbëreşë, non è fatta dei riflessi della luna negli occhi di una madre, quando allatta i suoi figli, specie se seduta sotto l’ombra che fano le foglie di un albero di noce; ma raggi di sole al mattino, che indicano la via maestra ad un popolo in crescita solidale, in quelle “Terre lagrimose, colme di pia genti Arbëreşë”.

Questo teorema fa la differenza tra la luna il sole e, in tutto il circoscritto del genio del male e il santificare del bene, nel corso del tempo per dare agio alla minoranza, di purificarsi e diventare il gioiello più solido e prezioso dell’integrazione mediterranea.

Nel racconto generale che gli eletti dispongono o stendono a gocciolare di notte e di giorno, senza cautela di raccontare sotto l’ombra di quelle pianta si viene poi allattati dal primo giorno di vita e, di quelli futuri a venire.

Tuttavia la differenza la fanno le cupe e tondeggianti noci, l’affilato mandorlo, a cui si contrappongono il sorridente ciliegio e il verde ulivo.

Una sostanziale differenza che ha come protagonista il colore in primo piano, in specie di quelle piante che non hanno, bisogno di una corazza per presentarsi a primavera innanzi alla luna, ma quando le illumina e il sole svelano la vera natura.

Un po’ come fanno gli isolani d’archivi e di biblioteca per seguire le tracce della storia mirano a sottrarre la scena di quanti vivono d’ascolto e confronto e, in specie minano le conquiste di memoria storica locale.

Quando si semina il grano in quelle piane che nella consuetudine linguistica locale degli arbëreşë, appellate, corredo steso al sole (arethë i shëtruatë ndë dialjtë), si preferivano le terre migliori, nel mentre gli ulivi azotavano quell’oro di coltura, con le foglie sempre verdi.

Un teorema antico, che poi la consuetudine degli arbëreşë, riversava nelle nuove generazioni che crescevano nei stenopoi e i plateiai della iunctura familiare sotto la luce e le ombre del sole che accarezzava Gjitonitë.

Pericolosi diventano quanti si sentono interi, ma poi culturalmente sono solo una metà di quello che serve, in tutto la negazione del vero che viene riferito agli altri condannati all’ascolto della libera e gratuita interpretazione che si espongono sotto il nocivo e liberale arbitrio.

Imparare a sognare quando non si è più bambini perché la speranza di essere eccellenza, si allontana dalle tue aspirazioni culturali, non ti dà rispetto in te stesso, specie quando ti specchi e, ti vedi sempre più nudo e senza alcuna veste di nobiltà sociale, che ti possa confortare per quello che hai dato e non puoi più ordinare.

Chi segue le linee parallele dell’arato deve saper espandere, la giusta dose di seme, altrimenti i covoni non saranno solo di spighe di grano ma anche di inutile fatuo, che serve solo a degenerare quel terreno che sostenere il tuo essere e la casa del bisogno.

Il fatuo nel seminato storico degli arbëreşë è sempre stato presente, ma la saggezza dei nostri avi ha fatto sì che non invadesse più di tanto, il seminato estirpandolo prima che diventasse spiga e fare danno, purtroppo le generazioni che hanno dimenticato questo atto di tradizione, hanno lasciato libero agio a quelle piante infestanti come se fossero genere buono e genuino.

Oggi purtroppo ci ritroviamo con campi di fatuo, dove non riusciamo più ad individuare il genuino, che la storia separa la crusca dalla farina.

Il senso di questa frase vuole dimostrare che il libero racconto democratico, dove tutti sono liberi di esprimere opinioni e un processo naturale che l’uomo espone come giusta causa.

Ma non tiene conto del dato che oltre la linea della porta di casa propria, le cose devono essere e rispettare la storia di tutti gli uomini, le cose che fanno Katundë e valorizzano il senso della regione storica diffusa, sostenuta in arbëreşë.

Ovvero dove termina il solco del seminato di ognuno di noi e, iniziano le terre che appartengono agli altri, per questo vanno rispettate senza essere contaminate da tutte quelle genti che li transitano per dare agio al cuneo di sostentamento, economico e civile, non fatto dalle foglie del nocivo arboreo, ma del verde candido dell’ulivo mediterraneo.

Tuttavia la professione più nobile e diffusa è quella del cantare seguendo la musica o invadere le professionalità  di quanti vogliono emulare e cercano senza risultato, le antiche direttive degli Olivetani napoletani, quelle che si diffusero dal convento lungo il crinale che porta a capodimonte, quando non era ancora reggia.

La Repubblica, nonostante l’articolo nove, promuova lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio, il patrimonio storico, artistic l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni.

Tuttavia i liberi pensatori, sotto la bandiera del dualismo politico, compiono senza respiro ogni genere di gemellaggio e miscelano la tutela su citata, che si decompone e diventa polvere al vento.

Ed è questo che bisogna concentrarsi a saper avvicinare le menti e i principi senza intrecciarli o renderli tessitura impropria. Va in oltre sottolineato che le istituzioni tutte di ogni ordine e grado sono all’oscuro o meglio adombrati dalle foglie del noce e si finisce nel rendere sin anche pagana il ricordo del termine di tutta la regione storica un tempo sostenuta dalla credenza  arbereshe, che in questa giornata promuoveva le cose buone della natura esclusi tutti i ricavati di sangue o di estrazione animale; buona ricorrenza a tutti quelli che sanno e tutelano memoria che non è per quanti, davanti a una fetta di salame o un bafa di genere aquatico sotto olio, dimentica il dovere del rispetto dei morti e, ingurgitano tutto, in memori di un nulla che si prospetta davanti a queste blasfemie senza radice.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                NAPOLI 2025-02-22

 

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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi dirò, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti.

Forse riderete di me, perché non sono istituto, ma una promessa data, quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e, solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile  per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e, né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni, i risultati ottenuti e negatimi anche pubblicamente, ma credetemi è costato tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più di me a questi luoghi lagrimosi, ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire, salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare, per questo, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti di attività che non sono mere o semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edificato valore storico cercando, l’originario impianto del bisogno otre a definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget, oltre le risorse indispensabili da porre in essere al fine più idoneo o perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate o allestisce consiglieri infanti, che si credono eccellenza giacche eletti culturali.

Le stesse figure di genere ignoto alle quali se proponi cose con finalità storiche, invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando di saggiare manicaretti dolci, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o supportare, nel continuo dissipare risorse o insaccare falsità di loco.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio, svolgimento e fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro dal maniscalco saggio.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

Posted on 09 febbraio 2025 by admin

PenelopeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Pe quanti conoscono la storia e affiancano processi sociali e crescita dei generi, avvicinare questi momenti di vita diventa, somma per allestire processi in grado di rendite alto il valore dei luoghi vissuti, specie se per continuare a conversare e, non perdere il patto stipulato con testimoni, il sole e la luna, al fine di fare Casa, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno hanno molte volte orientato la loro attività di ricerca, secondo percorsi, tesi ad aprire i confini della storiografia e, raccogliere tracce che confermino la presenza di uomini e donne, li abbandonati secondo autonomie sociali al fine di affrontare e rispondere in forma di mera soluzione, matematica.

Idee, mentalità e immagini letterarie, diventano così i simbolismi di solidità, che porta ad altri interessi, anche se, in linea generale possiamo definire antropologici, dove tutto si materializza in ambiti di studio, da attraversare, ma purtroppo come è successo nel passato, avendo come compagni lettori o traduttori locali, sconosciuti, e quasi sempre non sono lucidi osservatori, ma ignari viandanti che non hanno arte o memoria di nulla.

Tuttavia vi sono stati grandi intellettuali, come Giuseppe Maria Galanti, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare per ricevere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, a Giuseppe Galasso e le indicazioni verbalmente espresse in vari incontri, all’Istituto Italiano di studi filosofici a Napoli e, la caparbia lena di suoi discepoli, hanno reso possibile il germoglio del postulato a titolo. E rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di banali e negazionisti antropologi, che credevano “Gjitonia” fosse e un mero prodotto post industriale di mero vicinato.

Ovvero, la trasformazione avvenuta dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa che ha caratterizzato il XIX e gran parte del XX secolo, che comunque sono fuori dal nostro intervallo di Studio.

A tal fine e per analizzare il processo sociale sostenuto dal governo delle donne è utile iniziare con il citare le vicende storiche più antiche,

Dove emerge la figura di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei fedele tesseva e disfaceva il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (“anatra”) per essere scampata da giovinette dall’essere annegata, anche se per alcuni il nome è connesso all’evento della tela (dal greco- pēné), in quanto protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga.

Infatti, attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e dato per disperso, crescendo da sola il piccolo Telemaco evitando perennemente con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti e, grazie al famoso stratagemma: che di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, per essere fedele alla promessa di famiglia.

Mantenendo, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Alla fine, Ulisse tornò, uccise i provocatori della moglie e si ricongiunse con essa; tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, e simile alle tempistiche giornaliere, che ogni moglie arbëreşë, ha vissuto e trascorso, nelle innumerevoli Gjitonie, che caratterizzarono in antichità i Katundë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera prima del tramonto del sole, il marito partiva per i campi e rincasare dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici preparando corredi ed elementi tessili con i telai tessendo seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, e nel contempo allevavano i propri figli e sin anche quelli altrui, al fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, in tutto, ambiti non circoscritti e senza confini, se non quelli del rispetto e di cinque sensi, che qui si vivevano e si respiravano ad oltranza, per le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una tessitura solida di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kallive, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, che costituivano percorrenza lenta regolata dalla articolata e difficile percorrenza, colme di accessi delle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli orti botanici di pertinenza, in tutto “percorsi angusti”, articolati con scale apparentemente disorganizzato, perché mai facile o veloce percorrenza.

Strade che mirano a rallentare il comune viandante, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio orientate in direzione nord-sud, generando l’interazione sociale paritaria gestito dalle donne.

Gjitonia mantiene viva la continuità sociale e il confronto in ogni forma o sfaccettatura, diretta o indiretta, perché composta da spazi privati e pubblici in condizioni dove sono regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche di tessitura che proteggono l’onore delle donne, fatto di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici.

Il sistema così articolato divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, fatto di “tessitrici specialiste” di un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Furono molte le figure nobili o meglio femminili che qui transitarono del Gran Tour, infatti qui non transitavano gli uomini ma le donne e furono tante che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano erano attratte da questa apparizione al femminile dei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne, quando visitavano il meridione, apprezzando i manicaretti, le pietanze e i prodotti alcolici fatti con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa si recavano in questi luoghi per capire costumi colori e avere misura di un modo assai dissimile con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato e accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita, ma da oggi in poi, “intellettuali”, “antropologi” e ogni “sorta di lettore libero”, avranno da sudare non poco nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e il valore di Gjitonia, che non è stato mai Mero Vicinato Indigeno, ma luogo della tessitura delle donne Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-02-09

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RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO  INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

Posted on 28 gennaio 2025 by admin

ARberia

Dal diciotto di gennai del 1977 la distanza che ha visto espandere la “Radicanza di cuore tra Terra di Sofia e Napoli”, mantenendo solide pulsazioni di luogo nel confino a 228 chilometro, pari a 141 miglia, esponendosi nel tempo sino a 230 chilometri paria a144 miglia, nel circoscritto della città di Napoli.

Da quel giorno senza mai smettere di studiare e fare memoria di tutelare, nel prodigarsi per diventare portatore sano di fatti della storia avuto luogo in Terra di Sofia equiparati, in seguito ai cento e più centri antichi di simili origini e diventata la missione della Radicanza senza soluzione di continuità.

Il luogo emblematico dove tutto ebbe inizio, è il Giardino che un tempo fu Orto Botanico dei Bugliari di sotto, quando Vescovo era il figlio di Anna Maria Pizzi.

A Napoli cosi ogni cosa lasciata nella Radicanza in Terra di Sofia, divenne misura e studio in: Sedil Capuano, poi dopo il terremoto del 1980, in Via Leopardi e, dopo il termine di febbrai del 1985 lungo la Via del Sole e della Luna, per poi approdare nella storica Salita della Sapienza, li dive era il noto giardino botanico civile, dell’antica Capo Napoli; e in fine oggi, accanto alla fratria un tempo frequentata da Pasquale Baffi.

Tornare oggi nel luogo natio, si dovrebbero allestire, per lungo tempo, fuochi di candelora per fare cenere di tutti gli editi, favole e ogni sorta di compilazione, esclusi il “Discorso degli Arbëreşë del 1776 di Baffi e le vicende che rinforzarono i valori Arbëreşë con i fratelli Giura e il Torelli”.

Tutto il resto andrebbe distrutto e , reso cenere, cosi come i riversi allestiti e riverberati, dalle pecore al pascolo, nel promontorio tra il Surdo e il Settimo dagli anni settanta del secolo scorso, da un pastore senza titolo.

Allo scopo, non bisogna distrarsi e perdere misura, degli errori e le malefatte nel corso dei trascorsi del Corsini, quando era in Sant’Adriano, a iniziare dalla pena inflitta al primo Vescovo Francesco, alle lacrime del secondo Bugliari, che lo dismise per pena infinita.

Una delle prime azioni posta in essere una volta a Napoli è stato di reperire tutti gli atti che del centro di Sofia che risultavano essere conservati nell’archivio di Napoli e, poi nel corso dell’esperienza universitaria, confrontare e lette con l’ausilio di docenti eccelsi, ed ecco che carte, fotografate e amaramente pagate divennero la guida, o meglio la cometa da seguire.

Nel corso del 1983, la ormai certezza del titolo accademico, quasi acquisito, diede spazio alla volontà di tornare nel luogo natio e fare famiglia, ma le istituzioni tutte, pubbliche clericali e germaniche, dirsi voglia, fecero tanto male di termine il 28 febbraio del 1985, che nell’aprile dello stesso anno, rifiorì la volontà di “Radicanza senza più termine”.

Inizia adesso un solido percorso di formazione nel loco di Napoli noto come la Salita della Sapienza, e non a caso, dopo numerose esperienze lavorative con istituti, istituzioni e docenti che hanno preteso che dovessi ritenermi un loro pari con titolo.

La Radicanza nel frattempo aveva germogliato e dato frutti molto genuini, con misura Solanizzata e, quel titolo accademico che sino ad allora era stato lasciato nel cassetto, perché ritenevo non più utile da conseguire, risveglio la promessa data che non poteva avere patto chiuso.

Ma i continui spasmi di quanti non immaginavano senza titolo “l’Olivetaro Arbëreşë”, fecero tanto per far ritornare sui suoi passi e, sostenere quell’esame mancante, nella primavera del 1984, per conseguire il titolo di laurea, il giorno prima dei suoi primi cinque decenni di memoria storica, studio compilativo e, di analisi inarrivabile per ogni pascolante o pascolatore, nel promontorio che circoscritto dal Surdo e dal Settimo.

Se sino al giorno del titolo di laurea, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo il Molise e la Puglia erano stati luoghi di rilievo, ricerca e progetto, dopo la data, del venti di ottobre del 2004, la Radicanza ebbe a dare frutti a dismisura, a  Potenza, Roma Firenze, Valentia e in numerose Università d’Europa dove l’esperienza applicata alla valorizzazione della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, trovò nuovi solchi dove germogliare frutti sino ad alloro sconosciuti o comunemente trattati.

Nascono così le Inchieste di Servizio e Formazione per gli Adulti, questi ultimi rimasti attaccati ancora alle antiche derive culturali poste in essere da non formati senza alcuna preparazione dell’ascolto e del parlare Arbëreşë scambiato per Albanese moderno.

Sono da ciò indagati centri i antichi e come essi si siano sviluppati, quali sono gli adeguati sostantivi per identificarli e quale percorso storico vernacolare abbiano seguito per restituirci gli storici odierni.

È stata identificata la valenza storica di che unisce Casa, Gjitonie e Cunei della produzione della trasformazione, Agro Silvicola e Pastorale, mai posta in analisi sino agli studi posti in essere dall’Olivetaro Arbëreşë, se non per fenomeni marginali che non potevano suggerire la leva del sostentamento.

Sono stati descritti i costumi e il valore sociale di tutti i costumi delle Oltre venti macro aree che compongono la Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Lo studio poi è stato interamente riversato nelle vicende delocativa del 2009, ottenendo attenzione da alte istituzioni e politici oltre della reggenza del sistema che si occupa della prevenzione, gestione a situazioni di emergenza.

Questa ultima in particolare dal 2014, a fine delle udienze si è astenuta dal proporre ancora modelli di ricostruzione per quanti subiscono calamità o sono colpiti da eventi sismici.

Va in oltre sottolineato che si aggiungono a tutto questo, studi mirati di numerose macro aree che sino ad oggi non conoscevano il senso della Iunctura urbana, fatta di elementi ripetitivi, costruiti e sociali, che solo chi ha studiato al fianco di eccellenze della storia, della geologia, della psichiatria e valorizzazione del territorio in quanto ambiente naturale, dell’antropologia saggia, senza dimenticare i grandi maestri dell’architettura, dell’urbanistica, della storia e del buon vicinato giovanile, che hanno saputo seminare bene.

Il rilievo, ricerca e progetto di edifici storici tutelati da rendere funzionali, ha fatto sì che la formazione venisse a consolidarsi al punto tale che sin anche la presa visione dell’analisi grano metrica, di murature o elevati crollati e spogliati delle intonacature, comparati in loco con eventi tellurici della storia, comparati al vernacolare del bisogno, diano certezza storica, di temo luogo e uomini.

Gli studi condotti a Napoli nel loco denominato Salita della Sapienza con la perfetta pronunzia dei vocaboli fondamentali, di una Lingua che non ha poesie o forme scritto grafiche, come definita dai fratelli Grimm.

In tutto una lingua che fonda il suo essenziale e ristretto uso orale, secondo una grammatica di pronunzia fondamentale, che non vanno oltre la definizione del corpo umano dei due generi e, gli elementi naturali ad esso prossimi o stellari, gli stessi che contribuiscono al suo progredire e rigenerarsi.

In tutto una Lingua razionale, che per essere tramandata, fa uso della canzone e delle movenze del corpo, al fine di fissare memoria da tramandare.

La lingua Arbëreşë non conosce la scrittura, non conosce libri né lavagne o terreno verticale dove disegnare o tracciare alfabeti.

Nessuno di noi ha preso fratria con questa lingua, studiando, leggendo o traducendo vocaboli in arbëreşë, a cui è affiancata una parola italiana, questa lingua prima diventa pensiero e poi diventa pronunzia e, mai succederà in alcun luogo che un pensiero italiano possa essere pronunziato in Arbëreşë, in quanto non avrebbe né senso e né valore.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Sino a quando gli organi decisionali dirsi voglia, si orienteranno nel non accogliere l’Olivetaro Arbëreşë o figura in grado di rispondere sulla secolare tradizione, indispensabile a dare resilienza a, “un Katundë o Contrada”, si continuerà a riverberare ricerca storica, con le numerose figure mitiche degli scribi e, siccome gli arbëreshë, sono una minoranza radicata nella sola forma orale a voi la conclusione del tema in analisi.

È indubbio che si possano innescare, scelte progettuali inadeguate, come ad esempio, scambiare la Gjitonia, con il vicinato o addirittura con un Quartiere, e ancor peggio un Katundë rinascimentale per un Borgo medioevale

A tal Fine è spontaneo chiedersi a questo punto, se si esegue prima il rilievo e l’indagine storica dello stato dei luoghi e dei moduli abitativi, ovvero gli Sheshi denominati, Kishia, Bregu Kaliva, e dell’insieme toponomastico ereditato oralmente dei sistemi aggregativi sia articolate e di quello più recenti lineari.

Così anche per i sistemi viari, riportati con patire storico  circolare riferito in forma e costume d’inferno Dantesco.

Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia sottovalutato il modello arbëreshë.

Tuttavia un’analisi conoscitiva e di confronto di quanto messo a dimora in località Katun o Kontrada specifica, indicherebbe che studi mirati sino ad oggi, alcun istituto ha condotto escludendo l’Olivetaro Arbëreşë in ambiti mediterranei, scambiando le dinamiche urbanistiche e architettoniche arbëreshë, stravolgendone completamente lo scenario delle volumetrie rinascimentali e dei tempi che seguirono.

È bene rilevare che un paese minoritario non è soltanto affare meramente politico, ma è anche affare volto al patrimonio immateriale radicato nell’idioma degli arbëreshë che non sono mai stati il vero obiettivo da salvaguardia nelle discipline dei dieci comandamenti; Architettonica, Urbanistica, Antropologica, Geologica, Psichiatrica, Storca, Idiomatica, Sociale, Religiosa e della solida Consuetudine, rimaste tutte e sempre ignote.

 

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COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

Posted on 26 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La gestione dei centri storici Arbëreşë, come quello di tutti i piccoli agglomerati urbani collinari, non identificabili come borghi, secondo le analisi di antropologi, linguisti, urbanisti, e istituzioni variegate, sono la non saggia espressione significativa dello stato attuale in cui vaga, la cultura degli adulti, ma è anche un esempio di come non si debba agire in tutte quelle nicchie culturali, che non sono allocate nei pressi di industrie, dove nulla di sostenibile hanno avuto alcun germoglio.

Con questo studio si vuole evidenziare previ esami specifici, uno dei problemi meridionali e, in dettaglio, cosa abbia spento i cunei agrari della produzione crescita e trasformazione, raramente tema dai su citati analisti che ritenevano fosse mero urgenza abitativa.

E i su indicati argomenti ogni volta che sono stati temi, di congressi o pubblicazioni, i contributi più interessanti sono venuti generalmente da organismi, con mira sociale di un ben identificato luogo abitativo da valorizzare.

Le massime istituzioni preposte di luogo, hanno finora praticamente ignorato l’argomento, salvo che per studi come quanto qui trattato sulla distribuzione della popolazione della regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë; valgano di esempio le eccellenze dei cunei agro silvo pastorale dell’antichità seicentesca, dove restano stese al sole le pene incompiute, in forma radicale, specie dalle istituzioni che hanno sempre sperato di edulcorare l’argomento, con il semplice diktat “Fare Katundë con le Gjitonie tralasciando le cose relative all’agro”.

Siamo perennemente, di fronte a scritti e contributi di studiosi che possono essere qualificati solo in senso estremamente lato, senza mai unire le risorse umane dei luoghi dal punto di vista del bisogno vernacolare più ampio e, le risorse messe in campo dalla natura.

Viene allora spontaneo chiedersi: di che cosa si occupano i professionisti delegati dalle istituzioni, dal momento che non gli interessi il maggiore dei nostri problemi, quello che condiziona tutta la vita sociale, economica e politica, a partire dal cento antico e, poi riverberandosi lungo i cunei agrari della produzione, germogliando economia e produzione sostenibile.

È senz’altro un sintomo assai interessante, è racchiuso nella più semplice risposta, infatti, mentre il trittico di specialisti coadiuvati da istituti locali, che non sentono l’esigenza di una questione che dia unità, scambiata come un piede deforme al posto di un organico e omogeneo sviluppo del Katundë, mentre, i cui sopra, non ne hanno ancora afferrato l’importanza, e soprattutto la drammaticità nel momento attuale, rimanendo imperterriti a formalismi ambientali o linguistici, visto che trattano l’argomento di minoranze, con forti dubbi di autentica analisi economica e sociale.

Il tutto viene inteso come problema marginale, visti secondo gli schemi astratti di una indiscriminata applicazione di uno “standard” culturalmente prefabbricato per altri luoghi e, sempre meno radicato alla dipendenza del territorio, più incline all’industria moderna, che spera nel sole e nel vento, quale risorsa energetica e non di indirizzamento dell’agio agro, silvico e pastorale.

Gran parte delle attenzioni, infatti, sembrano concentrate sul piano regolatore urbano e, la pianificazione regionale; vista esclusivamente da una ampia prospettiva di una maglia di accreditamento, sia come espansione del territorio (decentramento urbano) sia come espansione di rapporti comuni(zona unitarie di ambientali equipollenti).

Prevalgono così, nei piani regolatori esigenze di una civiltà industrializzata, anche in questi ambiti l’industria ha evitato di transitare o fare sosta per fatica inutile, neanche con minimali misure, creando  ulteriori accadimenti senza controllo e, formalmente, il malinteso entusiasmo fa aprire il Mezzogiorno una inesauribile “architettura solitaria che imita, senza speranza, le prospettive naturali” e con essa ogni speranza di insediare attività o filiere corte e specifiche di un determinato ambiente naturale, con specifiche produttive irripetibili.

E così nei vari Katundë, villaggi o centri storici recentemente manomessi o svuotati, possiamo trovare, accanto all’influenza di ricreare un “ambiente” che formalmente assomigli all’ambiente delle città metropolitane, ma che inizia e termina nel circoscritto fatto per dormire vegetando.

Da qui nascono le entusiastiche prose elogiative del colore, le rappresentazioni schematiche di vita, le prospettive equipollenti, la cancellazione dei veicolare anfratti, dove si svolgeva la vita all’aperto, e la scuola della consuetudine antica, non trova luogo per formare chi dovrebbe essere parte attiva di una filiera che si riverberava da camino di casa sino dove erano i germogli e le attività agroalimentare senza eguali.

Quando parliamo di Gjitonia in genere fermiamo il discorso nei circoscritti ambiti ameni in memoria della nostra giovinezza, senza avere alcuna consapevolezza del valore iniziatico del lavoro che in questi ambiti nasceva per riverberarsi, sino alla destinazione più recondita dei cunei agrari della produzione solanesca.

Queste osservazioni preliminari sono necessarie, per introdurci ad un breve esame dei comuni piani regolatori che hanno invaso i centri di radice Arbëreşë, i più significativi e interessanti saggi mai resi noti dello stato attuale della cultura, che raccontano gli atteggiamenti meridionali, tra i più vulnerabili, perché consuetudine conservata nel cuore e nella mente del governo delle donne meridionali.

Infatti troviamo nel decentramento suburbani, i contadini che non vivono la Gjitonia, forma fondamentale per allevare nuove generazioni, in tutto che rappresenta il ricambio continuo della stessa e identica attività, una filiera breve che nasce nella proto industria intorno al camino, dove le donne, panificavano e producevano insaccati e derivati della filiera di suini e dei bovini, oltre alla selezione di sorta o esperimenti conserviero alimentare di filiera casalinga.

Il camino della casa il forno comune della Gjitonia, rappresentano la proto industria che attendeva, nei vicoli e nei recinti propri, i prodotti della produzione che poi diventavano sostentamento per l’intera società circostante.

Il cui obiettivo di vita doveva essere infinitamente parallelo alle vecchie abitazioni, secondo cui è lecito chiedersi, quale nuova vita potranno impostarsi e su quale attività rinnovate per sostenere questa storica filiera fatta dal governo delle donne e degli uomini sempre in sintonia tra casa e agro diffuso che la natura qui poneva in essere.

Salvo questo esempio di decentramento, e l’altro di trasferimento delle attività nell’agro, ogni cosa  fatta dal nuovo trittico di specialisti, appena abbozzato; né è possibile vedervi la ricerca di una evoluzione per un problema esemplare riassuntiva di tutta la situazione meridionale, unitaria e praticamente spaccata in due, ma che respirano, e vivono fianco a fianco, gli uni alle spalle degli altri, ignorandosi, ma a ben vedere sono cerchi che nascono dallo stesso centro che poi li richiama e li sostiene

Negli odierni paini regolatori, perciò è possibile scorgere soltanto l’applicazione di alcuni schemi astratti, buoni forse per altri luoghi, ma non certo per questi centri che sono stati capitale di contadini e allevatori.

Sono numerosi i casi dove si possono riconoscere le manchevolezze, sottolineate dal fenomeno della fretta demagogica, e nell’impreparazione dei preposti: e noi siamo infatti certi che l’impostazione politica abbiamo un’importanza fondamentale per l’efficienza di un’opera urbanistica che parte dal centro e descrive un’ansa circolare sostenibile.

Ma, nel caso che stiamo esaminando, fino a qual punto le manchevolezze che si riscontreranno nel tempo, come la trasformeranno i nuovi quartieri creati per i cittadini sotto la spinta e l’esigenza della prepotente vitalità o fretta dei politici, e quanto invece dalla mancanza di una preparazione specifica di tutta la cultura urbanistica “ufficiale”, ad affrontare, i problemi concentrici del Sud, non di un meccanico decentramento urbano, ma della saldatura della campagna alla Gjitonia, della liberazione delle campagne, per trasformare nei suoi rapporti sociali, e non soltanto con un cambiamento di casa, un contadino e un cittadino, con uguali possibilità.

Per queste ragioni un piano che regoli e dia forza a ogni cosa va attuato nelle parti che richiedono un intervento dall’alto; non radicato nella situazione meridionale, senza la partecipazione della popolazione da cui è praticamente ignorato, il programma Gjitonia esaurendo le risorse in un’ennesima collezione di lavori pubblici, da fotografare per i manifesti murali.

Anziché elevarsi a strumento cosciente di una nuova vita, che risolve le ansie dei cittadini, i quali non devono solo avere un tetto per la notte, ma anche l’incarico di non avere nulla da fare durante tutto il giorno.

Questo è la peggiore deriva che l’urbanista, segue quando non si rende neanche conto del fallimento di un vero Piano Regolatore.

E l’ostacolo maggiore ad una inefficiente pianificazione è appunto questa volontà di separare le attività che legano la casa La Gjitonia o Vicinato e le attività di scuola dell’agro che attende ancora oggi uomini formati e prescelti, non intesi come docili strumenti o forze negative deboli, ma risorsa unica strumenti per nuove rinnovare innescare processi produttivi e valorizzare territorio natura e la salute degli uomini.

E cioè impostare anzitutto per una coscienza politica in grado di leggere capire e promuovere la partecipazione collettiva della popolazione.

Il Piano casa Gjitonia e agro, avvenire, se si conoscono le cose eccellenti del territorio che compone il Mezzogiorno; un esempio di quel paternalismo che, con l’abituare le popolazioni meridionali a vivere nelle case riverberando processi sociali nella Gjitonia troverà gli strumenti sociali adeguati o la soluzione dei problemi, che tenta di nascondere a se stessa sotto una maschera di ottimismo, sotto il desiderio di evasione fra balconi per rompere l’isolamento feroce che lo lega alla sua vita ormai desolata e senza futuro.

Il concetto di quartiere post industriale si è allontanata dalla scala umana che non è più luogo dove si viva bene, immaginando di andare, tranquillamente al mercato senza sapere come e cosa comprare.

E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria, l’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli inaspettata che non trova agio sociale attraverso una economia possibile.

Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare è imprevista, può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia urbana.

Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene unito, e senza una memoria dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.

Se tra il modulo abitativo e il luogo di lavoro tipico del meridione italiano non interponi la Gjitonia, tutto si perde nelle pieghe della disperazione politica dualista o sociale disorientata

I “razionalisti” si riferiscono a una corrente di pensiero che ha avuto grande influenza nell’architettura e nell’urbanistica del XX secolo, particolarmente legata ai movimenti modernisti come l’architettura funzionalista che mirava a fare una casa per tutti, ma poi come adempiere alle esigenze aconomiche non è stato mai posto rimedi se non la scuola nelle sue pieghe più politicizzate.

Tuttavia, oggi appare evidente vi fossero errori storici o critiche che sono stati mossi nei confronti di queste figure, che copiavano come far rientrare il gatto in casa o ventilare il volume senza progettare e formare o realizzare aspettative di accoglienza economica, che dimettessero in relazione con il territorio e le opportunità li in attesa.

Gli errori storici sono innumerevoli ma basta citare i temi qui di seguito illustrati:

  • Eccessivo distacco dalla tradizione e dalla cultura locale:

I razionalisti, nel loro desiderio di creare un’architettura universale, hanno spesso trascurato il legame con la cultura locale e le tradizioni del territorio, mirando esclusivamente industria che in tutti i luoghi di salvaguardia non erano e ne sono ad oggi presenti, realizzando così dormitori diffusi, che di giorno, diventano un modo moderno per delinquere in quanto luoghi di facile e comodo movimento.

Questo approccio ha portato alla costruzione di edifici che, pur essendo funzionali, talvolta risultano freddi, impersonali e disconnessi dal contesto sociale e culturale in cui avrebbero dovuto essere inseriti.

  • Semplificazione eccessiva delle forme:

I razionalisti cercavano di ridurre la forma architettonica alla sua essenza, enfatizzando la geometria e la funzionalità. Tuttavia, molti architetti e critici hanno sostenuto che questa semplificazione eccessiva ha portato a edifici che, pur essendo funzionali, risultavano privi di identità che il governo delle donne poteva innestare nelle nuove generazioni.

La ricerca della purezza formale ha talvolta sacrificato l’estetica e la bellezza, portando a edifici che sembrano privi di ogni minimale calore umano infatti mancano tutti sono sprovvisti di forni e camini domestici.

  • Negligenza del contesto urbano e sociale:

I razionalisti si concentravano principalmente sull’architettura in quanto tale, spesso senza considerare il contesto sociale o urbano, era il 1978 quando rivolsi la seguente domanda a un mio cattedratico professore: ma a che serve fare case se non si crea una filiera produttiva, queste genti a breve cosa faranno? Mi rispose dicendo mi che ero un semplice allievo e che se non avessi cambiato idea non mi sarei mai laureato; gli risposi che non avevo bisogno di una laurea per essere per fare l’architetto.    

  • Funzionalismo senza considerare la qualità della vita:

La visione razionalista enfatizzava il “funzionalismo”, ovvero l’idea che ogni elemento architettonico dovesse avere una funzione chiara e fine all’abitare.

Ignorando, in alcuni casi, il benessere psicologico e sociale degli abitanti, come nel caso delle “torri residenziali” progettate senza considerare adeguatamente gli spazi pubblici, la socialità tra i residenti e i luoghi di un eventuale lavoro di filiera corta.

Le abitazioni moderne, prive di un legame con il contesto sociale, hanno spesso creato ambienti impersonali e alienanti di odio e malessere.

  • Realizzazione di progetti irrealizzabili o difficili da mantenere:

Alcuni progetti razionalisti si sono dimostrati poco praticabili o difficili da realizzare nella realtà., dove la visione della, città completamente rinnovate, immaginava spazi per la vita non sempre tecnicamente sostenibili. L’ideale del “macchina per abitare” ha spesso trascurato le necessità quotidiane degli utenti, risultando in spazi difficili da mantenere o da adattare per dare agio alla macchina del lavoro di ogni individuo.

  • Impatto ambientale e sostenibilità:

Un altro aspetto che i razionalisti non avevano considerato in modo adeguato è stato l’impatto ambientale delle loro costruzioni.

I modernisti, pur cercando di adottare tecnologie innovative, non si preoccupavano in maniera sufficiente della sostenibilità a lungo termine degli edifici, che in moti casi dopo qualche decennio hanno terminato di essere vivibili e delle soluzioni razionaliste hanno avuto un impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità ecologica, che oggi deve correre ai ripari con spese non sostenibili.

In sintesi, sebbene il razionalismo abbia portato un contributo dell’abitare, molte delle sue realizzazioni hanno sollevato critiche che riguardano la disconnessione tra contesto sociale e, rigidità funzionale verso gli aspetti emotivi estetici ed economici che qui non sono mai stati tema di dialogo a lungo termine.

Commenti disabilitati su COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË - UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA  Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

Posted on 23 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Un luogo tranquilla costruito dalla natura e sostenuto dal genere umano, dove portare sedie e fare conversazione, lavoro di cucito, ricamo e spogliature dei Solanizzati ancora da maturare, mentre i bambini giocano in sicura spensieratezza, crescendo in compagnia dei loro coetanei.

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato e non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Quei luoghi dove il genere uomo hanno tempi brevi per la sosta e le notizie di rito del governo; ecco qui esposto l’esempio di «fatti generi e cose» di un’ambiente riconducibile ai trascorsi di Gjitonia.

Il perché di questa breve è presto detto: esso rappresenta la cellula o unità elementare di convivenza organizzata, che unisce le famiglie, sfugge ad una definizione puramente urbanistica, così come ad una sociologia o antropologia pura, anzi si impenna a qualsiasi precisa teorizzazione spaziale, forse ancor più di altri organismi di maggiore complessità.

Gjitonia infatti va piuttosto interpretato come rapporto umano risultante da svariate condizioni sociali, e non come particolare circoscrizione di un intorno fisico o numerico di radice catastale.  

Preferibile dunque, anziché tentare di schematizzarlo o emularlo pubblicamente per forza di un circoscritto serve, cercare attraverso esempi vivi i caratteri che intervengono a formare questo modello di urbanistica e società di ristretti atti e attività da diffondere.

L’idea stessa di Gjitonia fa immediatamente correre il pensiero alla vita dei piccoli e dei piccolissimi centri o di quelle parti di città che meno hanno risentito i profondi mutamenti dei tempi più recenti con palazzotti razionali o unità abitative dirsi voglia.

In altre parole, sembra più facile capirsi guardando ciò che è avvenuto ed avviene in quegli insediamenti talvolta plurisecolari che ancor’oggi continuano a vivere ed a funzionare nei modi loro originari: e si può risalire tranquillamente fino al medioevo.

L’abitazione   medioevale   ignora l’esistenza   di numerosi funzioni e servizi, e non concepisce tale mancanza come un limite, perché è implicito che il soddisfacimento dei bisogni relativi nasca da una integrazione realizzata fuori dalla casa, sull’aia, sulla piazza, così come sulla strada o nel soleggiato anfratto sottovento.

Sono questi elemento che si modellano in favore della famiglia e l’anfratto, là dove il clima lo esige, si modella per il consenso degli edifici più notevoli o le fontane, i lavinai, le gradinate, che finiscono per diventare teatro dove il pubblico partecipante attivo si ritrova ad osservare e criticare ciò che avviene ai suoi piedi, avvolte soleggiati, bagnati e altre volte ventilati ad asciugare.

Il concetto di una integrazione che avviene fuori dalla casa ci illumina subito su alcuni caratteri; principalmente la mancanza di certi servizi individuali e il sussistere di bisogni che possono venir soddisfatti per il singolo solo in quanto lo siano per la collettività, mentre la necessità di comunicazione con il vicino si può specchiare in una riduzione dell’intimità, da tutti riaspettata.

Come si vede, si tratta di caratteri decisamente negativi, i quali per essere superati devono intervenire fatti positivo, il tutto poi diviene constatazione di matematica elementare di adizione e sottrazione.

Sembra dunque difficile ammettere che il permanere di determinati lineamenti urbanistici, una volta soddisfatti i bisogni di cui si è detto, basti da solo ad assicurare la continuità dei rapporti umani di mero vicinato.

Se ci portiamo più a vanti nel tempo ad osservare abitati che risalgono al sei settecento, notiamo che determinati caratteri si spostano, dalla struttura interna delle abitazioni e, si affina, differenziando i locali destinati alle funzioni fondamentali.

Ed ecco che dalla strada, di cui si va impadronendo il traffico, il punto di incontro si sposta più vicino all’abitazione del singolo, quando non addirittura all’interno di essa, come è avvenuto in molti Katundë arbëreşë per vocalizzare ogni anfratto, strada o slargo dirsi voglia. 

Se ne deve dedurre che i confini del vicinato si restringono, e non è difficile controllare come in effetti la partecipazione corale alla comunità si affievolisca col finire delle forme di vita che qui avevano avuto origine.

Un altro elemento da notare è il passaggio dal prevalere della casa unifamiliare alla diffusione del fabbricato collettivo: nel primo caso la vita di vicinato si svolge necessariamente all’esterno, e perciò stesso può dilatarsi in una continuità a catena di cellule successive.

Nell’altro caso è naturale che un collegamento nasca anzitutto tra gli abitanti di uno stesso edificio e che le persone si incontrino sulle scale, o che comunichino da una finestra all’altra, e questo denta l’isolarsi della cellula che diventa casa o appartamento comune.

La città del secolo scorso si è favolosamente moltiplicata senza avvertire la presenza di valori paragonabili alla Gjitonia.

Pur se essa ha cercato di rispondere a dei bisogni quantitativi, graduandone il soddisfacimento secondo criteri di opportunità sociale o politica. 

Nei grandi tagli edilizi che hanno caratterizzato le città d’Europa essi si fregiano di imponenti edifici dove il singolo individuo può anche vivere ignorando il suo vicino; ma dietro a questa sottile cortina si addensano le vecchie case e le straducole impraticabili alle carrozze, dove ognuno sente la presenza di un intorno umano che gli è notoriamente comune.

Contemporaneamente si allungano nelle interminabili periferie i quartieri amorfi del feudalesimo industriale; qui non soltanto l’uomo non può più costruire la propria casa, ma nemmeno può sceglierla, perché una vale l’altra, essa gli viene assegnata come una divisa unica, è tutto l’insieme fa parte di uno stato di necessità, identico a quello in cui tutti si trovano attorno a lui senza alcuna necessità dei valori racchiusi nel bisogno di vicinato. 

Così, la casa diventa qualcosa di sordo e di estraneo, dove si spengono quei fermenti che da essa nascevano: la strada della felicità implica necessariamente una evasione, né si può guardare con amore il prossimo che fa da sfondo alla scena di ogni giorno.

La rapidità e la vastità con cui si sono espansi i centri antichi, del secolo scorso, hanno moltiplicato il numero delle abitazioni prive di ogni sorta di personalità, la stessa che l’uomo non può e non riesce ad amare.

Quale sia il volto di un centro antico odierno lo sappiamo bene: sotto il segno di una stridente disarmonia, assistiamo al sopravvivere di strutture secolari, così come alle profezie di ideali centri che mirano al futuro, mentre va sfuggendo il senso stesso della nostra dimensione di generi che attende un luogo ideale per esprimere se stesso.

Rintracciare adesso elementi positivi comuni entro un intorno fisico anche limitato, sembra impresa senza uscita. 

Questo edito nella sua breve esposizione porta a concludere che una vita di Gjitonia si associa a condizioni di basso tenore di vita e nel corso di questa indagine, gli elementi favorevoli, sono stati evidenziati così come segue:

–  abitazioni che rispondono a bisogni minimali;

– attrezzature e spazio in comune a seconda le ragioni pulsanti;

– l’assenza di alcune comodità (case sprovviste di

acque, mancanza forno, in tutto cellule densamente abitate);

–  molti bambini e spazi, adatti per i giochi, comuni sempre sotto il vigile governo delle donne;

–  un numero sufficiente, ma limitato di attività sempre fuori dal perimetro di Gjitonia (il tutto contribuisce a un numero scarso, di spostamenti delle massaie se non per la via dell’agro);

– un livello di vita laborioso e semplice, che permetta di comunicare e partecipare con il prossimo, a differenza di quanto avviene in condizioni di agiatezza anche modesta, entro le quali si riscontrano atteggiamenti più individualistici.

Per contro l’esperienza di stimolare la socialità tra Gjitoni con l’ausilio di servizi comuni, espresso con un tenore di vita ragionevole, risolvendo numerosi insuccessi.

Qui divengono fondamentali i valori tipicamente domestici si tutelavano ad oltranza diversamente dai nuovi ambiti più moderni, senza che le persone riescano a conoscersi più che in qualsiasi altro tipo di abitazione collettiva.

È, una volta di più, il fallimento di una urbanistica moderna che pretenda di agire sugli uomini, anziché partire dagli uomini per dare loro le condizioni ambientali più adatte.

Così è evidentemente impossibile enunciare qualsiasi concetto urbanistico generale capace di ricreare nei nuovi aggregati la vita di vicinato: solamente dove particolari circostanze segnalino la possibilità, sia pure latente, di un più caldo rapporto umano, l’dovrà porre ogni cura per scegliere anzitutto la dimensione da assegnare all’elemento urbanistico adeguata a ll’ intensità di quel rapporto.

Si può dire che la maggior parte delle famiglie sono scontente dei vicini che hanno, pur sapendo bene di poter contare su loro in caso di necessità urgente.

Il dovere dell’aiuto reciproco, il senso di solidarietà umana sono infatti ancora vivi tra queste famiglie; il piacere di stare insieme a conversare o divertirsi costituisce tuttora lo spunto per un avvicinamento frequente ed amichevole.

Ma è raro il caso di qualcuna che, pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente.

Per quanto tali risultati siano sconcertanti, ed ammettendo che la ricerca successiva li confermi, riteniamo sia utile tenerli presenti considerando il problema dal punto di vista pratico.

Dalla nostra ricerca appare chiaro che l’esasperazione dei rapporti tra le famiglie del vicinato ha delle motivazioni abbastanza logiche accanto ad altre meno facilmente ponderabili.

Innanzitutto l’eccessiva vicinanza fisica: i rapporti sono peggiori infatti quanto più le case sono vicine; in secondo luogo il livello economico molto basso che, oltre a creare inevitabilmente in ciascuno uno stato di tensione continuamente in cerca di occasioni per scaricarsi, fa sì che ogni piccola differenza acquisti un valore sproporzionato e crei invidie e rancori.

La maggiore mobilità economico-sociale verificatasi in questi ultimi anni ha aggiunto motivi di dissenso in un mondo fermo per secoli in una greve uniformità di livello, in un mondo in cui «lavoro e sacrificio» erano le leggi comuni della vita, e «contentarsi di poco» il necessario sostegno della dignità individuale.

I valori della vita sono piuttosto espressi in sentimenti che in termini razionali, ed è quindi difficile acquistarne conoscenza dal rimanendone al di fuori.              

I l vicinato possono essere considerati, senza cadere in affermazioni arbitra rie, non soltanto come una unità di cultura, di civiltà, ma come unita di cultura consapevole, e capace i tra smettersi e fondersi in quella più va sta cultura che sta alla base di tutta una società democratica.

I l primo o m mezzo di trasmissione dei v a lo r i culturali è costituito dalla famiglia, m a nessuna di esse è oggi isolata, per quanto possa aspirare a provvedere a sé stessa con i suoi soli mezzi.   

Un   agglomerato occasionale di famiglie con tutti i legami e le fo rm e di associazione che sorgono appunto dal loro vicinato.  

In ogni fa miglia il padre, recandosi al lavoro, è espo­sto a contatti sociali con i compagni di lavoro e alle norme   di vita che regolano l’ambiente dell’officina   o dell’agro 

Entrambi i genitori possono essere membri di associazioni religiose, politiche, sindacali o ricreative, nelle   quali confluiscono punti di vista ed opinioni comuni su interessi   particolari.  

S i incontrano nei negozi, e le varie questioni relative al modo di comportarsi – dovere, civismo, cor­rettezza -vengono in superficie attraverso la discussione e l’esercizio della critica.

I bambini, fino a ll’ età di almeno 11 anni, frequentano una scuola situata nelle immediate vicinanze; giocano insieme nelle strade o nei camp i da gioco, vanno e vengono nelle case dei compagni smi­stando notizie da casa a casa e fornendo occasioni   e   confronti   tra i diversi metodi di educazione.  

I l vicinato è quindi un insieme di «ten­sioni» –tra individui, tra famiglie, tra casa e scuola, tra casa e lavoro, tra opinioni e gruppi i di interesse; le tensioni possono essere importanti e di peso decisivo, le relazioni per­sonali possono degenerare in lite e persino in violenze; ma da tutti que­sti fatti l’insieme, emerge un modo di v iv e r e, con la cultura del vicino.

L a m a gg io r parte della gente che lavora v iv e all’interno di questi limiti ideali, in un Katundë; ma esiste la consapevolezza, ed essi appaiono ben chiarie distintivi, quando accade che antichi legami si spezzino in occasione di spostamenti verso nuove abitazioni o altri siti.

T r e aspetti principali della cultura di Gjitonia sono degni di nota: prima di tutto i detti rapporti di buon vicinato, cioè la premura e solidarietà che si manifestano quando si verificano disgrazie: c’è una regola di vita nei confronti di coloro che sono colpiti verso i quali i diritti non sono rispettati e dove il livello generale è molto basso. 

Il secondo aspetto talvolta si rivela come un tratto spiacevole, a seconda se si abbia o meno qualche cosa da nascondere: è la curiosità.

Se ci è indifferente parlare dei fatti nostri sul pianerottolo o dalla fine­stra, non la condanneremo; ma se desideriamo la riservatezza, ci risentiremo verso i vicini curiosi. 

L’inte­resse che tanta gente prova per gli affari degli altri – le loro fortune disgrazie, le operazioni, le nascite, i matrimoni, le morti – crea nel vicino, una   conoscenza perfetta anche di quello che accade dietro porte chiuse o ambiti aperti. 

Può rappre­sentare un motivo di fastidio, ma può talvolta   impedire   sofferenze   e tragedie, può contribuire in modo po­sitivo a creare più strette relazioni umane, in modo particolare per coloro che sono soli od isolati.

Il terzo aspetto è l’accettazione di un tipo   riconosciuto   di   apparenze esteriori, ossia della così detta «rispettabilità».

Sono i frutti dell’in­nato spirito di conservazione, che si aggrappa a tutto quello che si ritine ne possa essere definito «ciò che è be­ne», e si preoccupa di trasmettere le norme e i principi delle generazioni più vecchie a quelle più giovani.

È un fatto prepotente della vita fa ­ migliorare, perché ogni membro di una fa mig lia ha il dovere, nei confronti degli altri membri, di non lasciare che essi scadano a gli occhi dei vicini.

«L’uccello che insudicia il nido è l’uc­cello cattivo», dice un proverbio; e l’uomo che vuole in frangere il codice riconosciuto va via, verso altri luoghi, dove, vivendo anonimo, può allonta­nare da sé ogni responsabilità.

La rispettabilità indica il tono e definisce la cultura di un vicinato.

Le norme di rispettabilità naturalmente variano, e in certi quartieri non sarebbe consi­derato rispettabile essere in rapporti amichevoli con la polizia.

Attraverso comuni interessi e un comune sentire, tra gli abitanti del vicinato   si   stabiliscono   delle   rela­zioni, e attraverso   regole   general­mente, se non universalmente, accet­tate, il vicinato si rivela come una unità di importanti   valori   morali, intellettuali ed estetici chiaramente individuabili, diventa qualche   cosa su cui è possibile costruire.

 

Queste ed altre ragioni plausibili di tensione, che non staremo qui a considerare, ci sembra siano sufficienti per non farci concludere troppo semplicisticamente che queste famiglie preferirebbero vivere isolate (come del resto qualche

donna ha affermato in un impeto d’ira), o – peggio ancora – che meglio sarebbe far in modo che stiano lontane una dall’altra, perché «i contadini sono individualisti», perché non sono capaci di vita associativa.

È certo che il vicinato ha avuto una funzione sociale e psicologica importante nella vita di questa piccola comunità come mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale.

I bambini, si può dire, vivono «Gjitonia» più che nella loro famiglia: passano da una casa all’altra, assorbono avidamente tutto quello che possono apprendere osservando i vicini sia direttamente, sia attraverso quello che ne sentono dire in casa nei pochi momenti di isolamento ed intimità familiare.

Quando una madre che non è la propria, commenta col marito o con i figli più grandi i fatti accaduti nel vicinato durante il giorno, l’ultimo scandalo o la lite che ha variato la monotonia della giornata.

Presto imparano anche loro a riferire quello che hanno visto, e l’interesse dei grandi è il migliore stimolo a perfezionare i mezzi di raccolta delle notizie che poi, valutate ed ampiamente interpretate dagli ascoltatori, costituiscono come altrettante lezioni pratiche sulla base delle quali si effettua l’apprendimento degli schemi non solo psicologici e sociali, ma anche morali della comunità.

Quando l’apprendimento è completo, i fatti sono ormai riferiti già deformati dalla valutazione soggettiva che si è intanto perfettamente adeguata al modello della comunità.

È facile immaginare come l’individuo, in tempi in cui saper leggere e scrivere era un lusso di pochi, venisse rigorosamente modellato su schemi difficilmente modificabili dei quali diveniva a sua volta depositario e trasmettitore, non solo nell’ambito della sua famiglia, naturalmente, ma di tutto il vicinato.

Un tale elemento può dunque chiamarsi unità di vicinato, e la sua ampiezza non si esprime con calcoli di uni­ versale validità, ma si affida unicamente alla sensibilità di chi progetta.

Nei casi reali che possono presentarsi oggigiorno, la più forte funzion e di collegamento è forse rappresentata dal lavoro, specie se artico lato in attività complementari; ma attività che si svolgano entro un raggio modesto, dall’artigianato fino alla piccolissima industria, così come si verifica in altre regioni. 

Qui i vari mestieri hanno bisogno uno dell’altro per giungere al prodotto finito; e ciò che si può vedere in qualunque cortile dove si aprono le varie botteghe, può agevolmente tradursi in una forma attuale, senza che l’abbandono di caratteri urbanistici negativi abbia a indebolire la necessità del rapporto umano.

Una tale unità di vicinato può concepirsi di nuovo come una integrazione non astratta, anzi come uno strumento che l’urbanista consegna ai suoi simili perché continuino a realizzare ciò che già in essi esiste.

Resta un dato inconfutabile che unisce Vicinato e Gjitonia, esso consiste nel dato che dalle pieghe più intime della propria casa; riverberandosi come cerchi concentrici sin nelle regioni più amene.

Tutti, in prima linea sin anche chi ti è stato germano a, finire dall’impari più lontano, cercheranno di limitare, sminuire o adombrare il tuo lume, avendo in continua consapevolezza che il confronto non è stato mai possibile.

Tuttavia attuano e mettono in campo tutte le risorse perverse nate in quelle case del bisogno, per limitare la corsa che ancora ti lega e, non ti libera dall’essere speciale e impareggiabile Gjitonë o fratello dirsi voglia.

P.S. a mio padre

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                      Napoli 2024-01-22

Commenti disabilitati su CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

Posted on 20 gennaio 2025 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Si potrebbe riassumere nel titolo in epigrafe, le storiche ricerche comunemente divulgate con protagonisti gli arbëreşë, i relativi centri antichi e, tutto si dissolverebbe in un nulla di fatto, come avviene con resilienza inopportuna, sostenuta dai Solanizzati, i quali raccolgono ortaggi prima del tempo.

Tuttavia esistono modelli per indagare e studiare, come quelli coadiuvati da Adriano Olivetti, da cui se noti si potrebbe trarre spunto per studi e riflessioni moderne, che dopo i 517 anni dalla venuta degli Arbëreşë, solo Baffi, Bugliari, Giura e Turelli hanno saputo fare.

Immaginare che storia, idioma, consuetudini, costume, architettura, urbanistica, modelli sociali, territorio ed economia, si possano indagare, sulla base di singoli episodi, vagando per gli anfratti della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë è a dir poco un circo, dove si mira alla ricerca di un giullare protagonista, che attragga i viandanti distratti o della breve sosta.

Non è concepibile che figure terze, senza ascolto e parlato in Arbëreşë antico, possano esprimere pareri o analizzare questa emblematica minoranza, oltre modo esempio di integrazione mediterranea grazie alla propria radice identitaria solida, indivisibile espressa in parlato.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura, richiede un approccio metodologico che vada oltre le fonti scrittografiche moderne senza avere consapevolezza del parlato per il trapasso generazionale.

Un metodo molto importante è l’osservazione partecipata, che consiste nel vivere la comunità che si intende studiare per un periodo prolungato avendo ottima conoscenza del parlato e dei tempi dell’ascolto oltre le movenze relative.

Il metodo o meglio il protocollo, permette di comprendere meglio la cultura, le tradizioni, i valori e i costumi identificativi, assieme alle pratiche del vivere quotidiano.

Non ha ragione ne trova rimedio il voler costruire di sana pianta un paese arbereshe che porta con se, oltre cinque secoli di storia avvenimenti e bisogni di epoca luogo e momento storico in forma di regresso o progresso.

Le storie, i miti, le leggende e le tradizioni orali sono fondamentali per comprendere la storia e le credenze di un ben identificato lugo, specie se vissuto dagli Arbëreşë e, a tal fine diventa indispensabile raccogliere narrazioni da persone anziane, che spesso sono i custodi della memoria collettiva locale o, prendere consapevolezza della toponomastica storica.

Un paese non èun semplice componimento di case appartamenti o palazzi, ma la stesura nel temo delle necessità vernacolari dei suoi abitanti, che non cominciano nel caldo di una stanza per terminare nel freddo di un orto retrostante.

Un Paese Arbëreşë contiene e mantiene ambiti coperti e scoperti sostenibili in un ben identificato luogo costruito, non solo per dormire, mangiare e proliferare, ma per conservare memoria, costumi e credenze che non posson essere racchiusi in una stanza o nel circoscritto di una carena rovesciata.

Per questo serve analizzare il costruito con dovizia di particolari, conoscere canto, danza e tutte le forme di espressione utili e indispensabili per addentrarsi all’interno della minoranza che qui comunica e conservi la propria identità.

Le tradizioni o meglio le consuetudini, del tempo lungo e di quello corto, possono rivelare valori, credenze e dinamiche sociali.

L’uso di fotografie, video o altre registrazioni sono un ottimo strumento per documentare le pratiche culturali di una minoranza che non fa uso della scrittura e si affida al parlato e al canto tra generi.

Questo tipo di documentazione permette di inghisare aspetti che altrimenti potrebbero essere persi, come l’uso del linguaggio corporeo, il comportamento sociale e le interazioni quotidiane specie del governo delle donne, le protagoniste della divulgazione di atti e attività sociali.

Collaborare con membri della minoranza allevandole a guide culturali o interpreti, di attività locali, può diventare di fondamentale tutela per quanti appartengono alla comunità, in quando unici addetti per una comprensione profonda dei propri costumi e pratiche di vita, fornendo così insight che un ricercatore esterno potrebbe non cogliere, comprendere o immediatamente recepire.

Se la minoranza ha una lingua orale, è utile studiarla, poiché la lingua è un importante veicolo di conoscenza e cultura e l’analisi attraverso l’uso di registrazioni audio, può svelare significati celati, dalla struttura sociale e modi di esporre difficili da comprendere.

È fondamentale approcciarsi a una minoranza, con rispetto e consapevolezza delle dinamiche che potrebbero emergere tra il ricercatore e la comunità, a questo punto diviene fondamentale l’adoperarsi, per stabilire fiducia e relazioni etiche che permettano una vera comprensione reciproca priva di codici in difesa.

Se possibile, consultare studi etnografici e ricerche precedenti che abbiano trattato la minoranza secondo simili progetti, anche se non esistono documenti o attività in tale direzione.

A tal proposito non sono certo di aiuto le ricerche accademiche basate su interviste e osservazioni eseguite da ricercatori senza formazione e titolo, gli stessi che poi riportano ai docenti editi ed estrapolazioni a dir poco elementari, che se analizzate con dovizia di particolari possono essere rivisitate e dare agio alle ricerche.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura richiede un’attenzione particolare ai metodi e agli strumenti di ricerca, mantenendo sempre una mentalità aperta e rispettosa verso le tradizioni culturali e le modalità di comunicazione o gli atti di attività espressi.

Diventano per questo fondamentali gli esami delle abitazioni e gli edifici storici, senza compromettere l’integrità del paesaggio e della tradizione architettonica di un identificato momento della storia.

Di venta fondamentale per questo l’analisi e l’uso dei materiali nelle diverse epoche, con particolare attenzione alle persone che vi abitavano, e la necessità di preservare le tradizioni culturali del bisogno di ogni epoca.

A tal fine vale il principio di studiare come erano organizzate le diverse aree senza cancellare la sua autenticità, migliorando al contempo la qualità della vita degli abitanti con i nostri tempi.

Approfondire le analisi legate alle problematiche della salute pubblica e le condizioni igieniche, cercando soluzioni per l’approvvigionamento, il trattamento dei rifiuti e il miglioramento dei servizi sanitari.

Altro aspetto fondamentale divine lo studio delle attività economiche tradizionali e le possibilità di sviluppo di nuovi settori, inclusi il turismo, della breve sosta, oltre ad incentivare attività commerciali che promuovono prodotti locali.

promuovere studi specifici relativi ai rioni tipici di ogni Katundë, in tutto i più antichi o del bisogno primario vernacolare poveri e proporre soluzioni che permettessero di recuperare l’area senza distruggere la vita sociale e comunitaria che caratterizzava il rione in tutte le sue parti, specie le prospettive pittoriche.

Il tutto deve essere finalizzato a migliorare le condizioni abitative, con un’attenzione particolare all’edilizia sociale e alla qualità degli spazi pubblici dove poter far esprimere e dare agio all’antico Governo delle donne.

E garantire la sostenibilità ecologica, preservando il paesaggio naturale, migliorandone le condizioni ambientali attraverso soluzioni innovative da sottoporre a una commissione multidisciplinare superiore in tutto il governo unico e indivisibile di generi adeguatamente formati.

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