Posted on 20 settembre 2024 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: KRÙNDJEN E ZUNURATË ARBËREŞË TROVA AGIO TRA LA TERRA DI SOFIA E LE MURA DI NAPOLI (lljeva Zëmëren ndë Katundë pësè besa imè hështë me motë e gjalë)
Posted on 22 giugno 2024 by admin
a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it
bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it
c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it
Abstract
La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.
In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.
Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.
Abstract
The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.
In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.
The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.
Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili
Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage
Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.
La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.
Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.
I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.
La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:
Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.
All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera). L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).
Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le aree interne dal mare, ma anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.
Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).
Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.
Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:
Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);
Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);
Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);
Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);
Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);
Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);
Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).
Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.
Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.
La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.
L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.
L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.
L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.
Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).
Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.
Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.
Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:
La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.
Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).
Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .
Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.
Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).
Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).
La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.
Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.
L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).
Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.
Conclusioni
Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.
Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.
Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.
In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.
Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.
References:
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Posted on 02 giugno 2024 by admin
ALBANESE
Tashmë kur gjithçka ka përfunduar dhe që do të finalizohet me inaugurimin më 6 qershor 2024, ora 17:00, kur përpjekjet rraskapitëse, debatet dhe diskutimet e tensionuara, kanë mbetur pas, kërkoj me përulësi leje, të ndaj me ju disa mendime dhe të qasem të sjell disa sqarime, për atë që ka nxitur një zemëratë publike, evidentuar kryesisht në mediat sociale.
E ndjej detyrim të jem përballë atyre, me shumë prej të cilëve njihem, bashkëndajmë mendime për artin dhe na dhemb çdo plagë e Shkodrës, siç na lumturon dhe na bën krenar gjithçfarë kësaj përkatësie të qytetarisë dhe kulturës, i jepet si një shpërblim, të asaj që është dhe asaj që do të mbetet, në kresht të lartësimit.
Pata privilegjin të jem i mikluar nga një dhuratë kaq e begatë, të jem kurator i skulpturës monumentale “The Albanian Key”, e cila është vendosur në hyrje të Shkodrës, siç nuk u gjenda i befasuar nga stuhia që u ngrit prej reagimit qytetar. Paraprakisht e kam informuar autorin e veprës, Alfred Mirashi – Milot për atë çfarë do të shoqërojë vendosjen e skulpturës, për papajtueshmërinë, mospranimin dhe keqkuptimin që do t’i rrethvijë kësaj kurajoje artistike, për të guxuar dhe besuar te arti novator, te risitë, te ajo që ka premisë të sjellë një mënyrë ndryshe të ndërtimit të marrëdhënieve dhe ofertës komunikuese, si me qytetarët e interesave periferike për artin, ashtu edhe për ata që janë artistë.
Jo vetëm kjo formë e komunikimit artistik që Milot rreket të formësojë përmes një ide-konceptim revolucionar, por çdo ngulm estetik në historinë e progresit shoqëror, është ndeshur me një qëndresë, shpesh të pakalueshme të opinionit publik. Kjo ka çuar deri te linçimi i artistëve dhe masakrimi i veprave, por shpirti krijues ishte ai që sfidoi mbi çdo turrë drushë e zjarr apokaliptik, fyerje dhe përdhosje, tortura dhe vrasje mizore, duke triumfuar. Historia e artit ka pafund beteja të tilla, të cilat vetëm sa e kanë përsosur artin dhe ftuar publikun në një bashkëjetesë të pakonkurreshme me shijen e rafinuar estetike dhe fuqinë e mahnitshme të së bukurës.
Tendenca e qëndrimit të publikut, kryesisht atij shkodran, ndaj “The Albanian Key”, kësaj vepre arti, fituese e Konkursit Ndrkombtar “Art në hapësirën Publike”, shpallur nga ministria e Kulturs, u përball me një stinë tejet të mbarsur rrebeshesh. Shpesh mendimi i atyre që u bën pjesë e këtij kuvendimi publik, degjeneron në sharje dhe fyerje të një larmie krijuese, e denjë për një debat publik me fokus artin. Dhe kjo është arsye për të reflektuar, duke ju kundërvënë kësaj situate me maturi, durim, tolerancë dhe mirëkuptim, sepse arti vjen të ndërtojë ura e jo të thellojë hendeqe.
Secili mund të kishte dhe të ketë të drejtë, në atë që tha dhe do të thotë, në lidhje me këtë skulpturë konceptuale, që artisti e ka huajtur nga fluturimi i shqiponjës (siç është e ilustruar në imazh), e cila gjithashtu në alegorinë e saj shprehëse bart një mesazh të fuqishëm siç është çelësi, një çelës që hap çdo derë dhe çel qiejt e së sotmes së çdo shpirti. Art për tempullin e artistëve. Art monumental për qytetin që vepra krijuese e shpirtit e ktheu në monument këtë qytet. Art aty ku flitet dhe jetohet për të bukurën dhe me të bukurën.
Më në fund njerëzit mund të flasin, të debatojnë dhe të parashtrojnë ide për artin. Mjaft më me kufizimet dhe ndalimin, me censurimin e fjalës dhe linçimin e mendimit. Sot më shumë se kurrë, ky legjitimitet le të triumfojë dhe arti është një vlerë e vërtetë arti, kur ndodhet nën një fokus kaq të gjerë dhe bombarduar me një interesim të admirueshëm, vetëm për një kryevepër arti.
Fjala dhe mendimi i secilit që u bë pjesë e këtij arti ndryshe, është ajo çfarë e bën një komunitet, një grup shoqëror, apo edhe një masë e madhe njerëzish, të cilët duke shfrytëzuar mundësinë e shprehjes së mendimit të tyre, të kontribuojnë që kjo vepër arti të shndërrohet në një ngjarje për Shkodrën.
Përfshirja në një debat publik të këtyre përmasave, tregon një nevojë të ngutshme të opinionit për të qenë i pranishëm në një event të tillë krijues, edhe atëherë kur gjithçka e vendos një juri ndërkombëtare profesionistësh. Ndoshta dëgjesat publike si në rastet e zgjidhjeve të problemeve me ndjeshmëri të lartë për komunitetin, duhet të konsiderohen edhe për veprat e artit gjithashtu me interes publik. Edhe nëse kjo nuk është një praktikë rutinë e mënyrës se si përcaktohen rregullat e përfshirjes së opinionit në vendimmarrje të tilla, zbatimi, me gjithë kokëçarjet që do të gjenerojë do të sillte përfshirjen e komunitetit në atë që do të jetë një event.
Sa këtu ndodhemi, kur arti luan me të tjerë rregulla loje, na mbetet të bëhemi dëgjues të vëmendshëm dhe reagues të matur, përkundër një ofensive të potershme dhe një lumi të mbarsuer nga stuhia që del nga shtrati. Secili që ka të drejtë fjalës, gëzon legjitimitetin të dëgjohet, siç do të ishte në integritetin e secilit të jetë në lartësinë e atij qëndrimi, me të cilin mediat e huaja dhe kritika e artit, kryesisht ajo italiane e kanë konsideruar dhe shtjelluar me një përkujdesje të veçantë.
Ekipi i “The Albanian Key”, ka trajtuar me vëmendje dhe përgjegjësi profesionale reagimet e qytetarëve për veprën. Ka mbajtur shënim qëndrimin e secilit që u bë pjesë e këtij debate, pavarësisht sensit përmbajtjesor dhe pamjaftueshmërinë për të pranuar një artist, i cili është i vlerësuar ndërkombëtarisht, por pa mundur ende të gjejë të njëjtën përzemërsi nga bashkëkombasit e vet.
Gjithsesi, e drejta e secilit të ketë një mendim dhe një qëndrim për një vepër arti publike, është eksluziviteti që i mundësohet një shoqërie të emancipuar, e cila reagon dhe përfshihet, duke shpërfaqur prezencën personale në mënyrën se si ai ose ajo vendos komunikimin.
Të favorizuar nga rrjetet sociale dhe vetëdija qytetare, lidhjet e veçanta që ka ky komunitet me artin, artkrijues dhe artpërjetues, nxiti atë që të gjithë u bënë aktorë në këtë ngjarje të rëndësishme artistike që troket në portat e qytetit të Shkodrës.
Është në obligimin e çdo krijuesi të jetë i njohur me mendimin dhe qëndrimin e çdo individi për veprën e tij, e cila është një krijesë që ai e ka ngjizur në mendime dhe krijuar në shpirt për t’ia besuar më pas një grupi të madh kuratorësh, inxhinierësh, krijuesish.
Tradotto in Italiano da Atanasio Pizzi Architetto Basile, con Google traduttore, come fan tutti.
Ora che tutto è finito e si concluderà con l’inaugurazione, il 6 giugno 2024, alle ore 17, una volta lasciati alle spalle fatiche estenuanti, dibattiti e discussioni tese, chiedo umilmente il permesso di condividere con voi alcune riflessioni e Questo approccio porta alcuni chiarimenti su ciò che ha alimentato la rabbia del pubblico, evidenziato principalmente nei social media.
Mi sento in dovere di trovarmi di fronte a coloro che, molti dei quali conosco, condividiamo pensieri sull’arte e ogni ferita di Scutari ci ferisce, perché ci rende felici e ci rende orgogliosi, tutto ciò che appartiene a questa cittadinanza e cultura è dato come una ricompensa, cioè, quella che resterà, al culmine dell’esaltazione.
Ho avuto il privilegio di essere benedetto da un dono così ricco, di essere il curatore della scultura monumentale “La chiave albanese”, che si trova all’ingresso di Scutari, poiché non sono rimasto sorpreso dalla tempesta che si è scatenata dalla reazione dei cittadini. Ho precedentemente informato l’autore dell’opera, Alfred Mirashi – Milot, di ciò che accompagnerà la collocazione della scultura, dell’incompatibilità, del rifiuto e dell’incomprensione che circonderanno questo coraggio artistico, di osare e credere nell’arte innovativa, nelle innovazioni, di quello che ha la premessa di portare un modo diverso di costruire relazioni e offerta comunicativa, sia con i cittadini di interessi periferici nell’arte, sia con coloro che sono artisti.
Non solo questa forma di comunicazione artistica che Milot cerca di plasmare attraverso un’idea-concetto rivoluzionario, ma ogni insistenza estetica nella storia del progresso sociale, ha incontrato una resistenza spesso insormontabile dell’opinione pubblica. Ciò ha portato al linciaggio degli artisti e al massacro delle opere, ma è stato lo spirito creativo a sfidare ogni incendio e incendio apocalittico, insulto e profanazione, tortura e omicidio crudele, e a trionfare. La storia dell’arte ha infinite battaglie di questo tipo, che hanno solo perfezionato l’arte e invitato il pubblico a una convivenza senza rivali con il gusto estetico raffinato e lo straordinario potere della bellezza.
L’atteggiamento del pubblico, soprattutto di Scutari, nei confronti di “La chiave albanese”, quest’opera d’arte, vincitrice del Concorso internazionale “Arte nello spazio pubblico”, indetto dal Ministero della Cultura, ha dovuto affrontare una stagione molto piovosa. Spesso l’opinione di chi fa parte di questa assemblea pubblica degenera in insulti e insulti di tipo creativo, degni di un dibattito pubblico incentrato sull’arte. E questo è un motivo per riflettere, affrontando questa situazione con prudenza, pazienza, tolleranza e comprensione, perché l’arte viene a costruire ponti e non ad approfondire fossati.
Tutti potrebbero avere ed hanno ragione, in ciò che ha detto e intende, in relazione a questa scultura concettuale, che l’artista ha alienato dal volo dell’aquila (come illustrato nell’immagine), che anche nell’allegoria della sua espressione porta con sé un messaggio potente come una chiave, una chiave che apre ogni porta e schiude i cieli presenti di ogni anima. L’arte per il tempio degli artisti. Arte monumentale per la città che il lavoro creativo dell’anima ha trasformato questa città in un monumento. Arte dove la bellezza si parla e si vive con bellezza.
Finalmente le persone possono parlare, dibattere e proporre idee sull’arte. Basta con le restrizioni e i divieti, con la censura della parola e il linciaggio del pensiero. Oggi più che mai, che questa legittimità trionfi e che l’arte sia un vero valore artistico, quando è sotto un’attenzione così ampia e bombardata da ammirevole interesse, solo per un capolavoro.
La parola e il pensiero di tutti coloro che sono entrati a far parte di quest’arte diversa è ciò che fa sì che una comunità, un gruppo sociale, o anche una grande massa di persone, cogliendo l’opportunità di esprimere la propria opinione, contribuiscono a far sì che quest’opera d’arte diventi un evento. per Scutari.
Il coinvolgimento in un dibattito pubblico di questa portata dimostra l’urgente necessità che il pubblico sia presente a un evento così creativo, anche quando tutto viene deciso da una giuria internazionale di professionisti. Forse le udienze pubbliche, come nei casi di risoluzione di problemi di elevata sensibilità per la collettività, dovrebbero essere previste anche per le opere d’arte anche di pubblico interesse. Anche se questa non è una pratica di routine su come vengono definite le regole per l’inclusione dell’opinione in tale processo decisionale, l’implementazione, con tutti i grattacapi che genererebbe, porterebbe al coinvolgimento della comunità in quello che sarà un evento.
Finché siamo qui, quando l’arte gioca con altre regole del gioco, non ci resta che diventare ascoltatori attenti e soccorritori prudenti, nonostante un’offensiva potente e un fiume nato dalla tempesta che esce dal letto.
Chiunque abbia diritto di parola gode della legittimità di essere ascoltato, poiché sarebbe nell’onestà di tutti essere all’altezza di quell’atteggiamento, con cui i media e la critica d’arte straniera, soprattutto quella italiana, hanno considerato ed elaborato con cura speciale.
Il team di “The Albanian Key” ha gestito con attenzione e responsabilità professionale le reazioni dei cittadini all’opera. Ha preso atto dell’atteggiamento di tutti coloro che sono entrati a far parte di questo dibattito, nonostante il senso del contenuto e l’inadeguatezza ad accettare un artista apprezzato a livello internazionale, ma senza riuscire ancora a trovare lo stesso affetto da parte dei suoi connazionali.
Tuttavia, il diritto di ognuno ad avere un’opinione e una presa di posizione su un’opera d’arte pubblica è l’esclusività concessa a una società emancipata che reagisce e si impegna, manifestando presenza personale nel modo in cui decide di comunicare. Il favorito dei social network della coscienza civica, il legame speciale che questa comunità ha con l’arte, l’ideatore sperimentatore dell’arte, ha incoraggiato tutti a diventare attori di questo importante evento artistico che tocca tutti i porti della città di Scutari.
È dovere di ogni creatore conoscere l’opinione e l’atteggiamento di ciascun individuo nei confronti della propria opera, che è una creatura che ha concepito nei suoi pensieri e creato nella sua anima per poi affidare ad un folto gruppo di curatori, ingegneri, creatori, ingegneri, creatori, metalmeccanici.
Posted on 04 maggio 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel mondo dei segni e le divulgazioni storiche di massa, trova ragione, chi, dove, perché e come invia messaggi a favore o contro avvenimenti di necessità opportunamente mirata.
Specie se i tali messaggi sono subliminali per piegare l’uomo inconsciamente, in favore di quanti vogliono sottomettere e far apparire le cose secondo un personale tornaconto di piega, come piega o diplomatica di credenza o politica di sottomissione.
Scriveva nel suo racconto di approdo degli Arbëreşë, nel regno di Napoli “Gioacchino da Fiore, teologo e filosofo italiano” che questi, si fossero insediati dopo la morte dell’eroe Giorgio, per un antico patto stipulato dall’eroe, “volgarmente appellato Scanderbeg” con i regnanti fedeli all’ordine cavalleresco del drago.
Questa affermazione del dotto e storico calabrese, è sempre stato motivo di ricerca, perseguendo il fine di comprenderne, il significato completo di quella delegittimante frase.
La risposta di tutto ciò sta a Napoli e sotto gli occhi distratti di tutti i ricercatori, che volessero dare senso e collocare, in favore di questo condottiero ricattato, provato e poi liberatosi di tutte le angherie immaginabili dall’invasore mussulmane, che per la sua ritrosia storica verso gli invasori, venne eletto, poi, dal pontefice “atleta della credenza cristiana”.
Giorgio Castriota, subì le angherie turche imposte al padre e con grande intelligenza, seppe rispondere e reagire nei momenti più cruciali della sua esistenza invita o ravvedimento in favore dei suoi genitori e dei suoi sudditi che non tradì mai.
Per questo dopo la sua morte violato il suo sepolcro fu portato in trionfale pena, dai suoi persecutori seriali in giro per le sue terre, a confermare la sua non più esistenza, cosi come dovette scappare la moglie a Napoli per difendere il suo onore e quello del marito scomparso prematuramente e dei figli, altrimenti sicuramente sottoposti alla gogna in quelle terre dall’avanzare dei mussulmani.
Giorgio Castriota in una comparsa del 1462 appare, inciso in fusione bronzea, al seguito del re Aragonese vittorioso, nella epica battaglia di terra strutta nei pressi di Greci (AV).
E in questa fusione bronzea dell’epoca, né lui e alcun altro porta un elmo, a forma di cupola islamica sormontato da una capra biforcuta, conferma ne è il copricapo di Vlad III suo compagno di avventura contro i Mussulmani che si pone al fianco di un cavaliere con un copricapo con il “segno emblematico dell’Ordine del Drago”.
Questo segna in maniera indelebile la ragione per la quale Gioacchino da fiore, sottolineava il comunemente appellativo, oltre al fatto che quando furono fatte le fusioni per collocare le statue a Tirana e Roma, come d’incanto appaiono due emblemi a dir poco impropri; il primo è il copricapo in forma “di cupola mussulmana” sormonta da uno spaesato agnello o capretto, dirsi voglia e, a conferma dell’ironica vicenda sono la facciate dello storico museo dell’arte nella piazza che schematizzano forme di due croci rovesciate (?????) cosa si voleva dimostrare e perlomeno chi ammagliare?.
Se oggi si vuole diligentemente onorare, unendo gli Arbëreşë come voluti dallo storico condottiero, con le genti addomesticate dall’slam, sarebbe il caso di deporre non sul capo ma portato a braccio sinistra l’emblema storico dell’ordine del drago.
Noi qui e mi riferisco a tutta la regione storica sostenuta e divulgata in Arbëreşë, non abbiamo bisogno di emblemi ironici che compromettono il nostro orgoglio e i nostri trascorsi storici, ma una chiarificazione che definisca le ostilità mai deposte o terminate, tra le due sponde del fiume Adriatico, sottoposte al controllo dell’aquila a due teste con un solo cuore.
Tanto meno depositarle in termini senza orientamento, magari allineati con i lavinai e i butti storici locali, che per quanti sanno di storia lasciano molto a desiderare relativamente al rispetto che si deve rivolgere verso questa figura sino ad oggi offesa e disonorato dalle genti che vivono li dove sorge il sole.
Commenti disabilitati su SE GIORGIO ERA UN SANTO QUALE NECESSITÀ CORREVA PER STERMINARE IL DRAGO E APPARIRE? (Giorgio deve stare con l’elmo mussulmano di radice caprina o con quello del drago a impronta cristiana)
Posted on 25 marzo 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’acqua scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, le persone che osservano dalle rive desertiche, prendono spunto dai suoi suggerimenti, e costruiscono con il tempo che scorre senza sosta.
A tale scopo si vuole dare storica memoria, ai luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva, come: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Cangellë, Sentinë, Morrë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.
Valga come esempio primo il Lavinaio, refluo torrentizio che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, grazie al fondamentale corso naturale dove attingere sabbia per la crescita dell’edificato originario.
Risorsa offerta dalla natura, dove fermata la sabbia con apposite barriere, in diverse grammature ed usi, grazie alle quali, venne sin anche edificata la chiesa padronale di estrazione latina del Katundë arbëreşë.
Qui grazie allo scorrere dell’acqua, operosa nel rifinire la sabbia, nel tragitto che faceva sino a valle, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare si depositavano finemente in diversa grammatura, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere nel fiume.
In tutto acque che scendono da monte, segnando i tracciati, poi divenuti progressivamente strade vichi e scalinate, in quel tempo, fondamentali per orientarsi, secondo un progetto naturale, del centro antico in crescita.
Il tutto, fu poi per opera dell’uomo, percorso che conduce nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze.
Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace, o tiene velate cose, tuttavia rimane vigile e in attesa che le sia ridata voce, dove essa scorreva o cadeva, segnando il luogo e la storia.
Infatti è stato sufficiente lasciarla libera di scorrere, affinché componesse secondo natura, quei percorsi ben seguiti dagli uomini, perché espressione di iunctura; o meglio tessitura fatta di trame di acqua e di tempo, ben accolta dall’uomo, che non le ha più abbandonate.
Ho sempre immaginato, che l’edizione di un testo, portato a buon fine, potesse sollecitare i migliori propositi revisionando e arricchire le cose della storia e la scienza in contenuti senza riserve, in tutto dare vivacità e “freschezza” come lungo i lavinai del passato, hanno consentito di attingere e poi in epoca moderna fa lo scorrere condiviso dell’acqua, che appartiene indistintamente a tutti.
A tal proposito si vuole sottolineare quel due di maggio del 1935, quando furono invitati tutti i fruitori in Terra di Sofia, in un luogo comune su base ottagonale, perché identificato luogo religioso sociale e religioso dei cinque sensi, per fare una festa e accogliere l’acqua nuova, senza distinzione di rioni o Gjitonie, ma rappresentanza di tutto il centro antico a quei tempi in spasmodico ardire per essere rilanciati, dopo il secondo inverno nero mondiale.
Lo stesso che dagli anni ottanta del secolo scorso, venne strappato dalla prospettiva dell’intellighenzia beneaugurante degli ignari di turno, posto molto di lato, senza una cognizione di causa, perché già prima era stato negato anche lo scorrere del fondamentale liquido naturale, che unisce e disseta le menti dei giusti.
Ed è così che il deserto storico, sociale e religioso ha iniziato a prendere il sopravvento; la pietra cementizia ottagonale, diventata desertica e, per diversi decenni, poi apparisce impropriamente alimentato con riciclo infantile, con la speranza che unisca persone a cui si vieta di usarla, in tutto impedire quegli atti sociali e di fede, che uniscono e dissetano le persone e le cose genuine.
Ed è così che il quadrangolare fontanazzo evidenzia solamente le pene dell’acqua, che non scorre come fa la Storia, ma gira su sé stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda.
In questo breve sicuramente mancherà la citazione degli attori principali ma, il testo resta un esame di eccellenza, perché da quando il riciclo ha avuto inizio, la Storia del Katundë dove tutto è diventato piatto e non sfogliare pagine di storia buona, come fa l’acqua.
Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico sempre presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.
Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.
Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.
La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.
Katundëtë; dove oggi il tempo e l’acqua, van per mano e riempiono buche, e ingannano il comune viandante ignaro.
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Posted on 19 marzo 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Le stagioni all’interno della Regione storica Diffusa degli Arbëreşë scandiscono le attività terrene secondo un legame inscindibile tra uomo, natura e credenza.
Un macro cosmo, dove i protagonisti erano e restano a tutt’oggi l’uomo, i luoghi addomesticati e la variabile naturale, quest’ultima ritenuta dalla credenza popolare a servizio dalle divinità.
Queste ultime, nel periodo della semina erano chiamate in causa attraverso manifestazioni che valorizzavano il buono, rappresentato o raffigurato dalla religione e il male era ritenuto pagano, avevano così inizio manifestazioni ben oltre i limiti del buon senso o del semplice raffigurato.
Tuttavia, a scandire lo scorrere del tempo nelle attività delle genti operose arbëreshë sono “l’inverno” (Dimër) e “l’estate” (Verà); le uniche e sole “due stagioni” a cui si legano tutte le attività terrene.
E anche Aristotele nei suoi trattati riferiti degli uomini; prediligeva, in quanto Greco, quanti vivevano negli ambiti collinari, in quanto strategicamente idonee per la formazione degli uomini; e i detti luoghi forgiavano e rendeva più propensi alle attività produttive oltre alle arti.
La stagione che iniziava il 19 marzo e terminava il 30 novembre, climaticamente la più soleggiata e, per questo consentiva la migliore crescita produttiva, sociale e artistica, diversamente, dagli anarchici delle zone di mare e gli associali delle aree montane.
Lo stesso calendario con i dodici mesi, qui in seguito, riportato in arbëreshë, racchiude questo teorema, in altre parole non è altro che l’espressione condivisa di due tappe temporali: la prima trova la rinascita dalla luce e il sole; la seconda il buio la notte, per consentire il riposo della natura e isolare gli omini.
Per gli Arbëreshë questi valori o tracce le ritroviamo attraverso le attività Kanuniane ligie alla socializzazione, alla produzione e il passaggio di testimone, per le nuove generazioni.
Senza mai distrarsi evitando di fare guai continuati con i giovani, ai quali se da una parte gli si dava fiducia per onorare luoghi e cose di una determinata famiglia, ma poi subito rimuovere e armarli di zappa per rassodare campi, in questa lunga stagione di rinnovamento, se non si dimostravano saggi nelle attività e le cose che eventualmente richiedevano il buonsenso atteso, nell’inverno trascorso e nelle stagioni di pena profusa.
E anche in questo caso, l’estate e l’inverno avevano un loro significato preciso, sia come pena trascorsa al buio della luce del camino in casa e come termine per la stagione della libertà, il sole che illumina ogni cosa fatta ed esposta.
L’estate e l’inverno, rispettivamente iniziano e terminano: il 19 di Marzo, il giorno di San Giuseppe; il 30 Novembre giorno di Sant’Andrea, due momenti largamente condivisi, vera e propria credenza popolare, in cui le allegorie all’interno della regione storica diffusa, si ripetono identicamente in ogni dove, con riti propiziatori in cui il pagano, quello che offrirà il sottosuolo (gli Inferi), si armonizza con il cielo (il Divino) per rendere vivibile la vita degli uomini sulla terra (il Purgatorio).
Gennaio – Jamari – Mese dedicato a Ianus (Giano), Dio bifronte, che segnava simbolicamente il passaggio dal vecchio al nuovo anno; Ianuain latino significa “porta”.
Febbraio – Fjovari – deriva da februa “purificazione”, il mese in cui si praticano le attività per la purificazione dei campi prima della semina.
Marzo – Marsi o Shën Sepa – Mese dedicato a Marte, dio della guerra o il mese dell’Equinozio di Primavera cade generalmente, alla fine della seconda decade di marzo e, a tal proposito è bene citare un antico detto: (S. Giuseppe il -19 marzo porta il candeliere in cielo perché sarà sole per illuminare l’estate.
Aprile – Prilj – dall’etrusco Apru, Afrodite dea greca e prima ancora, fenicia: essa rappresenta la dea della forza vitale, sotterranea, che induce le gemme a fiorire.
Maggio – Maji – il mese di Maia, dea della fertilità, era in questo mese che nell’antichità si praticavano i rituali mirati alla fertilità dei campi e si apponevano amuleti per allontanare il malefico.
Giugno – Querishtua o Curishtua – il mese dedicato alla dea Iuno, cioè Giunone; tuttavia è anche il mese delle ciliegie (quèrshi) e dalla mietitura (Cuermi), tagliare accorciare, raccogliere il grano.
Luglio – Lionarj – Dedicato a Gaius Iulius Caesar, Giulio Cesare,
Agosto – Gushti – Dedicato a Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus, l’imperatore Ottaviano Augusto.
Settembre – Vjesgt – Settimo mese dell’antico calendario di Romolo che vedeva settembre come settimo mese da marzo, e per alcune culture la numerazione si dilunga sino al dodicesimo mese dell’anno; tuttavia in questo mese cade l’Equinozio di Autunno (22 o 23 Settembre) nel quale il Sole sorge esattamente a Est . Va in oltre ricordato che: “San Michele -29 settembre- porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.
Ottobre – Shën Mitri o Vreshët – ottavo mese dell’antico calendario di Romolo, gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati consuetudinari/religiosi legati alla raccolta delle uve, da qui Shën Mitri o Vreshët.
Novembre – Shën Mërtini o Vereth – nono mese dell’antico calendario di Romolo gli arbëreshë attribuiscono a questo mese anche significati religiosi e legati alla maturazione del vino da qui Shën Mërtini o Vereth.
Va in oltre ricordato che: “Sant’Andrea -30 Novembre – porta il candeliere dal cielo, per illuminare l’inverno degli uomini”.
Dicembre – Shen Ndreu – decimo mese dell’antico calendario di Romolo esso rappresenta anche la fine del Solstizio d’Inverno che cade il 21 o il 22 Dicembre.
In questi tre mesi ultimi mesi il Sole nel cielo è stato sempre più basso ed il suo percorso sarà sempre più breve.
Napoli, 2024-03-19 dove il tempo scorre non per tutti indifferente
Posted on 10 febbraio 2024 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.
Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando con numerosi esperti partenopei, amici del settore, in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte con senso “pratico chiaro” e, soprattutto, in grado di veicolare due cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano i maestri della bottega Olivetara senza mai “oltrepassare” i1 campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.
Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.
In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.
A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?
Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.
Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.
Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.
Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.
In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di essere diffusa con sapienza in musei dedicati.
Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e
ambiente naturale.
Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.
In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.
Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.
Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.
Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.
In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:
– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;
– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;
– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,
– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;
– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;
– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;
– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo
Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?
È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.
Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:
– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;
– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;
– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;
– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;
– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;
– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;
– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.
È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.
Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.
La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».
Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.
D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.
Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.
Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.
Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.
Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.
La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).
Commenti disabilitati su TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)
Posted on 12 luglio 2023 by admin
“MEDITERRANEO – BACINO D’ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE “
“La Regione Storico degli Arbër”
(radici di Ieri, certezze di Oggi, per la sostenibilità dei Domani)
Per un più completo palinsesto storico culturale dell’estate in corso, in attività che promuovono e rilevano la storia, le cose, il genio, i costumi, le chiese, le case l’ambiente naturale dei Katundë Arbër/n, onde evitare divulgazioni, prime, seconde, terze, ecc., ecc., ecc., si propone secondo studi e analisi comprovate, i temi seguenti univocamente, solidamente definiti e comprovati all’ausilio multi dipartimentali di antica radice:
Posted on 28 agosto 2021 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’anno duemilaventi è trascorso senza alcuna manifestazione culturale, all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”, tutti i preposti in questo periodo erano concordi, al chiuso delle proprie abitazioni, ad iniziare con più coerenza le manifestazioni per valorizzare i ricordi consuetudinari della minoranza storica.
Specie nel rapporto mai consolidato con i canali turistici che contano, dove storicamente gli ambiti arbëreshë sono marginalmente contemplati, come episodi orografici, ma non quale eccellenza sociale d’integrazione mediterranea.
Se fosse vero che ogni promessa è debito alla luce dei mille ravvedimenti diffusi, sui social/media durante la pandemia, quanto esposto in questi pochi mesi, di relativa libertà, non lascia dubbio alcuno, sulla fratellanza con il burattino di legno che prometteva, prometteva e prometteva.
A ben vedere “l’arcobaleno” prospettato, realizzato e addirittura vantato, come espressione artistica/culturale, palesa una povertà di valori che non trova eguali, sminuendo sin anche gli ambito maggioritario delle colline Italiane.
Una promessa di ravvedimento non mantenuta che lascia a dir poco sconcertati, viste nuove ricerche o stati di fatto, posti in essere, che avrebbero dovuto fissare più solidamente le caratteristiche della minoranza, non più esclusivamente a temi linguistici, metrici, consuetudinari, religiosi, come unica meta di salvaguardia.
Oggi grazie a temi ambientali, del costruito storico, il Genius Loci espressione di città policentrica, aggiunto al riferimento settecentesco, ponte tra credenza civile, religiosa e profana, ovvero, “il costume nuziale femminile”, si sarebbe dovuto iniziare ponendo la minoranza in prima linea, nei canali turistici che contano e portano valore ed economia al territorio.
Ciò nonostante la catastrofe emersa in questi pochi mesi di apertura sociale, lascia a dir poco perplessi; la ragione ha la sua origine nel non aver predisposto un’istituzione centrale di controllo, in grado di delineare trascorsi e principi, redarguendo quando serve il libero arbitrio, specie se, sostenuto senza misura da istituti ed istituzioni, poco attente.
Emerge palese la non conoscenza della storia, il non distinguere centro antico, da centro storico, la toponomastica del passato remoto, quella del ventennio, oltre a quanto modificato dalle ideologie sessantottine che delineano una deriva senza precedenti.
In altre parole, caos sistemico, in cui a perdere, sono gli elementi tangibili e intangibili della minoranza arbëreshë, specie quella che si è insediata tra il sedicesimo e il quarantaduesimo parallelo Italiano.
Se a questo dato si persegue ancora, la la via secondo cui, eccellenze arbëreshë, sono esclusivamente, le figure cimentatesi a grammaticare con l’utilizzo dei numerosi alfabeti, un codice idiomatico antico, tramandato per secoli in forma orale, da la misura del valore culturale in atto.
D’altro canto ritenere e disdegnando figure arbëreshë, in campo culturale, della scienza esatta, della giurisprudenza, la sociologia, dell’ingegneria, dell’architettura, dell’urbanistica, la matematica e nel campo editoriale, si ha la percezione di quale quadro senza prospettiva si preferisce divulgare.
Se a questo aggiungiamo che ancora oggi la credenza popolar/culturale non conosce la storia e tutti attendono il messia che emerga dalle catacombe d’archivio, con il vello in trattato di capitoli, platea e onciari, la prospettiva che emerge è chiara, limpida e senza ombre di sorta.
Una minoranza che non ha consapevolezza del confronto o dell’unione delle discipline per la ricerca storica, non è in grado di tracciare un percorso univoco solidale e condiviso.
Tutto è svolto secondo il disciplinare che gli altri non hanno documenti, perché quando si recano negli archivi non sanno che quei complessi, qualche figura d’intelletto, prima di loro, li ha progettati per facilitarne l’uso e la consultazione di atti utili ma non indispensabili a delineare la storia di un identificato territorio.
A tal proposito e per spegnere gli entusiasmi di queste pericolose fiammelle, all’interno dei catasti, è il caso di precisare che l’atto di svolgere una ricerca storca, non termina con l’aver acquisito un generico documento, buono o inutile che sia.
Il processo di ricerca richiede la capacità di saper leggere e confrontare gli eventi della storia che altri detengono, poi di contestualizzarli con il territorio, le memorie locali, le modificazioni naturali e del costruito, che nello scorrere del tempo è passato dalla forma estrattiva in quella additiva per essere poi frazionata e in seguito migliorata nei secoli successivi.
Realizzare una ricerca storica che sia condivisa all’interno della “Regione Storica Diffusa Arbëreshë”non è un tema di facile attuazione.
Chi è riuscito nell’impresa, ha raggiunto l’intento, perché, coadiuvato da figure opportunamente formate, oltre a istituti universitari specifici, con una dose di sapienza che non ha mai eccede negli elementi distintivi.
Solo seguendo questa diplomatica è stato possibile creare l’ intreccio arboreo ideale, in grado di raffigurare gli oltre cento Katundë, suddivisi in ventuno rami di macro aree in grado di raffigurare e dare forma alla regione storica.
Comporre l’albero genealogico in cui le radici alimentano e sostengono, solo ed esclusivamente le sei caratteristiche fondamentali che distinguono gli Arbëreshë dagli altri popoli del mediterraneo, è il risultato a cui si è addivenuti e da cui partire per diffondere certezze.
Si è definito da dove inizia la storia degli arbëreshë, senza andare troppo indietro nel tempo e perdere il filo del tempo; quali siano stati gli elementi fondanti; cosa ha determinato la volontà di migrare, tra il 1469 e il 1502 , e tracciare con sacrificio le basi della odierna regione storica diffusa arbëreshë.
In oltre è stato definito, cosa ha permesso di sostenere le macro aree, diffuse nel meridione Italiano e senza collegamenti brevi e diretti sia stato possibile resistere e rispondere alle diverse epoche con la stessa misura identitaria; quali siano stati gli elementi tangibili e intangibili che sostenuti questa metrica identitaria e cosa fondamentale, perché nella valle del Crati nella alle falde della Sila sia nato il costume tipico, che racchiude tutta la credenza di fratellanza civile religiosa e profana della storica regione .
Solo grazie agli studi realizzati a seguito di un preciso progetto di indagine archivistica, sul territorio e di confronto con le memorie storiche, grazie alla conoscenza delle parlate tipiche e il saper interpretare usi e costumi si è potuto approdare alla definizione che gli Arbëreshë, rappresentano il modello d’integrazione tra i più longevi, il più riuscito solido e vivo del bacino del mediterraneo.
Considerando fatti avvenimenti e paure, che diffusamente si diffondono attraverso i media nell’epoca che viviamo, parlare della storia degli arbëreshë, servirebbe utile diffondere tranquillità a tutta la popolazione europea in ansia, per le costanti ed innumerevoli migrazioni, immaginate tutte come eversive.
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Posted on 29 luglio 2021 by admin
NAPOLI; Atanasio Architetto Pizzi Basile – La caparbia volontà di aprire un nuovo stato di fatto, per consolidare i trascorsi storici e culturali della regione arbëreshë, non trova favori nella scia spenta della cometa le cui ceneri ingrigiscono ogni cosa.
Continuare imperterriti a ritenere quale unica fonte, possa essere l’oasi che stagionalmente irriga metrica, consuetudini, costumi e religione, non fa presagire futuri longevi.
Non è concepibile immaginare che una scialuppa mal ridotta, poco capiente, di legno antico, possa adempiere a ruolo di cisterna per mantenere a galla, genio locale e i parallelismi di ambiente, è puro idealismo e quanti immaginano ciò, sono e restano in malafede o non hanno elementi culturali sufficienti per comprendere una diplomatica così complessa.
Nonostante siano stati innumerevoli i protocolli del passato e sino al secolo scorso, ad affiancare diverse discipline per la sostenibilità di questi modelli antichi, l’ arbëreshë, figlia delle prediche domenicali, resta materia per prescelti, in quanto, le linee di tutela sono immaginate “esclusivamente” nel numero dei parlati e a null’altro.
Si persegue, con ostinazione, la via degli archivi, biblioteche e depositi fascicolati comunalclericali, dove si conservano molte cose, delle quali poche utili, elevandole a regola indiscussa della storia di una non meglio identificata macro area.
Purtroppo, queste ostinazioni irreali, non vedono i solchi della storia incisi sul territorio, arte degli uomini, che vi hanno vissuto in comune accordo con la natura.
L’uomo è l’artefice, attinge la punta del suo aratro, nel calamaio dell’ambiente naturale, suggella così il patto “irripetibile”, spetta poi agli uomini che verranno sostenere con parsimonia misurato il patrimonio.
Quanti hanno immaginato di lasciare il Genio Locale, al libero arbitrio dei comunemente, fuori dalle aule per le discussioni di sostenibilità, non facevano progetti sostenibili per il futuro.
Quanti si sono resi protagonisti di questo vetusto stato di fatto, si assumano, oggi, la responsabilità storica della deriva prodotta e ancora in atto pericolosa.
Sono i colpevoli morali delle vicissitudini anomale che vivono gli elevati, le vie della storia, in nome delle esigenze moderne si preferisce coprire e cancella le forme della storia; in altre parole debilitare se non addirittura rimodellare il senso armonico dell’involucro protettivo la metrica arbëreshë.
Sino a pochi decenni addietro, emergevano con forza la vitalità di questi ambiti nel mentre si percorrevano le vie un tempo arbër; palesi erano le tante case con intonachi consumati, culle fondamentali per nuove generazioni, sulla scia di antiche consuetudini oggi non più tali.
Involucri costruiti in cui si parla, si piangeva e si gridava in antica inflessione; strati invernali di fumo, ricoperti calce, come i fogli di un calendario della vita, ormai ferma di scuro perenne.
Sono questi i segni attraverso i quali si percepisce l’insieme di case e di cose, unite idealmente da quel ponte di canto, patti di mutuo soccorso in valje di genere.
Solo pochi decenni addietro, quando camminando tra sheshi, rrhugat e hudat, i luoghi ameni di primavera, conferma di gjitonia sostenibile, si faceva spogliatura agreste, tessendo legami familiari, mentre felici bambini crescevano giocando in lingua materna; poco più in la, case silenziose, sedie vuote vivevano di memoria, mentre si preparavano semine di abbondanza per il futuro.
Oggi la memoria altrui si dipinge sui muri, quella locale cancellata e i luoghi che segnarono la storia, diventano una lavagna irriverente, per quanti offrirono la propria vita in giusta causa.
Ritenere che sia ininfluente il “genio locale degli arbëreshë”, quando tutto e facilmente rilevabile nei segni incontaminati sul territorio, da la misura di quanta cultura sia stata messa in campo.
Se nei secoli XV e XVII poco si sia attinto, per lo scontro e il confronto tra indigeni e minoritari, tollerato nel secolo XVIII, perché iniziava il processo di formazione, oggi non si può immaginare tutela, in forma monoclonale in dormienza, in epoca multimediale.
In base ai frammenti fisici e di memoria ancora vivi nelle macro aree che compongono la regione storica, non si concepisce perché si continua a porre nelle disponibilità di singoli o associati, la possibilità di tracciare percorsi inesistenti, nel mentre forme di cartografia statica, sono peculiarità in attesa per circoscrivere e tracciare percorsi di minoranza.
Di tutte le civiltà della storia, cui sono state attribuite attività di sviluppo, è del genio che le ha contraddistinte, lasciando tracce indelebili di epoca e luogo, quelle arbëreshë non sono ancora presenti in elenco.
Le minoranze storiche generalmente, emergono dal piano generale di una nazione, per le forme idiomatiche, tuttavia, questa singolarità identificativa non può e non deve essere come il modello risolutore, giacché, per disegnare una forma completa riferibile a un gruppo minoritario, vanno rilevati gli elementi fondanti e riverberanti l’espressione parlata.
A tal proposito valga di esempio cosa è successo quando si è dovuti operare per trasferire o meglio delocalizzare un paese minoritario del meridione.
Avendo per decenni i divulgatori ufficiali, tradotto erroneamente, il modello di mutuo soccorso o meglio, luogo pulsante dei cinque sensi: la “Gjitonia”, come “Vicinato” è avvenuto quanto qui di seguito s’informa e si racconta come monito per il futuro.
Oltre duecento famiglie hanno subito l’incubo, percorso il calvario ancora non terminato, pagando pegno, per colpa di quanto condussero ricerche identificative senza alcuna formazione specifica in seno alla minoranza.
La storia ricorderà per molto tempo a venire, in quanto, la mera forma orale erroneamente tradotta, anzi si dice sia stata estrapolata da ambienti indigeni e altre diaspore sociali, ha indotto i progettisti del nuovo sito in grave errore, segnando la vita dei malcapitati de locati, molti dei quali hanno preferito migrare, altri adire le vie legali e le figure più anziane passare a miglior vita.
Essendo questa vicenda largamente documentata con carte originali di prima mano, ancora non archiviate, si può affermare senza commettere errori di sorta, che la frase comunemente divulgata, più devastante e pericolosa in senso di smarrimento e soppressione dell’identità minoritaria, “sia stata”, dagli anni settanta del secolo scorso e sino a oggi senza ravvedimento o soluzione di continuità:
” La gjitonia, come il vicinato, il rione o il quartiere, disposta su uno slargo circolare”
Come un concetto così intimo e profondo sia stato lasciato alla libera interpretazione, non è dato a sapersi, eppure le avvisaglie disarmoniche erano palesi o facilmente deducibili, visto i sostantivi noti, per ogni genere capace di sfogliare un banalissimo dizionario.
La Gjitonia estrapolata dal consuetudinario linguistico doveva caratterizzare la minoranza non certo per banalizzarla, doveva risvegliare titoli di lettura, capitoli, specie in campo sociale urbanistico e architettonico, innescando processi di pensiero univoco sotto i quali riconoscersi.
Ciò nonostante si è fatta una confusione, a dir poco paradossale, tra: Gjitonia, Vicinato, Rione, Quartiere, Shesho, e Medina immaginandoli tutti come ingredienti da utilizzare secondo le salse che si ritenevano più gradite.
Se poi a queste volessimo aprire la penosa vicenda che associa gli agglomerati arbëreshë al modello urbano denominato Borgo, è segno che il fondo della botte e stata talmente raschiato da dover utilizzare lo storico caratello di buon sangue, come legna da ardere.
La malgama di riferimenti pur avendo un sostantivo definitivo e preciso, illustrata in maniera poco attenta, poi offerta e distribuita ricoprendola da veli di melassa, ha consentito ai liberi pensatori, di utilizzare la radice a proprio piacimento e le dinamiche storiche di Katundë, Medina e Gjitonia, furono un banale componimento numerico o semplice certificato di estratto catastale.
Il dato ha così, sintetizzato il senso storico del modello urbano e sociale più antico del mediterraneo, determinato dalla numerazione di particella storica di vicinanza, del catasto edilizio e dei terreni.
La leggerezza con cui si declinano le forme sociali della minoranza storica, più longeva del mediterraneo, devono da oggi in poi far riflettere, certamente vanno saggiamente, ponderate con ragione, da gruppi di lavoro multidisciplinare debitamente e preventivamente formati.
Non è più concepibile che singoli ricercatori, possano disporre della storia di tutti noi minoritari; l’atto della divulgazione deve essere condiviso, prima di esporre in pubblico, in conferenze divulgative o qualsiasi forma scritta, giacché, producono danno inestimabile alla consuetudine sociale se inesatte e quello che più fa danno lasciano un tempo peggiore di quello trovato.
Se a questo associamo il dato che parliamo di popolazioni, come gli arbëreshë, notoriamente privi di qualsiasi forma scritta, se non casi tumultuosi che allontanano e non rende solidale la regione storica, si deve avere un rispetto maniacale delle cose dette fatte per conto e per nome degli arbëreshë.
Questo è uno solo degli argomenti, liberamente interpretati e lasciati nelle trattative dell’arbitrio di tutela ancora privo di un indirizzo condiviso, cui dovrebbero dare seguito alle attività, che con risorse istituzionali dovrebbero valorizzare con determinazione, le cose e i trascorsi delle minoranze.
Si sarebbe da trattare il costume tipico, ritenuto emblema unico, quanto invece non va oltre le macro aree.
Si dovrebbe creare un archivio degli illustri che hanno portato la regione storica arbëreshë in auge a brillare e alcune volte in ombra a penare.
Si dovrebbe realizzare la scala delle priorità, dove distinguere, pionieri della regione storica arbëreshë quali protagonisti incontrastati, nel campo dell’editoria, della scienza esatta, della cultura e nella ricerca di soluzioni sociali, come quella poi non più intrapresa e ancora sospesa della questione meridionale.
Qui pero entriamo troppo nei dettagli della politica e della storia che conta, forse e meglio rimandare ad altra sede gli argomenti, per adesso cerchiamo di focalizzare, gjitonia, costume e calendario arbëreshë, quello che prevede: il tempo grande e il piccolo, definiti da Aristotele, l’Estate per confrontarsi e l’Inverno per isolarsi.
Questi e molti altri ancora sono gli argomenti che dovrebbero rientrare nei trattati da focalizzare per rispettare gli articoli 3, 6 e 9 della Costituzione, senza voler entrare nei meriti Europei, che renderebbero troppo complicato e arduo l’argomento di tema diffuso, ma sin quando si ritiene che questo sia materia mono cellula e non per gruppi di ricerca e definizione, tutto si risolve in una coltre di cenere, la stessa che dal secolo scorso, strato dopo strato appiattisce ogni cosa, come prevede il disciplinare imperterrito della globalizzazione.
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