NAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Il mio paese, piccolo centro della Calabria e ritengo che sia tra quelli che dovevano essere protetti da organizzazioni internazionali con finalità culturali.
Sin da piccolo ho sempre ritenuto che i vicoli e le gjitonie con toponomi così suggestivi e pregnanti non potevano essere stati distanti dagli avvenimenti della storia che conta.
Gli adulti e anche i colti del paese ritenevano che nel piccolo centro non si fossero svolte vicende importanti sotto il profilo, storico commettendo così un grave errore.
Manomissioni di diversa natura sono stati prodotti alla dignità del piccolo centro in seno generale ad incominciare alla conservazione dei luoghi, ritenuti privi di ogni valore e quindi convertiti senza tenere conto dell’antica veste.
Un centro abitato che sino agli inizi della prima guerra mondiale non aveva ancora una strada carrabile che si potesse ritenere tale, ma approssimate mulattiere che nel periodo invernale perdevano anche questa connotazione, ciò nonostante, a Santa Sofia, sono state concordate raffinate strategie essenziali per il buon esito dell’unità.
Uomini di elevato spessore morale e culturale, che in questo piccolo centro avevano avuto i natali, hanno partecipare attivamente alla storia d’Italia e sono gli stessi ambiti che nell’Agosto del 1806 furono le quinte dell’efferato omicidio alla cui regia i regnanti napoletani in esilio a Palermo tiravano le fila.
L’agglomerato urbano ancora oggi, conserva nei fragili e discontinui frammenti murari ancora quei ricordi come quelli di terremoti, evidenziati dagli interveti realizzati secondo le disposizioni dei tecnici dal governo centrale.
Sicuramente gli uomini di quei tempi avevano altra tempra e altri valori per riuscire a rispettare le regole nonostante non avessero mezzi e formazione atta alla conservazione di questi unici anfratti.
Tipologie edilizie che conservano tappe storiche e le conquiste sociali che sollevarono la Calabria dal buio della povertà diffusa.
Portali, rosoni, solai, finestre, balconi, loggiati, piazze, scale, selciati e servizi, sono gli elementi architettonici e urbanistici che segnano in maniera indelebile e senza dubbi ogni intervallo del passato.
Discutere di queste cose però non interessa a nessuno; si preferisce rimanere abbarbicati alla frase secondo cui i centri minoritari non hanno mai avuto alcun valore.
La verità invece è un’altra, purtroppo i contesti minoritari vegetano con la divulgazione di incertezze diffuse, per produrre un folclore labile e consentire l’ingresso nella ribalta etnica alla massa dei bisonti in pensione, senza che nessuno possa valutare il danno provocato.
Chi fa ricerca, e in tal senso intendo dire chi è in grado di produrre elementi storici , sociali, antropologici, architettonici, sino ad oggi ignorati perché non alla portata di tutti, va frenato con ogni mezzo, persino gli organi pubblici alle certezze preferiscono incentivare la produzione editoriale di inutili addenti, questo stato di cose ormai ha superato abbondantemente la linea della decenza e del ridicolo.
L’estate è appena trascorsa colma da eventi aggiunti come spezie nel calderone della ribollita: Sagre di prodotti tipici che poi così tipici non sono, racconti di favole francofone che dovrebbero avvicinare le nuove generazioni alla lingua parlata arbëreshë (?), rievocazioni di vita odierna (?), canti e balli come nelle cene delle osterie romane a base di porchetta(?) e tutta una serie di manifestazioni che hanno un solo fine, strafogare un panino e tracannarsi un bicchiere di vino.
Pretendere che queste ricorrenze siano il veicolo utile per tramandare correttamente l’eredità storica, presuppone che a coordinare gli eventi vi siano persone con adeguate conoscenze delle caratteristiche minoritarie, ma purtroppo non è cosi, giacché, la politica ha i suoi adepti che della minoranza non sono neanche parlanti.
Per individuare una risorsa positiva bisogna tornare indietro nel tempo sino alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, quando tre sapienti personaggi Sofioti seppero dare idonea lettura al discorso sugli albanesi e prendere spunto utile a realizzare la manifestazione che è divenuta riferimento di tutta l’arberia interpretata poi come avviene in queste cose in molteplici variati.
Oggi alla valorizzazione dei luoghi e degli eventi si preferisce la via dei midia, sperando di attecchire decontaminando politicamente i territori o svendendo questi contesti sotto mercato e senza alcuno strumento che ne tuteli il loro valore storico.
Eppure questi contesti appartengono agli stessi sistemi orografici Albanesi in cui gli esuli hanno trovato la pianta in cui innestarsi e produrre lo splendido frutto arbëreshë.
La ricostruzione di un inutile museo, una biblioteca dedicata a un magistrato, una sartoria in un luogo ameno, anonimi palazzi colorati con assurde pigmentazioni, strade simili una dall’altra, eremi stravolti, stradine veicolate, fontane soppresse, toponimi cancellati, lapidi disperse, monumenti alloctoni e una miriade di errori perpetrati nel tempo e senza alcun ripensamento caratterizza un luogo che ormai non riconosce più nessuno.
Solamente il rito che ha sempre scandito le stagioni nei modelli architettonici e nei sistemi sub urbani arbëreshë, proposti in chiave moderna potrebbero essere l’opportunità per inserirsi in circuiti economico turistici rispondendo chiaramente con una veste più dignitosa e più rappresentativa di questi luoghi.
Purtroppo, le capacita imprenditoriali e organizzative in senso generale sono molto labili e limitano ogni piccolo sforzo a organizzazione e ricollocare persino la festa padronale.