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LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Kushëtë thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

Posted on 11 ottobre 2024 by admin

00020NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Ricordo di non aver voluto seguire gli studi nel complesso di San Demetrio, preferendo San Domenico di Acri e poi come riferirò più innanzi mi sono dovuto ricredere.

Ho comunque iniziato a frequentare gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza, egualmente tutelati come pervenuti.

Sono contattato ripetutamente da figure locali che mirano a ricevere conforto culturale dalla mia professionalità, per poi riferire cose inedite e, le stesse poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto, la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 ad applicarmi e trovare agio per un nuovo stato di fatto, indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo di appartenenza e rispetto.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a diffondere i processi o percorsi storici di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre, come si faceva un tempo nelle scuole medie, anche se all’epoca il rimando realizzava la promozione, quelli di oggi promuovono negazione e nulla più.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento, distribuendo attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune e senza alcuna notorietà per editi o fatti di memoria e cultura.

È stato proposto di formare giovani figure di genere locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari di memoria e operosità.

Tuttavia si è preferito dare agio a liberi interpreti, di episodi e storie mai avvenute, che stimolano la curiosità di turisti nel centro o luogo di movimento, ovvero Katundì, secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcuna fondatezza storica, se non il comune campanilismo locale che tritura e rende polvere al vento ogni cosa.

A tal proposito va sottolineato il protocollo, secondo il quale sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi che non hanno in alcun modo avuto luogo nel corso della storia dell’architettura, la stessa che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, Borghi con Katundë; Gjitonie con Vicinato; Sheshi con Piazzette, e mattoni in laterizio, con di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, quando per necessità è stata il frequentare assiduamente le botteghe storiche dei maestri partenopei, in stretta collaborazione con dipartimenti e istituzioni, senza eguali, per addivenire al protocollo che ti rende unico e completo professionista, e non è per caso, coronato nella chiesa di San Demetrio nella zona dei Banchi nuovi, proprio un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire, dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia, oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali/estetici degli edifici storici.

Tutto questo ha reso possibile realizzare, ancor prima del titolo di laurea, di poter essere consulente e collaboratore primo, per il recupero di archivi, biblioteche, cattedrali giardini storici o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di Stabia, il suo Parco e le fontane storiche, la Casa Rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline acquisite e, che consentono di dialogare o trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico, inquadrando le sue genti come giullari che non sanno leggere editi, alfabetari o vocabolari disposti a Capo Sotto.

Il mio Grido di allerta è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, per questo riecheggia nei corridoi, con la speranza di ottenere il comporre gruppi di “giovani guide locali” che con il garbo tipico dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti o turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati e protagonisti a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione, del genio locale e, di Iunctura familiare Kanuniana, sostenuta dalla dieta mediterranea, il tutto per poter vivere o avvertire il luogo dei cinque sensi che solo qui ancora vive.

In altre parole, riproporre il seme antico dell’ospitalità, che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un mondo, una sensazione, un privilegio che ti conduce a vivere fraternamente, senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che sono solo la Regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

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L’ACQUA CHE SCORREVA NEI CENTRI STORICI HA SUGGERITO DOVE FARE SHËPI, RRUHA E GJITONI  (chi studia tutela confronta conosce e valorizza cosa tramandare)

L’ACQUA CHE SCORREVA NEI CENTRI STORICI HA SUGGERITO DOVE FARE SHËPI, RRUHA E GJITONI (chi studia tutela confronta conosce e valorizza cosa tramandare)

Posted on 26 maggio 2024 by admin

Sila GrecaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Terra di Bisignano (oggi, Santa Sofia d’Epiro) in origine fu un casale di frontiera, occhieggiante alle vele che approdavano nei naturali abbracci calabresi, della sibaritide.

Il casale nasce nell’entroterra, che fu mira, come tutta la corona di colline che perimetra la valle del Crati, dalla soldataglia longobarda, scossa dai passi cadenzati delle milizie bizantine, punteggiata dagli agrari delle grange francofone, mira dei desideri normanni.

Tutti pronti a disporre del laborioso cuneo produttivo, che da Bisignano conduce sino al promontorio denominato, Sana Vote di Castello.

Un ter­ritorio fertilissimo, circoscritto dai laboriosi torrenti del Duca e del Galatrella, che con le proprie gemme d’acque sostenevano cunei agrari, da cui fiorivano alimenti genuini dalla croce di bosco verso valle e, poi dai porti dello Jonio, lungo il Mediterraneo davano agio alimentare in ogni dove.

Confermato sono le vicende dalla storia che dal VII secolo, poneva il territorio dell’odierna Italia, termine e non più continuo, di pertinenza geo­politica romana, dove, il confine a sud era segnato lungo il corso dei fiumi Crati e Savuto, che dalle coste del Tirre­no di Amantea conducevano sino a quelle Joniche dalla Sibaritide.

Per la difesa di questi lime, nato, dopo la dismissione della diocesi di Turio, trovò dimora una famiglia indigena: i Berlingieri, che per la via e le convenienze Vernacolari offerte dall’acqua, edificarono l’originario nucleo denominato Karkarellët.   

Il tutto nella connessione delle acque limpide e genuine di Morrjitj e le ferrose che scorrevano nel Vallone del Duca, un affluente del Galatrella

In questa storica connessione di Acque buone trovarono dimora, numerosi distaccamenti di soldati Longobardi nel versante nord, a sud si contrapponevano i Bizantini, li lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.

I soldati preposti al controllo, in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento storico ispezionando i greti degli affluenti storici del Crati verso la collina.

L’acqua è noto che scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, l’umo che osservano dalle prospettive ancora vuote, prende spunto dai quelle vie scalfite dallo scorrere dell’acqua, e costruisce seguendo il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare memoria dei Katundë Arbëreşë, i luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva e riverberano senza pausa il tempo che fa scorrere l’acqua: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Shëşë, Cangellë, Sentjnë, Morrj hìutë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Quindi a Ovest, nella connessione dei due torrenti Nasce il primo nucleo ai tempi della nascente diocesi di Bisignano e, a ovest nel tempo dei longobardi fermati dai Bizantini, è sempre la salubrità delle acque e il loro operato a dare un nuovo spunto abitativo.

Valga, il Lavinaio, refluo torrentizio, che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, del casale Terra di Sofia, dove lo scorrere naturale lascia sabbia candida, dando così avvio all’assemblare dell’edificato originario primo di piazze vichi, case e la chiesa.

Nascono così numerosi Katundë arbëreşë, in tutto, il risultato di eventi che uniscono uomo, ambiente naturale; ovvero, acqua che si ferma e segna ogni cosa per il tempo che scorre.

Tutto questo a iniziare dal XIV secolo secondo i patti dell’Ordine del Drago che vide giungere nelle rive dello jonio i laboriosi Arbëreşë, con la sola aspettativa di poter vivere queste terre parallele simili o equipollenti alla loro terra natia.

Dove lo scorrere dell’acqua da senso e scandisce il tempo che non ha mai soste e, tutto si trasforma in risorsa, come la sabbia e le sue infinite grammature, in tutto suggerimenti, dalla natura e del tempo per l’uomo.

Prova di questo è l’edificato del XI secolo di radice cistercense, ripreso dagli albanofoni a seguito della peste del 1638, viene eretto quale chiesa padronale, modificati il corso di questa risorsa naturale, in favore di una credenza Alessandrina leggendaria che in altro capitolo sveleremo.

Poi le strategie locali indirizzarono l’acqua, che qui si fermava a depositare sabbia, a dispetto del tempo e, venne fata scorrere, verso altri rioni, che videro innalzate le case dai Baffa, Becci, Rizzuti e sin anche il nuovo monte del grano ad opera in risorsa dei Masci.

Per chiarezza di intenti, qui si useranno toponimi e identificativi, del Katundë di Terra di Sofia, della diocesi di Bisognato, ma per tutti gli altri centri abitati di simile periodo, cambiando i toponimi o l’identificativo famigliare, mentre la trama unifica per tutte il protocollo di sviluppo di centro antico che si va formando in origine, secondo le epoche, in tutto il tempo.

È grazie allo scorrere dell’operosa e instancabile acqua, era rifiniva la sabbia, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare, si depositava finemente in diverse grammature, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere a mare. 

In tutto, acque che scendono da monte, segnando i lavinai, poi divenuti progressivamente cunei stradali, vichi e in alcuni casi ripide scalinate, determinando per questo, il progetto del centro antico, come oggi appare, eseguito dagli uomini nello scorrere del tempo.

Sicuramente il costruito è da attribuire all’opera dell’uomo, ma la traccia dei percorsi, cunei espressione dell’erosione dell’acqua, conducono nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze, suggeriti dall’acqua esposta al sole e alla luna senza sosta.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace o tiene velate cose; l’acqua rimane in vigile attesa per avere forza per incunearsi, scorreva o cadere per segnare luoghi e storia.

L’acqua basta lasciarla libera ed essa prima o poi trova una via per scorrere, e comporre, quei percorsi avvolte comodi, che l’uomo pratica e vive, perché espressione di trame naturali, che l’ambiente concede e, l’acqua mai le abbandona.

Il centro antico qui preso in esame, ma potrebbe esse uno degli infiniti di radice collinare si sviluppa a ridosso di tre percorsi storici, perché per natura erosiva l’acqua trascina sabbia, sminuendo la pietra e quindi i detriti per diversi secoli macinati, tutti poi giungevano nel parerò naturale dove le acque prima di precipitare nel torrente Galatrella e poi Cangellë, lasciavano in questo naturale “cuneo campanaro”, la candida sabbia color oro, per edificare;

  • Il Primo come già accennato è il più naturale e segue la odierna via detta Şigjona, germogliando nella corona, che cinge il paese in tempo denominata Kiubicë (verso la via di cresta), per poi insinuarsi nel paese dove furono erette, le stalle e il palazzo Bugliari di sopra, sempre più vorticosamente affianca le case dei che furono prima dei Baffa e in epoca francese dei Toscano, scalfisce il posto di osservazione ricordato come degli eroi da Bregù, e dopo un breve pendio si distende nella odierna Piazza Sant’Attanasio, per continuare: un tempo per via Şigàtà, da dove si riversava nel più a valle torrente del Galatrella, poi a fine del XVII secolo, con l’edificazione della chiesa del Santo Patrono, dedicata a Sant’Atanasio, venne deviato verso palazzo Tallarico e, passato il lato corto di questo edificato, precipitava nel cuneo dove depositava la sabbia e,  si univano poi al corso delle acque del torrente Cancellj più a valle.
  • Il Secondo Lavinaio è una conseguente biforcazione del primo, nasce dal continuo di Palazzo Bugliari di sopra, l’esenzione prospettica dell’ingresso che guarda a nord, qui raccoglieva i reflui piovani del continuo su citato e, della strada che piegava per Bisignano, affiancato residenza dei Bugliari di sotto, si riversava nel tratto di via Epiro, per piegare su via F. Bugliari e giunta su Piazzale dei Vescovi seguiva la via di fianco al Palazzo dei Fasanella, un tempo il monte del grano, per unirsi al primo e quindi nel pareo della sabbia.
  • Il Terzo è il più interessante, in quanto da origine allo storico toponimo di Trapesa, generato dalle acque reflue e piovane delle residenze a sud ovest, o meglio a monte dell’odierno palazzo Bugliari, oggi sede del Museo e del Comune, si dipartiva per essere il Vutto del palazzo Bugliari e del palazzo degli Elmo, (il palazzotto ad impronta di masseria barcellonese); il braccio che segnava lo spazio di reflui, oggi Trapesa, tagliava la proprietà dei Bugliari per passare davanti la casa di questi in forma più limpida e controllato refluo, anche se il toponimo dà la misura dell’inesistenza purificata del lavinaio, mentre l’altro braccio serviva da refluo naturale di questo e di palazzo Elmo e dei Calvano, per poi riversarsi nello Sheshi Ka Arvomi verso il torrente Cancellj.

Il refluo di meditazione delle Acque, ovvero dove si fermava e non seguiva il tempo, prende il toponimo storico di Trapesa, Vutto della mensa Arcivescovile o, misura di cose preziose, in senso di piccole dosi, o meglio scarti alimentari della mensa arcivescovile lì, in affaccio e, certamente posta più a monte della connessione di reflui corporali che segnavano la discesa verso il torrente più a valle.

Sono questi gli elementi primari che hanno tracciato i percorsi che conservano la memoria, dei Berlingieri Bisignanesi, i Soldati Bizantini, della Grangia Cistercense e degli Albanofoni prima e degli Arbëreşë per chiudere definitivamente questo “recinto antico” che lasciava tutti liberi e, nel contempo difendeva i suoi abitanti indigeni e della diaspora, da ogni ingerenza, maturale o di genere in aguato.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico, sempre fedele e presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Altro elemento fondamentale erano i Butti o Vutti secondo le epoche di rotacismo linguistico; cavità naturali o artificiali attigue alle abitazioni sino al Rinascimento e, servivano per lo sversamento di rifiuti e deiezioni, umane.

Per evitare la diffusione dell’orribile puzzo che si alzava da esso, si copriva il butto oli si realizzava nelle zone ventilate al fine di deviare i miasmi, evitando altresì anche che divenissero fucine di gravi infezioni si versava all’interno cenere.

Essi servivano anche come latrine per lo sversamento delle acque nere.

Erano collegate agli orti o direttamente nelle strade, dove vi erano lasciati liberi maiali che fungevano da spazzini.

Nei butti o vutti si deponeva di tutto ivi comprese le suppellettili di casa ed i corredi da cucina e vasellame pregiato nei periodi di pestilenza.

Questi a non avevano regole precise nei piccoli centri ma tutti si stabiliva che tutti dovevano essere attigui, le officine o le periferie del centro.

Per le minime lavorazioni sporche quali il risciacquo degli animali macellati e il lavaggio dei prodotti grezzi dell’artigianato tessile, furono costruite i “guaççatorium” che rappresentavano la parte più bassa delle fontane pubbliche, istituendo la carica di maestro pubblico addetto alla risoluzione del problema dello smaltimento degli scarti

E se la toponomastica non è un’opinione, catastale o bibliotecaria, la memoria va al toponimo: Ka Sanë, che ambiva a indicare un Luogo sanificato o santificato dalla Natura e per incanto ascensionale.

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IL CONTRAPPASSO DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA NEGLI SHESHI (Thanasi Shurben Wet)

IL CONTRAPPASSO DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA NEGLI SHESHI (Thanasi Shurben Wet)

Posted on 14 maggio 2024 by admin

photo_2024-03-13_22-26-32 ioNAPOLI (di Atanasio Pizzi architetto Basile) – “Ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria”, così Newton spiega nella sua terza legge della dinamica in fisica.

Se prendiamo in considerazione solamente il significato della frase possiamo notare come possa adattarsi bene alla vita quotidiana, secondo cui ad ogni scelta corrisponde una conseguenza, che degenera le cose, invece di elevarle e chi cerca di tutela viene inteso come diverso malfattore.

Questo potrebbe essere applicato anche verso chi invece di seguire lo stereotipo di Arberia, come modello di lingua altra, preferisce consolidare le attività di ricerca con diplomatiche, in grado di spolverare, al fine di svelare e sostenere il senso della “Regione storica diffusa degli Arbëreşë”.

Un insieme solido aperto, dove tutto scivola, senza coprire o velare le cose, fatte di territorio parallelo dove incuneare solchi di semina di origine, come consuetudini, credenze, costumi, orecchi e cuori.

E per puntarli al meglio, utilizzano il principio dantesco del contrappasso, sicuri di non ricevere pena quando indirizzano angherie gratuite e, ripetute per nome e per conto di quanti rispettano le attività secondo sequenze storiche.

Per rendere più semplice, il comprendere questa deriva culturale perpetrata e continua senza vergogna, è utile analizzare l’etimologia della parola di radice “passo” dal greco “pasco” ovvero “soffrire”, in tutto, l’azione che si riflettono su quanti cercano di fare chiarezza o pulizia della storia.

Il contrappasso, rappresenta la rigorosa correlazione tra pena e colpa; una punizione inflitta al colpevole che sia uguale o simile alla vergogna inflitta con incosciente leggerezze storica, a partire dal 1975 del secolo scorso e forse anche prima, ma qui non è il caso per dilungarsi, ma fermarsi alle pene diffuse indirizzate alla minoranza Arbëreşë.

Esiste un vizio che è nascosto in ogni persona di spessore, si chiama superbia e nasce, dal comportamento morale dei comunemente, specie quando si aprono gli scenari culturali del contrappasso; generando  così lo spontaneo  pensare a Dante e, alla Divina Commedia.

Tuttavia si trova anche in altre attività culturali, come per esempio gli scritti o, le migliaia di pagine che seguono un percorso storico e culturale unico, indissolubile e senza eresie, diversamente dalle interpretazioni,  “Sciollanesche” , in preghiere diffuse non dal corso del Galatrella ma, dal pulpito Sordo del Settimo figlio illegittimo di madre degenere.

Questa figura che nasce nelle vicinanze del Galatrella dello sheshi racconta, il viaggio all’interno della regione storica diffusa degli arbëreşë, che non è solo mera lingua altra sostenuta da madre degenere; la stessa che fece scappare i figli per conservare memoria fatto di e cuore che ascolta e ripete alle nuove generazioni le cose di radice.

Volendo Paragonare il mondo culturale degli arbereshe ai gironi danteschi si possono riassumere in questo modo;

  • Si parte dall’ Antinferno, situato sotto la crosta terrestre, troviamo gli ignavi che parlano di Gjitonia, Valljie, Sheshi, borghi e case a modo ribelle della terra madre, in favore di credenza, o condanna di fare balli tondi, sotto una bandiera, tenendo fazzoletti in mano per scacciare volatili con la testa di vespera o zanzare.
  • Il cammino continua nel primo cerchio, dove vi sono i non battezzati, alla ricerca infinita dell’antico loco di sepoltura, oggi diventato aulive da frantoio, nel mentre gli intellettuali cercano risposte in archivi e biblioteche, immaginando siano loco di frantoio.
  • Nel secondo cerchio incontriamo le anime, che si torcono per fare la coda o la ruota con la zògha, abitudine irrispettosa del marito, per fare indecenti gesti verso il vicinato indigeno, Qui troviamo i lussuriosi condannati, ad essere trasportati e percossi da una bufera infernale, poiché non capaci di comprendere la sacralità del costume, inteso solo come vestizione carnale con segni bernacolari di copulazioni da pubblicizzare.
  • Nel terzo cerchio sono situati i golosi i quali giacciono stesi a terra, esposti a pioggia, grandine e neve, nel vutto di pertinenza, reso maleodorante dall’Alessandrino, abbandonato più volte, su un tavolo in mezzo alla comune via e, preferendolo ai piaceri di gola e al fumo dell’alcol inebriate, per questo costretti godere di odore sgradevole e note strumentali ormai stonate.
  • Al quarto cerchio sono gli avari e i prodighi; come in vita si affaticarono per arricchirsi e mantenersi facendo opera malevola, per questo divisi in due schiere opposte e costretti, a trasportare pesanti secchi di colori impropri, scontrandosi, per poi azzuffarsi e rinfacciarsi le opere che nessuno dei locali aveva chiesto.
  • Il quinto cerchio comprende gli accidiosi e gli iracondi; i primi sono costretti a rimanere lungo l’articolarsi dei lavinai per l’eternità, poiché in vita covarono rabbia senza cogliere la bellezza della vita, quindi ora non potranno più godere nemmeno dell’aria che respiravano e, cosi anche per gli iracondi abituati che si rotolano nel fango dell’infamia di cose inventate e che non trovano pace: questi entrambi sono condannati ad azzuffarsi gli uni con gli altri, percuotendosi e mordendosi, reciprocamente, braccia gambe e ventre.
  • Gli eretici li troviamo nel sesto cerchio e sono quanti vissero una vita seguendo falsità, così nell’aldilà giacciono in sepolcri infuocati che emanano calore in proporzione alla gravità del peccato compiuto, in tutto stanno in attesa di riunirsi con il proprio corpo che non lo hanno mai considerato proprio, cosi cole la terra e i lochi di pertinenza che hanno preferito far degenerare.
  • Arrivati al settimo circolo verso il basso, incontriamo i violenti, questi devoti alle tre girunë: i Violenti contro il prossimo: gli assassini e, i tiranni o predoni. Sono immersi nel lavinaio a croce dell’Ascensione, il fiume di fredde previsioni e sono colpiti gli schizzi malevoli più di quanto sia stabilito dalla pena da loro prevista. Come in vita si macchiarono di sangue altrui, ora ne sono immersi e subiscono la violenza e la forza bestiale del mare in tempesta come fanno i naviganti, questi ultimi sono violenti sin anche con se stessi e i propri familiari, in genere scialacquatori. I suicidi, che disprezzarono il loro corpo, sono trasformati in un altro corpo di natura inferiore (in alberi) e poiché straziarono se stessi sono straziati dalle arpie. Invece gli scialacquatori, i quali dilapidarono le loro sostanze, sono dilaniati da cagne fameliche.
  • L’ottavo cerchio, ha una struttura articolata, composta da 9 sheshi, divisi da muretti, rrhughë, porticati e porte gemellate: qui molti ignari della storia commisero in vita peccati culturali vergognosi, così ora vengono rincorsi frustati dai chi ne subì le angherie, infangandoli moralmente, così ora vengono immersi nel sterco animale, per ricordare loro, che quando si arricchirono di notorietà nel periodo del loro mandato, adesso pagano conficcati a testa in giù con i piedi fuori esposti alle fiamme ad ardere;

Indovini: come in vita leggevano e parlavano di futuro, perché praticanti di archivio o di atti notarili del passato, ora vivono con la testa voltata all’indietro e costretti a camminare a ritroso;

Barattieri: in vita usarono mezzi viscidi e oscuri, così ora giacciono nella pece nera punti da topi affamati, perché sempre vissuti nelle tane di solitudine culturale;

Ipocriti: poiché in vita nascosero i loro torbidi pensieri sotto una piacevole falsa apparenza carpita ad altri studiosi, ora sono sovrastati da capre e caproni con corna falsamente dorate e immaginano sia un dono divino;

Ladri: durante la loro vita terrena usarono l’astuzia per fini malevoli, così ora sono tormentati dai serpenti che li mordono e si cibano delle loro orecchie per non più sentire le cose rubate al saggio;

Consiglieri fraudolenti: con i loro consigli provocarono guai, incendi ed eresie, così nell’aldilà sono avvolti in una fiamma appuntita a forma di lingua biforcuta che buca entrambe le guance e le orecchie;

Seminatori di discordie: poiché in vita crearono dissidi, così ora vengono straziati e mutilati con la spada per l’eternità, con ferite che si rimarginano prima di essere inflitte nuovamente;

Falsari: stravolsero in vario modo la realtà, per questo motivo vengono sfigurati da malattie varie a seconda del peccato commesso.

  • Arriviamo al nono e ultimo cerchio, quello riservato ai traditori, suddiviso in quattro rioni storici, qui le pene sono state stabilite in base alla freddezza avuta in vita nel tradire lo sheshi di appartenenza, per questo motivo sono immersi nell’aceto più antico; il primo rione si trovano i traditori dei parenti immersi fino al viso e capovolti verso il basso; nel secondo sono i traditori della patria, i quali si trovano immersi nell’aceto fino alla testa, ma con il viso rivolto verso l’alto; il terzo è dove si trovano i traditori degli ospiti, seduti supini col volto rivolto in alto nel fiume di aceto, cosicché si acidificano tutte le lacrime nelle orbite oculari; il quarto è dei traditori dei benefattori, qui i dannati sono completamente affondati nell’aceto  riversato in varie posizioni.

Possiamo notare come chi descrive l’inferno della cultura Arbëreşë abbia una percezione ben chiara di ogni peccato e della specifica corrispondenza con giusta punizione, infatti tutto è descritto in modo crudo o dettagliato dirsi voglia, per invitare i lettori, a non commettere gli stessi errori.

Qui termina il cammino ultraterreno nello sheshi e, per comprendere come è fatto il mondo arbëreşë, non bisogna fare altro che ascoltare senza mai interrompere il vecchio saggio, solo così potrete seguire l‘esempio ereditato, solo quando finirà di parlate, utilizzando esclusivamente l’antico strumento di comprensorio orale per recepire.

Commenti disabilitati su IL CONTRAPPASSO DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA NEGLI SHESHI (Thanasi Shurben Wet)

RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

Posted on 02 aprile 2024 by admin

Senza titolo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tutti i popoli hanno un percorso evolutivo unico, sostenuto da uomini, fatti, cose e luoghi; nasce a seguito di questo principio, circa sessanta anni orsono, la mia passione per comprendere e capire la storia degli Arbëreşë.

Chiaramente non come quella interpretata da prelati, guerrieri, artigiani, contadini, naviganti, i quali, per le succulente storie locali poste in essere, non trovarono alcun giovamento, per il continuo atto di riversare cose e fare storia.

Alla luce di questi minimali principi posti in essere e, non avendo giusta consapevolezza della mancanza di contenuti nel definire la leg.482/99, che doveva risolvere ogni cosa, avendo come principio la Gjitonia come il Vicinato dove si prestano cose, lo stato in cui si trovano i paesi su citati non lascia liberi certamente orizzonti di tutela mirata.

Ha avuto inizio, per queste e altre cose che qui si preferisce non citare, il pellegrinaggio attraversò i cento e nove Katundë, più la capitale Napoli Greco Bizantina e di Iunctura Alessandrina, con il raccogliere, verificare, incrociare e confrontare in loco, documenti, materiali, consuetudini, genio e credenze Arbëreşë.

Una ricerca nuova che al solo pensiero che possa essere resa pubblica fa tremare quanti da secoli ripetono e diffondono comuni cose senza ragione e senza avvertire, quanto e come offendere chi si è prodigato riversando studi e principi di altre eccellenze.

 La memoria popolare per questo, pone in essere e ripropone eventi o appuntamenti annuali, seguendo lo scorrere del tempo, dando forza alle memorie locali con riti, processioni ed eventi, che dal giorno del termine a febbraio e, senza soluzione di continuità accompagnano e mantengono vive le consuetudini della propria identità locale.

Tuttavia queste fanno come l’acqua, non seguono il tempo che scorre imperterrito e non si ferma mai, ma cambia destinazione e va per vie diverse al mare, che accoglie sempre ogni cosa che li si reca.

I riti di cui qui si vogliono trattare o discutere per comprenderli e valorizzarli meglio sono quelli che interessano la Regione Etnica Diffusa Accolta e Sostenuta Kanuniana dagli Arbëreşë.

E’ ormai da ben oltre cinque decenni che i riti e le rievocazioni, religiose e di credenza popolare anno perso ogni radice storica e per questo presentate più come momento folcloristico per il turista distratto e poco interessato all’evento e, non accumunano e riportano le genti residenti locali a una rievocazione che dia senso e agio alla propria identità che di anno in anno degenera e diventa sempre più flebile.

Gli appuntamenti di memoria culturale sono molteplici ad iniziare dal Matrimonio, le feste di credenza, il giorno dei morti, le feste patronali, il giorno dell’insediamento, l’inizio della stagione lunga (l’Estate), la fine di questa e l’inizio della stagione corta (l’Inverno) e cosi a ripetere.

Momenti di condivisione che rispettavano, rigidi protocolli dentro il perimetro di credenza e nelle sue prossimità, per poi via via essere espressione laica, ma sempre rimanendo entro un protocollo permissivo che non deve essere mai degenere o miscredente.

Tuttavia e purtroppo, il senso degenere in specie quello pubblico, da diversi decenni va per tangenti e diventa sempre più allegoria o meglio spettacolo da stadio.

Seminando così fatuo e ilarità a dir poco indecenti, e si immaginano sempre di più, a cose che non hanno nulla da spartire o vedere con la storia locale di quel preciso evento, quando si va fuori dal perimetro religioso.

Le libere interpretazioni civili, negli ultimi decenni, sono alimentate sempre meno di protocolli locali e lasciati al libero arbitrio di gesti e cose inconsulte e senza attinenza, da un vero e proprio vortice di copia inconsulto, sempre più scellerato, per fini privati o per emergere protagonisti, con l’arroganza che sia giusto riportare all’interno di un percorso intimo locale, le cose che attraggono il viandante organizzato.

Gli avvenimenti e le cose riportate, anche se hanno luogo in diverse macroaree e per altri avvenimenti, si applicano nell’inconsapevolezza, che sono altra cosa o rappresentazione, senza avere accortezza che non centrano nulla di locale cosi come riportato, perché copiato in altro luogo.

Ormai le cose sono poste, tutte in essere, non avendo come lume l’originario senso di quella ben identificata ricorrenza, ma secondo un principio moderno locale segue “discorsi nuovi” finalizzato a stravolgere la tradizione.

Tutto questo secondo una diplomatica che accomuna viandanti distratti a esecutori incoscienti locali, i quali si spera partecipi senza cuore o ragione, fanno tutto per la goffaggine esponendosi ignori del componimento e, fanno lacrimare sangue al cuore di chi conosce quell’evento locale.

È chiaro che richiamarli o redarguirli dalla platea, è un atto vano, giacché, viene inteso come consenso, acclamazione o lagna di un protagonista mancato, assumendo per questo gli attori del palco, la funzione sin anche di cattedratici o istitutori di un nulla che per loro si basa sul teorema che nessuno sa e, quindi posso essere o fare senza vergogna sempre cose più degeneri.

Cosa riassume questo stato di cose oggi stese alla luce del solo fu il cantautore Francesco Guccini, un anno prima che io iniziassi, ovvero nel 1976 a prevedere tutto quello che sarebbe accaduto e qui riporto il testo a mia misura;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni;

Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni (Nuova Storia);

Va beh, lo ammetto e mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia

Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato;

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante;

Mia madre non aveva poi sbagliato a dir: “Un laureato conta più d’un cantante”;

Giovane e ingenuo ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo;

E un cazzo in culo e accuse d’arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta;

Voi critici, o voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa;

Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;

Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi;

Vendere o no non passa fra i miei rischi, non avrete mai i miei “dischi” e sputatemi addosso;

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a “cantare”;

Godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare;

Se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie;

Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo;

Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, “io architetto” io fascista;

Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista;

Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino;

Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare;

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?

Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento;

Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no di un qualche metro;

Compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco;

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni;

Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni;

Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete;

Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso;

Mi piace far “canzoni” e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso;

E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare;

Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto;

Questa santa previsione, ebbi modo di ascoltarla e comprenderla subito perché il Nipote di Celestino “detto Gelèu” e dicevano a quel tempo, che avessi pure la tessa voce, e qui aggiungo solamente: Grazie Guccini, di aver previsto tutto questo; io il tuo disco lo comprai, lo diffusi, grazie il primo stereo che portai in paese nel 1976, in quella Trapeso, dove si diceva andassero i poveri di ogni cosa, a raccogliere gli scarti della mensa Arcivescovile e, nonostante ciò a nulla è servita la tua “avvelenata e il mio impegno profuso”.

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UOMINI ILLUSTRI E SCIENZA ESATTA CHE SBOCCIA NEL CUORE DELLA NAPOLI ARBËR (Ciova gnë vëla me zëmer ndë Napulë)

UOMINI ILLUSTRI E SCIENZA ESATTA CHE SBOCCIA NEL CUORE DELLA NAPOLI ARBËR (Ciova gnë vëla me zëmer ndë Napulë)

Posted on 07 ottobre 2023 by admin

photo_2023-10-07_12-29-49NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Dagli inizi del XIX secolo e ancora oggi, corre senza regole la teoria, secondo la quale, eccellenza della regione storica diffusa degli Arbër, sono solo quanti si esaltarono a far l’arte dello scriba a imitare, Dante, Beatrice o Boccaccio.

Ragion per la quale, il tesoro culturale, fatto di genio, costumi, credenza civile e religiosa, o partecipare attivamente a processi sociali, economici e del vivere civile, valgono meno di chi si è ostinato a voler diffondere un codice poetico superiore alla, metrica canora, immaginando che il vivere progressivamente e civilmente per tutti sia legato allo scrivere lettere, inviare cartoline o fare telegrammi per fare editoria.

Quando nel 2005 rendevo merito a Baffi, Giura, Scura, Torelli, Bugliaro, Bugliari, Crispi, riferendo che la storia degli Arbër non era degli scribi, ma delle menti che con le attività sociali, genio e onori, ottenuti valorizzando cose, uomini, processi evolutivi, nel corso delle stagioni lunghe e non col buio degli inverni corti, davanti al camino a consumare pennini e supporti di legna.

A tal proposito vorrei, in questo breve, raccontare la stori dell’ingegnere Angelo Lo passo, che ha avuto luogo tra i vicoli della Napoli, quelli che hanno fatto la storia lascia segni inconfutabili ad opera degli Arbër, indispensabile a rende migliore e più genuino territorio dove essi trovarono ambiente idoneo.

Una stoia, la sua, che inizia e si intreccia con altri illustri Arbër, tra San Giorgio a Cremano, Napoli, Castellammare e i luoghi del centro storico, qui l’eco della sua voce, con cadenza albanofona, oggi come secoli orsono sembra di tornare nelle nostre case, senza tempo, quando da diplomato  lascia il paese, per diventare ingegnere, architetto giurista, editore o critico liberale/politico, senza il bisogno di allontanarsi troppo dal cuore natio, o ricorrere ad atti di salute per marinare gli impegni presi.

L’ingegnere Angelo, appartiene alla categoria delle eccellenze che parla l’Arbër, lo usa per distinguersi e fare cose buone, non per scrivere, ma tutelare il patrimonio di genio locale, al servizio delle vernacolari arti, concertando fraternamente natura e uomo, per futuri migliori.

L’indole Arbër lo fa accogliere dalle, famiglie prime partenopee, con le quali, instaura rapporti di fraterna convivialità senza ombre o espressioni che ne possano intaccare la sua indole di uomo geniale e rispettoso delle cose altrui, natura compresa.

Il padre e la madre dal settantacinque del secolo scorso, per stare a fianco dei figli, in età di formazione universitaria, lasciano Spezzano Albanese, per recarsi a vivere a San Giorgio a Cremano, in modo che i figli possano praticare sereni la via della formazione universitaria e così, Angelo inizia i suoi corsi nel complesso Universitario di Mezzocannone 16, dove era a quei tempi la facoltà di ingegneria.

E nel mentre lui segue corsi e fa esami, l’ingegnere Cosenza, completa la nuova facoltà in Piazzale Tecchio, dove il giovane Angelo, si Laurea brillantemente e da inizio alla sua carriera.

Progetti di restauro e recupero funzionale di edifici storici, piani Paesaggistici/Regolatori, studio del territorio per destinazioni, diventano i temi di studio preferito, per arrivare a una maturazione tale da realizzare una sorta di manuale indispensabile alla valorizzare del buon progetto in esecuzione, secondo cui, non solo la valutazione di costi benefici deve essere il fine da perseguire, ma una serie di valenze che possano rendere l’edificio sostenibile dal punto di vista energetico e per la riproposizione degli elevato ai bisogni locali che esulano dal mero pensiero progettuale iniziale.

La sua carriera partenopea è esplosione di idee, segnano il progresso evolutivo del costruire e progettare con passione, mira di un bene sociale e non opera fine a se stessa.

Cose materiali dove il parlare Arbër è il mezzo per riverberare suoni antichi, di quanti saggiamente, vivono in continua evoluzione e Angelo, ha ben saputo conservare e prendere spunto dalla radice indeformabile del suo parlare Arbër.

Il suo studio è una vera e propria come casa bottega Arbër, da cui si scende nel deposito del sapere, qui un arco storico, segna lo spazio e avvicina unendo quanti lì vanno per imparare; una piccola finestra alimenta e da luce, come un tempo era il fuoco del camino.

Qui centrale la postazione di Angelo diventa e genera la fiamma del sapere, che riscalda gli animi e innescare la luce della mente, in tutto, saggi progetti, traccia sul foglio linee ed archi, esterna parole in fraterna successione e, fanno Gjitonia del progetto prossimo.

Una apparente confusione, che mi riportato indietro nel tempo, al ricordo della dimora dei miei nonni, dove la ragione e la memoria del passato, generava idee per valorizzare e sostenere tutta il buono, che un tempo è stata la mia famiglia.

Grazie Angelo, per avermi fatto rivivere quello che un tempo è stata la mia famiglia e, dove il mio cuore ha iniziato a restare vicino alle cose che contano senza preoccuparsi di contare il tempo che scorre.

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CORMORANI E MAYA, CANTO NUOVO GERMOGLIO DI SAN DEMETRIO

CORMORANI E MAYA, CANTO NUOVO GERMOGLIO DI SAN DEMETRIO

Posted on 29 aprile 2022 by admin

Cormorani 1966 2

Tra Napoli e San Demetrio Corone (di Atanasio Pizzi Basile) – Correva la seconda meta degli anni sessanta del secolo scorso e da San Demetrio si elevavano armonie e un canto nuovo grazie ad alcuni giovani lungimiranti, i quali, pur rispettandole, lasciavano le antiche melodrammatiche canzoni di radice in amore, per prospettive più luminose e propositive.

Il gruppo dei Cormorani nel 1966 era composto da Torchia Gennaro (chitarra basso) – Antonio Loricchio (batteria) – Demetrio Loricchio (chitarra solista) – Aldo  Strigari (sax) – Angelo Luzzi (cantante). Questi giovani intrepidi, con la loro passione per la musica e l’arte canora in senso più passionale del temine, riempivano di sonorità nuove i vicoli stretti di San Demetrio.

Seminavano così i primi germogli per ascoltare canti e ambientazione musicale anche nei paesi Arbëreshë della Calabria Citeriore, che sino ad allora era rimasta  relegata alla memoria della terra natia abbandonata.

Per ascoltarli diffusamente e riconoscerli come noti, non dovette scorrere molta acqua nei torrenti che descrivevano il promontorio detto “Murmurica”, in quanto valicarono il centro antico , negli anni settanta del secolo scorso, cambiando appellativo, ormai maturi per cavalcare palchi e dare spunto a noi giovani per  ascoltarli e ballare .

Sì sono proprio loro, “I Maya” .

Per molti ragazzi che iniziavano a respirare il vento nuovo degli anni settanta, Demetrio Loricchio – Gennaro Torchia – Mario Torchia – Antonio Loricchio – Gianni Loricchio –  Adriano Gallo – Angelo Luzzi – Aldo Strigari – Cenzino Santo – Pina Luzzi; dal 1972 aprendo le vie dell’accoglienza, anche con il cantante di colore Justin, atto che rese la generazione dell’epoca più ricca di valori.

In altre parole costituirono un gruppo di scintille che si univa per fare il fuoco nuovo  attorno al quale si ascoltava  musica e canto, la luce pulsante per un’alternativa di ascolto, a impronta di quanto proveniva dalla capitale londinese e dilagava nel mondo delle nuove generazioni, segnandole con indelebili valori di fratellanza.

Sfido chiunque abbia vissuto negli ambiti della nostra Presila, a non riconoscersi o ricordare balli accompagnati dalle lieti note e il bel canto dei Maya. Esso non era più dello storico ricorso Arbëreshe, di melodiche storie d’amore o di cuori infranti di inflessione Romana, Napoletana, Siciliana,Genovese, Bolognese o Barese.

Loro, i Maya, cantavano secondo la metrica di quanti attraversavano fieri e sorridenti, la strada, “sulle strisce pedonali”, sicuri, eseguendo canzoni come “Senza Luce”, e seguire la retta via, fatta di tanti amori nati tra quelle generazioni, che si andavano formando e cercavano un modo nuovo di fare storia e cultura.

La loro metrica sperimentale aprì un’epoca nuova di pensiero, specie nel canto, con l’idioma  importato da altri paralleli terrestri,  libera da stereotipi, la stessa che consente allora come oggi, il dialogo tra le culture più diversificate del pianeta.

Dopo un periodo che durò oltre un decennio, ogni elemento del gruppo ebbe famiglia e intraprese la propria via.

Ciò nonostante, ancora oggi, ogni volta che si ode una canzone degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, a chi di noi  non tornano in mente “I Maya”?

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FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

FLUSSI DI MEMORIA COME PROLOGO (tratto da”Poesia e Memoria Popolare a Santa Sofia d’Epiro” di Elio Miracco)

Posted on 29 ottobre 2021 by admin

Poesie e memorie popolariSANTA SOFIA D’EPIRO (di Elio Miracco) – La cultura analfabeta si conserva, si trasmette e si tramanda con l’oralità e con la memoria, ma scomparsa la civiltà contadina tutto è affidato alla scrittura o consegnato ai computer, così il suono della campana è ovunque identico, anzi è regolato elettronicamente senza il contributo creativo del campanaro che componeva e ripresentava le proprie note a festa o a lutto.

Centro di formazione della famiglia non è più la vatra – il focolare -, e nello stesso tempo sono scomparse le piccole botteghe artigiane, dove si elaboravano e si fissavano nella mente versi e racconti da consegnare alle nuove generazioni.

Lo spazio lasciato vuoto è stato occupato da bar e ristoranti, luoghi d’incontro dei giovani che restano lontani da chi tramanda e vivono in una specie di autoesclusione generazionale, in un recinto di incomunicabilità con gli anziani, spesso con se stessi. Si è creata una bolla mnemonica, una “amnesia” che strozza lo scorrere del passato nel presente e la conseguente innovazione.

Questa non vuole essere nostalgia del tempo nel quale una bottiglia d’olio costava quanto l’equivalente di un giorno di lavoro nei campi, né commoven­te pietas per un mondo scomparso, ma testimonianza di stagioni estranee a chi è nato e cresciuto con la televisione, in una società preindustriale, se così si può chiamare in queste terre, economicamente povere, il repentino dis­solversi della cultura contadina.

Quindi l’assenza di una memoria anche sen­sitiva che non percepisce più il profumo del pane che si diffondeva nelle gji­tonie – vicinato -, che non vede le nonne, incanutite prima del tempo, o le mamme sedute, a primavera, sul sedile, sjeti, o sul gradino della porta di ca­sa davanti allo sheshi-spiazzo -, filare la bianca conocchia o sferruzzare ru­vide calze di lana e pesanti maglie interne per l’inverno; che non ode il sordo calpestio sul selciato degli zoccoli dell’asino rientrare, al tramonto, dalla campagna e fermarsi per dissetarsi te fìshkialari-all’abbeveratoio sopra – o posht-sotto -, o il tric trac del telaio che durante il giorno rompeva gli intri­ganti silenzi, e gli strilli festosi dei bambini confusi con lo starnazzare dellegalline che razzolavano alla ricerca di cibo, o il fabbro che batteva ritmica­mente il ferro incandescente da forgiare; una memoria per quanti non vivo­no più l’alternarsi delle stagioni con i suoi riti, i suoi frutti e le feste che ac­compagnavano semine, raccolte dei prodotti della natura e vendemmie, per quanti hanno perduto il sacrale gesto di baciare il pane quando un boccone cadeva a terra, per chi ha dimenticato che alla vigilia dell’Epifania si porgeva l’orecchio nel tentativo di ascoltare gli animali che parlavano.

Vuole essere soprattutto un rinnovare il ricordo, almeno nei nomi, dei tanti anonimi verseggiatori che con i loro vjershè- versi – per amori con­quistati o perduti, per la gioia che diffondevano con i canti negli sposalizi e per la quotidianità elevata a poesia, allietavano la comunità che viveva di queste piccole cose.

Ancora oggi si conserva qualche soprannome, Grofi i Terezines (Ceramella Gennaro), oppure il solo nome o cognome ad es. Xha- kineti (Baffa Gioachino), Miniti (Bugliari Armenio Angelo), Karuzi (Caruso Paolo), Kurti o Ciciandoni (Curti Francesco), Skorci (Scorza Vincenzo), que­st’ultimo felice traduttore di poesie apprese nella scuola elementare.

Le loro voci o musicalità, vuxhet, distinguevano un verseggiatore dall’altro, tra le più conosciute continuano ad essere rievocate vuxha e Xhakinetite vuxha e Minititche nelle serenate, caso unico, cantava insieme alla moglie.

Ma la più celebre e nota aria del pipiceli1 ha perduto la sua paternità.

Musicalmente proponeva toni alti e bassi, dridhet vuxha – la voce vibra -, termine che ri­manda al tessuto particolare della coha- gonna -, in seta e cotone. Si pensa che abbia preso nome da un vjersh dedicato a una ragazza che indossava quel tipo di coha, poi riferito, per espansione semantica, all’uomo kush èsht kipipigeìsaììtatur- chi è questo giovane saltatore – con il significato di “bel giovane intraprendente”.

Da quando si è affermata la società alfabetizzata, i nuovi modelli di vita o i nuovi bisogni, influenzati dalla “modernità” televisiva, respingono o rifiu­tano la circolazione, all’interno della comunità, di questi canti così come la scuola dell’obbligo, giustamente elevata a tredici anni, ha generato modelli culturali diversi e omologanti. II mondo contadino si è spento non in seguito a un’agonia ma improvvisamente, dissoltosi, dopo cinque secoli, nella civiltà industriale della emigrazione che ha spezzato la trama sociale del paese, la­cerandone il tessuto.

Una sdrucita tela antica i cui spazi vuoti non possono la stessa moderna urbanizzazione, dagli anni Ottanta, con la costruzione di ville isolate e “falansteri” condominiali, sproporzionati alle case di uno o due piani di un tempo, ha contribuito alle ferite spaziali e il paese arbèresh, katundi, è diventato una struttura a brandelli del nuovo assetto urbano e sociale, determinando la scomparsa della gjitonia.

L’identità, elaborazione di secoli di contatti con le comunità romanze, si era mantenuta anche per il processo di conservazione, per quello che Saussu­re chiamava spirito di campanile o etnocentrismo.

Ma spesso ‘”altro” è stato talmente interiorizzato in un inconscio crogiolo da diventare elemento ar­bèresh.

Un ibridismo identitario vivo ed elaborato per gli incontri con altre culture che hanno contribuito ad arricchirne le caratteristiche.

Nel frattempo gli Arbéreshè, perduta la vitalità linguistica, tentano il re­cupero culturale cercando di porre degli argini con una tutela che fol-clorizza e alimenta elementi ormai diventati artificiali.

Le stesse manife­stazioni folcloristiche, alle quali basta aggiungere arbèresh, “week-end ar­bèresh”, diventano una ricostruzione di balli e canti in costume tradizionale, con protagonisti i bambini che si esibiscono e i genitori che vivono tenera­mente questi momenti alla presenza di distratti spettatori locali.

Mentre qualche turista lèti- italiano – alla ricerca e riscoperta di un mondo esotico, percepisce una realtà vivente e non uno spettacolo dal palcoscenico che ri­propone scene simulate, quindi una realtà artefatta.

E purtroppo da artifi­ciosità in artificiosità si è giunti alle superficiali pubblicazioni finanziate da enti comunali nelle quali si legge di “rosa balcanico” per il colore, forse uno dei pochi in commercio a Santa Sofìa, di una casa dipinta con questa tinta nella anni Cinquanta, di “postura di guerriero balcanico” per un pastore ac­covacciato, o addirittura di piante urbane che richiamano la geometria dell’accampamento militare romano.

E ancora di elementi architettonici balca­nici, ignorando che solamente a più di un secolo dal loro arrivo in Italia gli Arbéreshè ebbero il permesso di costruire con “calce e arena”, dopo esser vissuti in capanne che a volte incendiavano per non pagare il “focatico”.

Ormai il villaggio è diventato un villaggio globale e a Santa Sofia si vive con internet, con le televisioni satellitari, si va in crociera, si fa turismo nei posti alla moda e si frequentano scuole e università. Sono il segno del pro­gresso che inesorabilmente incomincia ad espellere quanto non è più fun­zionale nella società estesasi oltre la frontiera invisibile, che un tempo cir­coscriveva la comunità.

 

 

https://www.google.it/books/edition/Poesia_e_memoria_popolare_a_Santa_Sofia/J35cAwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=le+vallje+danza+tipica+albanese&pg=PA20&printsec=frontcover

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CRONACA DELLA MIA VITA IN GRIGIOVERDE (di Adriano Mazziotti)

Protetto: CRONACA DELLA MIA VITA IN GRIGIOVERDE (di Adriano Mazziotti)

Posted on 15 gennaio 2019 by admin

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LA VIA DEI POLITICI, DEI VIANDANTI E DEI SAGGI SALTIMBANCHI

LA VIA DEI POLITICI, DEI VIANDANTI E DEI SAGGI SALTIMBANCHI

Posted on 17 giugno 2017 by admin

Lavia dei politici dei viandanti e dei saggi saltimbanchiNapoli (di Atanasio Pizzi) – L’inseguimento della Verità è senza dubbio la più affascinante avventura di cui la coscienza umana possa accorgersi.

E chi vuole annullare la Verità dandole il senso di ultimo termine, commette l’errore tipico del materialista: scambia la vita con la morte; prende per morto quel che vive e narra eventi che producono dolore a chi si vorrebbe vedere rassegnato e sconfitto; morto.

Esempi in tal senso sono i narratori di pietre, muri, case, chiese, alberi, materialisti incalliti che con misere gesta speculano sulle lacrime e il sangue di persone che non si rassegnano alla morte della loro identità culturale.

Certamente chi ha garbo e un briciolo di sensibilità non descrive allegorie, utilizzando il luogo del calvario statisticamente noto come: l’urlo più muto del secolo appena iniziato; progetto demenziale attuato, per nome e per conto di tanta brava gente, che non ha avuto alcun diritto di parola, se non l’obbligo di firma.

Chiudere un paese è come risvegliarsi in mare aperto solo e senza niente all’orizzonte; in quanto la cattiveria, prima ha sfibrato il fascio della coesione sociale e poi spezzato uno a uno i domani di ogni singola persona, cattiveria gratuita partorita dalla dea della viltà e dell’ignoranza.

La memoria dei luoghi e la storia, non è, né un teatro né una leggenda! Solo chi è stolto si assume la responsabilità morale, di filosofeggiare allegramente, accompagnato dal suono di una tarantella alternato a una canzone mal interpretata.

Bisogna essere attenti, anzi direi sensibilmente istruiti, quando si gioca con le pietre degli altri, giacché se da una parte; si ambisce a fare arte senza avere ne educazione e ne consapevolezza; dall’altra, osservatori inermi, avvertono il dolore che sale lungo le ferite dell’anima e riaccende il fuoco del “drago”, che ti brucia identicamente, come se il tempo non sia mai trascorso.

Quelle pietre quei resti sono il ricordo di fughe indotte e ritorni vietati; rievocano paura, dolore, solitudine e il dramma di chi ha sbagliato tutti i domani, a partire, da quell’infausta notte.

È inimmaginabile portare alla ribalta così gratuitamente luoghi senza avere consapevolezza di risvegliare quel dolore antico vissuto dai vivi, che solo la morte potrà terminare.

Purtroppo chi ha vissuto gli attimi dell’esodo inseguendo alternative trasversali fuori da ogni logica di buon senso, afferma che bisogna rinnovarsi, in quanto, nulla rimane inalterato; questo non è vero! Perché tutte le persone di cultura, riconoscono il dato che si migliora avendo come meta, la propria identità e le proprie origini, al fine di traghettare verso modelli condivisi da tutti, senza esclusi e tantomeno discriminando chi si batte per i domani arbëreshë.

Solo in questo modo si possono evitare innesti malevoli e senza senso, piante infette che sono sfuggite al controllo delle istituzioni, le stesse che oggi si ostinano far fiorire nel mediterraneo, piante grasse dei deserti sahariani.

Questa è una vicenda che non ha, vinti né vincitori, tutti hanno perso, solo perche è stato lasciato campo aperto a persone dispettose, viziate e infantili, “sfortunati sociali” che non hanno avuto modo di confrontarsi con i valori familiari e per questo ignari del “ luogo dei cinque sensi: la Gjitonia!”

Un paese fatto di gjitonia, si vuole bene, si rispetta, si riconosce in ogni ricorrenza, prega nello stesso Santuario, condivide gioie, condivide dolori è vivono gli stessi ambiti; se ciò deve morire, basta togliere all’improvviso i luoghi fisici per discriminarli, scientemente relegandoli a non avere nessun diritto di riunirsi sotto gli stessi edifici pubblici e privati, perché il luogo della vita è ritenuto “solo per essi, ma non per gli altri” pericoloso perché lo dice il drago.

Avere l’immagine, impressa nella mente, di quei cancelli come il confine della loro esistenza è come paragonarli ai varchi dello sterminio, ed è per questo che ferisce, offende e calpesta la dignità dei poveri esodati.

Chi ritiene morto un paese sapendo che è vivo è in malafede; specialmente se il luminare che ne dovrebbe certificare la salute guarda esclusivamente le ferite di ponente.

Mentre dal lato di levante a piacimento possono diventare luogo di svago e di diletto, mettendo a rischio, inconsapevoli giovinetti che incautamente violentano senza “ragione” le intimità altrui.

Adoperare modelli educativi per giocare con Chiese, Strade, Vicoli e Piazze o innalzare emblemi alloctoni e senza arte, offende la memoria di Ines, Almira, Giovanna, Anita, Angelo, Filomena, Teresa, Marino, Rosario, Maria, Adelina, Gennaro e tanti altri anziani che hanno preferito lasciarsi morire, prima di essere estromessi dagli ambiti vissuti “del loro mondo terreno”.

Frequento e conosco gli abitanti, so che del loro paese, delle loro case e del loro mondo, conservano frammenti per loro preziosissimi, perché sono l’unico che li conduce ai domani che, diminuiranno di giorno in giorno e rimangono l’unico modo per tornare idealmente nelle loro case, luce flebile che proietta figure parallele non più ritrovate.

Cosa mi colpisce in ognuno di loro è la fede che hanno verso il Santo Patrono, solo lui, da forza per sperare nel ravvedimento, di quanti in maniera leggera, poca attenta e senza mai conoscerli, li ha ritenuti al pari di un insieme numerico di mera statistica d’archivio.

Li ho visti e sentiti pieni di orgoglio ogni volta che si parla delle loro case negate, ma purtroppo una macchina invisibile che sta sospeso verso il cielo dice che non possono tornare perché il drago viene solo ed esclusivamente di notte. (avranno scoperto che di giorno dorme, allora shhhhhhhhh, non fate gridare le scolaresche!)

Li ho visti volgere lo sguardo all’insù e cercare la macchina che sa tutto, con grande dignità, increduli di quando gli è accaduto, ben consapevoli che la trascuratezza istituzionale sia l’unico colpevole, in quanto, hanno lasciato che il drago fosse libero e lui di notte, quando tutti erano tranquilli ha trascinato a valle alcune case.

Li ho visti piangere e chiedere se la decisione dell’esodo, in quei terribili frangenti era veramente il frutto di analisi eseguite con criteri scientifici e di comparazione territoriale o frutto dall’ignoranza che mirava a malevoli interessi.

Mi dice nonna Alma, una vecchietta seduta sull’uscio di casa per non perdere il suo diritto: prego Dio tutti i giorni, perché si rievochi la leggenda del drago e il cavaliere possa prevalere sul drago che dorme sul giglio, tanto lui, non fuma dalle narici, ma sbuffa fumo dalle malsane orecchie!

Gli ho detto che quella è una leggenda, purtroppo la realtà, ancor prima dell’inizio di questa vicenda è stata orfana del “Buon Senso”, “semplice, puro, sano, buonsenso; null’altro”.

Se i protagonisti che hanno condotto questa vicenda, avessero adoperato il Buonsenso, invece della “sciabola dittatoriale/culturale”, oggi non avremmo avuto bisogni di inviare abbracci ovunque vivono, ovunque si sentono in esilio, ovunque sperano che il cavaliere prevalga su questo essere informe che appiattisce, distrugge e calpesta persino la storia dei valorosi guerrieri arbëreshë.

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Protetto: LA MALA ARIA CHE SOFFIA SULLA CONSUETUDINE

Posted on 01 ottobre 2015 by admin

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