Posted on 09 settembre 2023 by admin
Commenti disabilitati su Protetto: LA CALABRIA CITERIORE ASPETTI STORICI DELLE VERNACOLARI TIPOLOGIE(Zhëmëren time ju e patë shum thë vicher, nënghe e dishëtith afer Juvë Vale Vale e i bëth mëbhkatë)
Posted on 05 settembre 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Attualmente si riconoscono gli ambiti detti “Arbër” come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione linguistica della popolazione, assumendone per questo la funzione di bene non statico, ma dinamico e, nel tempo mutabile, sotto specie di espressione folcloristica o ricerca senza inizio e fine.
I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo, ne sono prova evidente, viste le continue violazioni identitarie, passate inosservate, sin anche al vaglio dei preposti, che leggono carte prive di confronto sul territorio, perché il dovere istituzionale, vuole gli addetti rigorosamente seduti in ufficio.
L’esigenza sfrenata di dover diffondere storia, con capitolazioni, atti notarili e matrimoni, ha fatto allestire irresponsabili, atti per poi attribuirli ai centri urbani detti minori e se questi fanno parte di quelli contemplati nella legge 482 del 99, “il dado è tratto”, ma purtroppo in questo caso, non esiste nessun ponte da attraversare, in quanto ancora neanche in allestimento.
Se a questo si aggiunge l’accelerato sviluppo tecnologico/scientifico, associato all’utilizzo di mezzi di comunicazione e trasporto di massa, tutto è mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, ricorrendo a materiali sperimentali, non più del luogo.
L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno modificati i luoghi agresti, terminando nell’abbandonare in molti casi, gli storici cunei agrari o della trasformazione, nonostante l’irripetibile eccellenza locale, un tempo filiera, non ripetibile in altri luoghi.
Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi, sia tumultuosi, sia naturali e del genio locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni da tutelare, perché patrimonio culturale o luoghi della inimitabile “Dieta Mediterranea” o “Trittico Mediterraneo dell’alimentazione”.
Per questo, sono troppe le “Regioni Storiche dell’alimentazione Prima”, a rischio terminazione o già estinte, per ragioni politiche di radice globale, divenute nel contempo flebile memoria di una eccellenza che i locali ignorano o non hanno numeri e cose per riconoscerla.
Di contro si apprezza e si agevola senza alcuna regola, l’architettura moderna del secolo appena trascorso e, l’insieme di edifici, strutture e percorsi rotabili; tutto viene stravolto a favore di una cultura priva di solidità, ma esposta a una generale mancanza di consapevolezza o riconoscimento di luogo.
Tutto questo avviene perché, quanti dovrebbe assumere il ruolo di controllo, non conoscendo la storia del territorio di competenza, di punto, di luogo agreste e dei centri antichi di origine.
Troppo spesso gli ameni locali, sono sottoposti a processi di riqualificazione o modifiche inappropriate e, “perché abbandonati”, sono inseriti in processi di modernizzazione, che non hanno nulla a che vedere o fare con i valori distintivi per i quali furono allestiti ad uso comune e privato.
Qui in questo breve, si mira a difendere tutto ciò, in particolar modo, tutti gli elevati primi, e sin anche la toponomastica di memoria storica, realizzate e appellata dall’uomo e, siccome questi sono ambiti e cose minori, non si prevedono sanzioni, verso quanti ne violano i contenuti e il significato di elevati e strade, in quanto prive di paternità progettuale.
Questo purtroppo avviene perché non è stato codificati o ritenuto storicamente attendibile quello che si possiede, quindi fa parte della categoria dei non tutelabili, indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, che non conosce e ignora totalmente la storia di luogo, ritenuta favola di casa che non va oltre il perimetro del proprio focolare domestico.
E nonostante questi luoghi siano stati, colmi di storia prima e o momenti fondamentali delle vicende locali che contano ma senza nome, pur se estremi assoluti, nel rispondere a esigenze o bisogni distintivi della storia, in tutto, opere senza clamore, sono ritenute per questo violabili.
E’ in questo modo che si offende continuamente la memoria dei luoghi, ma più di ogni altra cosa, le conquiste della comunità ad opera di singoli che così facendo diventano storia dell’architettura anonima.
La stessa che non trova ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali vernacolari attività, per le quali se ti confronti con tema di tutela, si preferiscono luoghi di tragedia, opere d’un autore, monumenti, chiese, facciata di palazzi nobiliari, un campanile, un ponte, un rudere confermato, ma non quello che resta chiuso dell’intimità di costruttori anonimi locali, che per la loro indole prima, restano silenziosi e non lamentano alcun che.
Nessuno conosce misura, nessuno da conto, nessuno prende atto della violenza prodotta, nel mutare una parete, cambiarne i pigmenti, dismettere appellativi viari, apporre scalfiti dii memoria, o ritenere sia giusto rendere il centro antico momento di raffigurazioni e non di vita produttiva e conviviale, ma mera finzione filmo/figurativa.
I comun preposti, invece di prodigarsi nel difendere la propria identità di luogo, preferiscono i valori di mastodontici monumenti, appariscenti attività di pigmento e, non identità anonima locale senza nome, per questo si sentono delegati a vituperarli, violarli o coprirli di pena.
L’Architettura senza architetti, identificata come Vernacolare, mirava al semplice valore del costruito per bisogno, introducendo valori propri di uno specifico luogo, senza pedigree di architettura, ne violare la natura circostante.
Essa è così poco nota che non esiste neppure un nome specifico per identificarla o un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla nel comune dialogare, Povera ( i Nëmurh), Spontanea (e drechjurë), rurale, indigena (llitirë), o genio locale (Mieshëter Arbër) a seconda dei casi di studio.
Naturalmente entra nello scopo di questo tema, fornire una storia coerente dell’architettura senza valore, e lungi dal sortire in tipologie o definizioni tipologiche sommarie.
Essa deve aiutare a liberarci dalla ristretta classificazione di architetture ufficiali e commerciali, che facilmente sono replicabili perché di paternità illuminata.
Gli studi forniti da numerosi e nobili autori, presi come solidi riferimenti, inquadrano con forza l’architettura senza autori, e oltre a ciò consentono di rielaborare il significato di alcuni termini, quali architettura “Spontanea” (e drechjurë), “Minore”(e Viker) e “Anonima”( e Guej), operazione utile a definire il contesto di riferimento specifico della ricerca.
Il lessico fornisce la precisazione di significato soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini apparentemente o foneticamente simili.
È necessario approfondire quei termini, i quali, nel tempo sono stati usati, con molteplici accezioni, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo” (e drechjurë), quando la spontaneità mira a restituire supporto fondamentale alla vivibilità di questi luoghi, siano essi agresti che concentrati in forma di Katundë.
Nella storia, l’aggettivo Vernacolare, in questo specifico caso potremmo appellare “Architettura in Arbanon”, più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, ma serie di opere povere, esigenza di luogo, legate a contesti molto ristretti, costruiti con materiali del luogo e tecniche tradizionali, provate sulla pelle dei usufruitoti di famiglia allargata, sin a raggiungere l’equilibrio ricercato.
Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea, come sinonimo di architettura povera, è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze prime che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore, in quanto esigenza abitativa locale o agreste, di un ben identificato momento storico, fuori dai circuiti della divulgazione.
L’aggettivo spontaneo, pertanto è attribuibile a ciò che non ha imposizioni definite da una scuola o una tendenza generale o ampia, ma esigenza di luogo, tessuto con materiali locali offerti dagli eventi della natura.
Questa caratteristica, in riferimento alla trattazione di un tema come l’architettura anonima, nella contemporaneità, comprende il non essere assoggettato o influenzato da un linguaggio particolare o da uno stile, anche se la spontaneità lega aree ben definite o esigenze, germoglio di ambiti collinari o di approdo mediterranei secondo i bisogni delle genti che si preparavano a risiedervi senza soluzione di tempo, cose ed eventi.
Con l’idea di architettura spontanea, dunque, non è l’architetto-artefice, ma piuttosto una sorta di razionalità collettiva che, rispettando le norme non scritte, per la gestione dello spazio, risolve diversamente il dato estetico, culturale, di utilità associata al territorio.
Tale condizione di spontaneità è associabile, nel caso dell’architettura, a forme e soluzioni di una architettura codificata con consapevolezza, e poste alla verifica delle stagioni e la natura di un ben identificato luogo.
Ritrovando i valori della ricerca di questo breve, anche negli studi condotti da Rudofsky, non è un caso, che le tipologie edilizie tradizionali di genio arbëreshë, sprezzate o del tutto ignorate dagli studiosi comuni, per questo rimaste testimonianza silenziosa, grazie alla spinta di questo maestro delle indagini del costruito minore, si aggiunge un valore assoluto e non indifferente.
Quanti considera ancora oggi le architetture minori degli Arbër poca cosa per l’indagine storica al fine d’individuare percorsi della “regione storica diffusa” e quelle delle terre parallele ad est del fiume Adriatico, commettono e portano avanti consistenti negligenze di studio e approfondimento identitario.
Infatti le architetture locali della regione storica, attingono le radici dall’esperienza umana, interesse di studio che va oltre quello tecnico ed estetico, inquanto tratta di un’architettura senza dogmi.
A tal proposito è il caso di approfondire le cose che caratterizzano dal punto di vista costruttivo e dell’ambiente naturale i cento Katundë di origine arbëreshë, del meridione d’Italia, relativamente al costruito riferito come primo, che va dal XIV secolo al XVIII con evidenti elementi distributivi, tipologici in continua aderenza con lo sviluppo del territorio, in convivenza fraterna tra gli uomini.
Noti come Katoj, Motticelle o Kallive, si legge facilmente la radice organizzativa di espressione monastica, visto e considerato che i gruppi familiari che componevano gli abitanti di ogni agglomerato, aveva un prete ortodosso e la sua famiglia come elemento di credenza trainante.
Confermato che tutta la popolazione si sosteneva con le attività agro silvo pastorali, in estate o nella buona stagione quando l’attesa dei risultati di semina, consentivano di avere tempo per le attività degli anonimi e infaticabili Arbër, questi genio e forza lavoro a innalzare gli abituri tipici, suggeriti dai preti locali, nelle distribuzioni interne, a impronta di quelli monastici vissuti durante la loro formazione, è così che ha inizio la delimitazione del cortile e la piantumazione dell’orto botanico.
Cattedratici e studiosi post legge 482/99 ostinatamente e senza ragione confermavano, “tutti che non è cosi”, ma quando nel 2013 la difesa di Cavallerizzo e le motivazioni depositate nei preposti uffici, crearono scompiglio nel campo del genio culturale scritto, in greco e latino ignoto.
Costringendo a disporsi negli angoli bui, quanti con le teorie catastali senza verifica locale, volevano fare opera senza conoscere la storia, ritenendo possibile innalzare un paese “Arbëreshë con le Gjitonia” e attorno alle attività di difesa per gli Arbër, fu deserto algerino a prevalere e nulla più.
E quando oggi si confrontano i disegni per lo studio dei moduli abitativi dell’unità di Abitazione di Marsiglia, del noto Le Corbusier, si ritrovano elementi di spazio essenziali, sin anche delle finestrature e i sotto moduli di areazione naturale, con finalità pari, simili, equipollente o rivisitati dei moduli tipo, di Katoi, Motticelle e Kalive, ancora pronte a dire la loro, in campo dell’architettura vernacolare in terra Arbër.
Lo studio dell’architettura anche se anomia o vernacolare, segno indelebile di genio locale, se si ha formazione sufficiente, nulla sfugge al buon osservatore fornito con occhio in fronte e nella mente.
L’architettura ha date, tempi, luoghi e uomini, per ogni epoca, essa non lascia spazi a libere interpretazioni, come avviene con la favola onnipresente, che vuole la letteratura Arbër, elevarsi solo dopo il 1831.
A questo punto viene da chiedersi: prima della letteratura di terzo decennio, dell’ottocento, cosa facevano i minoritari di Calabria Citra, dormivano, si cullavano, pascolavano pascendo.
Voi che fate la coda in archivio e in biblioteca, ancora non avete trovato gli atti del palazzo arcivescovile di Santa Sofia datato 1595, dell’omonimo di San Benedetto Ullano, datato 1625 e, nulla del Collegio Corsini dal 1742 con le innumerevoli eccellenze vescovii le sue eccellenze di cultura, scritta e orale, compilati prima di ogni altra figura, dal Baffi a partire dal 1765 a Salerno e magari, quando ritrovati addirittura copiati senza vergogna, per poi stamparli diffusamente a Napoli
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Posted on 01 settembre 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Il termine “paesaggio” vuole rappresentare, l’insieme delle forme e interazioni di un luogo tra tempo, natura, uomini e, nasce per rappresentare il risultato della convivenza dei protagonisti attivi, in continua evoluzione.
Da questa definizione scaturisce la necessità nel differenziare il paesaggio, secondo lo scorrere del tempo, gli episodi o eventi naturali a cui l’uomo cerca di ripristinare e dare conto o giudizio, quando queste diventano abbandonati, antropizzati e urbanizzati.
Ci si rende subito conto della complessità del passare del tempo determinatesi a favore della natura a discapito dell’uomo e viceversa, ed ancor di più del concetto ad esso associato, in quanto abbraccia la sfera fisica, percettiva, culturale e sensoriale della realtà, inducendo ad una lettura analitica/critica per leggere le sfumature.
A Firenze nell’ottobre del 2000, si è definita una definizione ufficiale congiunta secondo cui e, per evitare possibili parafrasi che esulano dai contenuti di questo contributo qui disponiamo quella ufficiale in lingua Inglese e quella tradotta in Italiano:
“Landscape” means an area, as perceived by people, whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human factors.
Per “paesaggio” si intende un’area, come percepita dalle persone, il cui carattere è il risultato dell’azione e l’interazione di fattori naturali e/o umani.
Secondo il convenzionale enunciato, si individua come paesaggio il risultato di azioni conviviali tra fattori naturali e/o fattori umani.
In buona sostanza, tutto può essere paesaggio, purché espressione di una componente soggettiva da parte dell’osservatore e si riconosce come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione di azioni locali su uno specifico territorio, di approdo, collina o montano.
Da questo punto di vista il paesaggio rappresenta un bene apparentemente statico, in continua e lenta evoluzione, in quanto determinato dal carattere percettivo della memoria, in quanto luogo dell’azione dell’uomo sul palco della natura.
L’attribuzione di un valore aggiunto o sottratto a favore del tempo, la natura o dell’uomo, dunque, non può prescindere dal riconoscere elementi che lo caratterizzano e lo differenziano nel tempo e appariscono sostanzialmente simili secondo la distanza dell’osservatore.
Ed è per questo che alla stessa tipologia, due momenti distinti del paesaggio risultano differenti allo sguardo dell’osservatore, individuando in essi alcuni elementi ora opera della natura e ora opera degli uomini.
Questi elementi possono essere di tipo naturale: un corso d’acqua, la nuova vegetazione, o di tipo antropico: un manufatto, in declivio modificati ad opera dell’uomo, o anche un percorso viario; talvolta proprio la presenza di elementi antropici favorisce l’identità culturale, valorizzando la naturale bellezza dei luoghi, che l’uomo rende neutra per i materiali locali che utilizza negli elevati che diventano quasi opera della natura.
La produzione agricola appartiene a quei fattori di trasformazione del paesaggio che, nei secoli ha modificato notevolmente il territorio, a seconda dell’intensità produttiva e delle esigenze a cui doveva far fronte, talvolta qualificando l’ambiente: solo per citare un esempio, basti pensare a terrazzamenti, briglie di contenimento dei deflussi naturali, grazie alle quali si sono potuti piantumare, a seconda le zone, pergolati, limoneti, uliveti o i coloratissimi orti stagionali delle più raffinate colture, praticate e tramandate di padre in figlio, rendendo più docile il profilo dei declivi e sviluppando una “struttura paesaggistica” che sostiene il delicato equilibrio idrogeologico dei versanti.
La costruzione di opere e manufatti in contesti naturali, all’origine era realizzato per sortire al minor impatto percettivo rispetto al contesto ambientale in cui si trova, grazie all’utilizzo di materiali li reperibili, come pietre arenarie o argille.
La motivazione a tale attenzione, la si ritrova principalmente dal fatto che quanti sceglievano la collina alle rive di approdo, volevano rimanere anonimi e non facilmente intercettabili da quanti proveniva dal mare con principi bellicosi, non certo di convivenza.
Ragion per la quale le forme costruttive tradizionali, erano incastonate nel contesto, ma soprattutto nell’impiego di materiali e pigmenti che già appartengono ai caratteri di quei luoghi.
Partendo da questo assunto infatti, ne è dimostrazione la ricerca condotta dallo scrivente con protagoniste le genti che elevarono gli oltre cento Katundë di radice Arbër, Arbanon e Kalabanon, della penisola del sud Italia e in forma esclusivamente documentale del sud della penisola balcanica e della aree a sud della Spagna e del Portogallo, con riferimento alla regione dell’Exstremadura.
Una vera e propria casistica eterogenea di architetture rurali, un ventaglio di elevati censiti, individuando caratteri architettonici essenziali, distintivi e ricorrenti, la cui tipologia si ripete su tutto il territorio indipendentemente dalla collocazione o dalla provincia di riferimento, tanto da permettere di classificare i sistemi edilizi in classi omogenee, individuando carattere ordine strutturale, dimensionale, organizzativo-distributivo, funzionale ed aggregativo.
Le espressioni dell’abitare raccolgono i suggerimenti offerti dalle potenzialità del luogo e del tempo, fino a materializzare nel paesaggio soluzioni iterate naturalmente, a ragione d’uso, le funzioni, conferma di validità.
Analizzare, i cunei agrari attraverso briglie, per la mitigazione dei reflui naturali, o per la tenuta di vie per raggiungere in sicurezza i pianori di semina, con particolare attenzione all’edificato di raccolta, accumulo e lavorazione dei prodotti agro-silvicoli-pastorali, sono il processo più articolato da analizzare, dato che punteggiano il paesaggio, attraverso cui discernere le trasformazioni indotte dalla società contadina, del volto di paesaggio, da naturale a interattivo tra tipo edilizio, in tutto un luogo vissuto dagli uomini.
La corrispondenza tra “oggetti dell’abitare” e “tipi di supporto dei cunei agrari” avviene convalidando tipologie posteriori, ovvero le esperienze negative da migliorare e non più proporre come soluzioni formali con connotazioni nitide, precise, quasi elementari nella struttura, in tutto la misura dell’evoluzione del paesaggio guadagna attraverso l’abitare.
La classificazione di tali sistemi in elevato, di sostegno agreste e abitativo evidenzia non solo la ripetizione della tecnica costruttiva come tradizionalmente tramandata, ma anche e soprattutto la ripresa di quei cromatismi che appartengono all’ambiente naturale in cui vengono costruiti. E sono fondamentali per non essere intercettati, perché scelta di vita.
Lo stesso avviene nei centri abitati dove gli sheshi sono organizzati secondo disposizioni dipendenti degli originari gruppi familiari allargati, sono questi a determinarne il percorso articolato e definirne gli spazio dediti agli orti botanici, indispensabili di ogni gruppo.
Abitazioni sempre contornato dal verde naturale o comunque da elementi arborei che ne caratterizzano il clima e l’abitabilità.
Agglomerati realizzati all’interno o comunque contornati dalla vegetazione caratteristica di schermatura, indispensabile nelle colline mediterranee a creare il giusto filtro visivo per chi da lontano osserva e vorrebbe distinguere uomini, natura e tempo.
Per questo le soluzioni costruttive appartengono a un linguaggio, che con lo scontrarsi con gli eventi naturali sempre più vicini, così tanto, da rispondere nuove esigenze sanitarie, rispetto alla scelta del materiale protagonista, che ritorna ad appartenere al luogo con una dimensione nuova, in cui la maggiore caratteristica deriva dalla pietra naturale, legata all’esteriorità per render il sistema naturale e possibile.
Nel meridione italiano, i materiali impiegati nella costruzione sono gli stessi che si ritrovano in situ, lì reperiti o perché costituenti il suolo, o perché trascinati da corsi d’acqua o rotolati fino alla pianura quando i sistemi di deflusso non erano ancora mitigati.
Sino a quanto i pigmenti naturali, amalgamano l’ambiante e natura, grazie anche all’ausilio di malta di allettamento delle pietre, si producono quinte naturali senza ombre e lo scenario rimane incontaminato da ombre o riflessi fuori misura.
Le attività di ricostruzione a seguito dei sismi ad iniziare da XVI secolo sono il segno emblematico delle ricostruzioni post sismi in quanto l’originario manufatto in elevato realizzato solo di calce arena e pietre con elementi di spogliatura del continuo murario con l’adottare parti delle lamie di copertura realizzate in coppi e contro coppi sbriciolati o non più utili all’originario scopo a causa di sismi, ma sempre utili per fare volume o dare continuità solida al costruito in elevato.
Cosi come anche l’utilizzo dei mattono che formano piedritti e archi di vani porta e finestre sino ad allora realizzati con pietre e arco trave in legno su cui adagiare il continuo murario in pietra.
Il contesto naturale mimetizza il manufatto all’interno del suo paesaggio, riprendendone le sfumature e i toni di tutte le cose che uomo e natura avvicinano le une con le altre.
Nel caso delle pietre di cava, l’imponenza dei blocchi di pietra o dei conci in tufo, fanno contrasto con il verde della campagna ma, a ben vedere, si lega al paesaggio, perché assumo il ruolo di delimitare ingressi e finestrature e in casi di edifici più emblematico assume re il carattere distintivo essenziale di queste architetture, così poco artificiose, ed alimenta valori formali che trascendono quelli funzionali e ne strutturano la percezione in pietre di riferimento angolare alla base dell’edificio.
Questi temi così disposti hanno per secoli reso lo scenario naturale come se fosse privo della presenza dell’uomo, che dopo il terremoto del 1783 ha dato la regia o meglio prevalenza estrema, al bisogno dell’uomo, il quale prima ha esagerato con le sue necessità e, poi abbandonate le cose alla disponibilità del tempo e della natura.
Oggi siamo giunti al termine, nessuno sa come dialogare o intrecciare cose buone per disporre il giusto equilibrio tra tempo natura e uomini, mentre non avendo misura e ragione per dialogare sono incolpati sole, vento e luna, sin anche la pioggia che un tempo era tanto attesa o per meglio dire fondamentale.
Commenti disabilitati su SHESHI: ARCA SOCIALE PER LA SOSTENIBILITÀ DELL’AGRO ARBËR (Sheshi: insieme del costruito di case, supportici, strade, vicoli ciechi e orti)
Posted on 30 agosto 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Nel mentre ci si affannava per meglio risolvere la questione Albanese dall’inizio del XIX secolo, terminando con la discutibile legge 482/99, nel mondo dell’architettura si innalzavano i valori Vernacolari, con protagonista: il sud della penisola balcanica, il sud dell’Italia, il nord della Tunisia e Marocco e sino al sud della spagna, del portogallo e dell’isola di Ibiza.
E se i comuni legislatori avessero mirato verso esperienze di tal senso forse oggi quella legge non avrebbe tante lagnanze a suo sfavore.
Un dato rimane ed è inconfutabile, ovvero, non si possono setacciare millenni di avvenimenti, per poi ridurre tutto a minoranza o al lamento di una lingua altra o previlegiando la sua origine a Sud della penisola balcanica, per poi appellarla Arberia, regione storica a Nord di quella nostra terra madre.
È tempo di conversare utilizzando l’appellativo “Regione Storica Diffusa degli Arber”, al fine di identificare parallelismi sostenibili e concreti del bacino Mediterraneo.
Attualmente si riconosce il paesaggio come bene culturale a carattere identitario, frutto della percezione della popolazione, assumendo la funzione di bene non statico, ma dinamico.
I radicali sviluppi economici, sociali, tecnologici e politici, avvenuti durante il ventesimo secolo sono la prova evidente e ancora viva nella memori di ogni individuo.
La rapida urbanizzazione e la crescita di grandi città, l’accelerato sviluppo tecnologico e scientifico e l’emergere di mezzi di comunicazione e di trasporto di massa hanno mutato radicalmente il modo di vivere e lavorare, con la produzione di nuovi edifici e strutture, forme e tipologie edilizie senza precedenti, con il ricorso materiali sperimentali.
L’industrializzazione e l’agricoltura meccanizzata hanno creato paesaggi massicciamente modificati nonostante fossero identità locale o memoria storica di particolari eventi di non poco conto.
Eppure, comparativamente pochi tra i siti e i luoghi creati da eventi sia tumultuosi e sia dell’identità locale, sono stati iscritti negli elenchi dei beni tutelati per i loro valori come patrimonio culturale.
Per questo, troppi luoghi e siti del patrimonio sono a rischio e, quando prima termineranno d’essere memoria.
Sebbene l’apprezzamento dell’architettura modernista, della metà del secolo, stia crescendo in alcune regioni, l’insieme di edifici, strutture, paesaggi culturali e siti caratteristici prima rurali e poi industriali del sono pericolosamente esposti o minacciati da una generale mancanza di consapevolezza, riconoscimento di tutela.
Troppo spesso sono aggrediti da processi di riqualificazione, da modificazioni inappropriate o semplicemente dall’abbandono inseriti in processi di modernizzazione che non hanno nulla a che vedere con i valori distintivi per i quali furono elevati o allestiti all’uso comune o privato.
Qui voglio difendere tutto ciò, in particolar modo tutti gli elevati realizzate dall’uomo e dei quali oggi non si prevedono sanzioni, in quanto non codificati o ritenuti storicamente attendibili, e quindi indifesi, o meglio posti alla disponibilità, della sovranità locale, diffusamente ignara della storia di luogo.
Memoria di una infinità di figure senza nome, distintesi a vario titolo, perché operosi in area locale, divenendo estremi, assoluti, nelle opere dell’arte per rispondere a esigenze o ai bisogni, di uomini silenziosi, in tutto, opere prime senza clamore.
Ed è per questo che non hanno trovato ristoro nel cuore e nella mente, dei comuni mortali, con i quali se ti confronti, sono pronti a difendere tragedie e opere d’un autore, un monumento, una chiesa, la facciata di un palazzo, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è confermato.
Ma nessuno si rende conto del bisogno che hanno le identità di luogo, valore estremo anche se minimo per i residenti, più di ogni mastodontico monumento o della più raffinata arte pittorica.
A ragion veduta dovrebbe essere posta attenzione particolare per ogni anonimo locale, specie se privo di identificativo famoso, specie se fa parte del vernacolare del costruito dei nostri Katundë.
L’Architettura senza architetti tenta di spezzare il nostro limitato concetto di arte del costruire, introducendo il nome non familiare di architettura senza pedigree.
Essa è così poco nota che non abbiamo neppure un nome per lei o di un’etichetta generica, ma possiamo chiamarla dialettale, anonima, spontanea, indigena, rurale, a seconda dei casi.
Naturalmente non entra nello scopo di questo breve fornire una storia concentrata dell’architettura senza pedigree, e neppure una sua tipologia sommaria.
Essa dovrebbe solamente aiutare a liberarci dal nostro ristretto mondo di architetture ufficiali e commerciali, certamente inquadrare l’architettura senza autori, consente di rielaborare il significato di alcuni termini quali architettura “spontanea”, “minore” e “anonima”, operazione utile a definire il contesto di riferimento di questa ricerca che dall’Inghilterra e partita questo agosto.
Il lessico ed una precisazione di significato appaiono obbligatori soprattutto per evitare di dare origine a fraintendimenti o ad usi impropri di termini simili, anche se lo scopo vuole riferirli in Arbër.
È necessario approfondire quei termini che nel tempo sono stati usati, con accezioni molteplici, per descrivere un fenomeno che spesso è stato ridotto al concetto di “spontaneo”.
Nella storia dell’architettura tale aggettivo è stato più volte usato per indicare un linguaggio non accademico, una serie di opere apparentemente povere, legate a contesti locali, costruite con materiali del luogo e tecniche tradizionali.
Il fatto che spesso si sia parlato di architettura spontanea come sinonimo di architettura povera è senz’altro un atteggiamento per delegittimare le opere non riconducibili ad un preciso progettista; ciò avviene sovente perché tali forme architettoniche sono frutto di esperienze stratificate nel tempo, legate ad esigenze primarie che vengono svolte e risolte in modo collettivo, non riconducibili ad una corrente, ad una figura nota, ad un autore.
L’architettura vernacolare è definita come l’architettura tipica tradizionale di un determinato luogo, realizzata secondo le esigenze locale, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle e utilizzando prodotti e materie prime locali secondo quello che si ha a disposizione.
L’architettura vernacolare è quindi un modo di costruire attento all’ambiente in cui sorge e alle tradizioni locali, l’aggettivo è una parola latina e compare infatti solo a partire dal XVIII secolo.
Essa non è altro che la pratica del genio locale, che dispone le cose in funzione del territorio su cui si sviluppa e degli abitanti.
Un edificio ideato secondo le tendenze dell’architettura vernacolare segue tre criteri dello sviluppo locale sostenibile (sociale, economico, ambientale) e promuove le attività sociali e professionali all’interno di una identificata area.
Gli immobili sono costruiti servendosi delle risorse disponibili è il vantaggio mira al costruire per essere le più durevoli contro le avversità e le condizioni metereologiche della macroarea in questione.
L’architettura vernacolare partecipa largamente alla rivalorizzazione del patrimonio, iscrivendosi così in un contesto di rispetto dell’ambiente e il clima occupa un posto di rilievo se non il primo a cui mirare, nell’immaginario architettonico, permettendo ad esempio una diminuzione dell’utilizzo di apparati di riscaldamento, mentre il raffrescamento e affidato al sistema murario e dei varchi accesso e controllo delle vie articolate.
Un edificio costruito secondo i principi dell’architettura vernacolare come “un edificio appartenente ad un insieme di costruzioni nate da uno stesso movimento di costruzione o di ricostruzione”, ovvero un insieme di edifici costruiti secondo l’architettura vernacolare è caratteristico non solo dell’epoca durante la quale è stato costruito, ma anche della classe sociale di chi ne ha ordinato la realizzazione.
Fanno parte di questa categoria le Moticellje, le Kalive o Katochi Arbër, di tutta la Regione Storica meridionale, dalla loro origine estrattiva e poi via via sino alla fine del seicento divenute le note case a profferto, i trulli a quadrilatero e dalla copertura conica, costruiti con massi di calcare, provenienti dai campi limitrofi.
Le case della costiera amalfitana e di tutta la costiera campana del tirreno, le case dell’estrema dura spagnola e delle isole del mediterraneo centrale.
Ne capitolo successivo si darà ampio e seguito dettagliato all’argomento, che aprirà un più ampio stato di fatto, per il riconoscimento di alte istituzioni preposte alla tutela della Regione Storica Diffusa degli Arbër e della loro terra di origine, nella grande penisola balcanica del mediterraneo.
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Posted on 27 agosto 2023 by admin
NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se hai capacità di sussurrare agli elevati della Regione Storica con garbo ed educazione, ti risponderanno in lingua Arbër, con racconti di genio locale, così precisi e profondi, sin dove le fondamento poggiano e reggono le cose del nostro Katundë.
A tal proposito va rilevato che l’architettura delle popolazioni rurali, non è stata progettata da architetti o alti designer professionisti, in quanto le comunità, dalle famiglie proprietari si adatta all’ambiente e segue le esigenze della popolazione e del territorio dove è collocata. Per rispondere al caldo dell’estate e il freddo dell’inverno.
In tutto una tipica tradizionale di un determinato luogo, da costruttori locali senza particolari studi alle spalle, utilizzando prodotti e materie prime secondo quello che si ha a disposizione, diventando l’edificato, modo di costruire attento all’ambiente e alle tradizioni locali, che per questo restano preservate.
Ragion per la quale, saperla udire ed avvertite standole non più lontano dal tuo cuore è il modo per conoscere il resto delle cose, e varcare la soglia dove vive la storia.
Potrai udire i riverberi di quanti li elevarono e vi abitarono, in tutto le verità che manca allo scriba di ogni epoca, o quanti, non avendo misura per ascoltare e, comprendere cosa sia realmente accaduto, lungo lo snodarsi delle rughe, dento gli abituri di porte gemellate a mezza aperta; proprio lì dove l’igiene era compito affidata al tetto quando pioveva, gocce che scandivano lo scorrere del tempo e davano ritmo al conversare antico.
Ed è solo così che potrai comprendere ogni cosa se conosci la lingua e tradurre in forma comprensibile ogni cosa, riferita in battiti di cuore.
Con “le verità di luogo” emergono sin anche le giornate dal 12 e culminate il 18 agosto del 1806, con l’eccidio del Vescovo, un continuo riverbero di trame oscure senza soluzione di continuità iniziato nel 1799, con protagonista primo Pasquale Baffi, tutti episodi di una storia violenza, contro la solida credenza, che nel corso dei secoli è rimata incancellabile nella memoria di tutti i cittadini e impressa nei selciati coperti da catrame e cemento di qui luoghi del centro antico.
Cosi come deve essere memoria ogni episodio che ha visto giovani figure tragicamente mancate agli affetti delle famiglie, da quello storico ‘99 ad oggi e, fuori dalle mura natie.
Di questi, ogni nome e ogni cognome lasciamolo al ricordo e il dolore intimo dei familiari che ricorderanno sempre, tuttavia e. siccome si tratta di ragazzi e ragazze, nel mentre si preparavano alle cose della vita come protagonisti primi, sono diventati memoria velata, per la comunità intera, che oggi preferisce ammirare la trama dei veli evidenziai dalla polvere.
Tuttavia e per cancellare dubbi sarebbe opportuno apporre una stele, con su scolpiti cognomi appuntati e nomi estesi, per la memoria storica del Katundë, quella che appartiene ai suoi abitanti, gli stessi in continuo vagare camminano privi della memoria, delle cose, degli uomini e dei luoghi, oggi sempre più calpestati perché, memoria non opportunamente mantenuta con rispettosa lucidità, compresa il grafito primo, davanti alla prospettiva violata della bimba appena concepita Adelina, e mai nata per l’egoismo locale ancora in vita.
Quando avrà termine, egregi e ignari signori il gioco napoletano detto, “delle tre carte”, onnipresenti devoti, che in base alle poste in gioco ora fanno i buoni poi i cattivi e in fine buttano lacrime al fianco dei poveri malcapitati che credevano di vincere, ma il gioco perverso li vuole sempre perdenti.
Le cose della “nostra storia” sono così e nessuno, mai avrà alcun beneficio civile, religioso o politico, perché poi alla fine troverete sempre uno che sa delle vostre lacrime.
Per questo è inutile associare “arche di stelle colorate” senza misura” thë mesj Jonë!!!!!” il quadro che appare non è certo quello che ogni volta speriamo possa esser giusto, tanto voi non siete artisti, perché come la gretina, avete marinato tutte le fasi sella scolarizzazione.
Attività inopportune e, prive di ragione senso e garbo d’essere; voi così………..,…,…..infangate irripetibili momenti di storia del passato locale, senza mai, prendere atto, dello sbigottimento diffuso specie verso gli onnipresenti documentaristi ormai istituzione, che non approvano queste attività di luogo inopportuni.
Ormai non si allestiscono altro che manifestazioni che ritenere, più volte labili è un complimento, per questo, sarete ricordati come barche, in balia degli eventi, privi di orientamento culturale e ogni genere comune di buon senso o garbo.
Appartenere alla categoria che condisce con grasso che cola, dal genio prescelto, lo stesso che arde vivo per comando occulto, rievocate solamente la isterica Ngulia dell’esaltato Frappitta.
A tal proposito sappiate, che distruggere e umiliare anfratti inermi, storia e uomini è un peccato culturale che nessuna penitenza, potrà mai ripulire, dal male che provocate, sarà inutile poi rivoltarvi nei vostri sogni e chiedere perdono, il risveglio vi dara conferma che il male fatto è stata cosa vera e solo il tempo lungo potrà cancellare.
Le figure eccellenti non sono ingredienti per condire storia a vostro piacimento, anche se d’istituto orchestrato. Esse non sono spezie per condire il vostro soffritto che bolle in angoli storici, mentre il fumo e i vapori prodotti, deturpano memoria.
Non sarà utile integrarlo con il macinato naturale di Stango, millantato come frammento genuino del vostro sapere, perché a ragion veduta è solo fumo dei vostri occhi.
Ormai vi resta solo stendere a terra Miletë, Sutaninë, Sutanërasj, Zoghen, Gipuni, Kesë e Shiale di porpora, immaginando che l’esaltar donne moderne, fa notizia di genere ed esalta i luoghi.
Pretendere di sapere cosa voglia dire, nel gergo militare, stendere a terra gli emblemi identitari, già eseguito oltre oceano senza e ancora averne misura dopo cinque decenni della vergogna conferma lo stato della vostra cultura, immaginata in giogatura alta, a tal proposito sappiate che non appartiene a voi ma al popolo che avreste dovuto rappresentare.
Tuttavia, un merito vi appartiene distintivo, ovvero, quello di accogliere tutti gli individui capaci di masticare e spargere odio, separare persone, al solo scopo di reprimere iniziative di cui non avrete mai capacità d’intenti privi di cattiveria seminata lungo le rughe davanti le porte degli sheshi, specie se sono luoghi ameni di memoria buona.
Questo vi rende l’esempio primo, della culturale ormai in fase terminale; tuttavia, la cosa ancor più grave sono le figure che vi illuminano, vi orientano e vi esaltano, le uniche delle quali vi fidate senza prendere atto che, quando si accoppiano con voi conservano aghi spacciati per fare ricamo o rammendo, in realtà attrezzi di magia per accecare l’occhio del cuore e della mente che spargerà gocce di sangue in pena.
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Posted on 08 agosto 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Sancito che la storia non è “un discorso nuovo” come dicono alcuni, ma unico percorso, generalmente realizzato da saggi e, non deve prevalere il principio o spunti del libero diffondere, specie se per opera di quanti, fuggendo dalle nebbie, le miserie e, le turbolenze delle loro confusi natali di origine, esternano sotto forma di favoletta la storia e, ignari sin anche di quanto largamente diffuso della Olivetara Scuola.
A tal fine e per questo, si ritiene necessario editare inserti periodici, come questo in lettura e, suggervi come era uso fare Vincenzo Torelli, il genio editore, di conservarli gli editi periodici, così a fine anno tutte le famiglie consapevoli dello stato delle nostre cose avranno un volumetto dove sono ben annotate la consuetudine, il costume, la religione, l’idioma.
Il fine vuole offrire gratuitamente e senza spesa o rincaro anche al più svagato abitante locale, quando, ispirato a deliziarsi può conoscere la parte più intima del suo luogo natio, acquisendo notizie, comodamente e senza patire, nel dover fare file in archivio o nelle biblioteche di stato, disdegnando le favole o le graffitate locali.
Lo scopo qui perseguito, mira ad informare con dovizia di tempo, cose, uomini e se vi fossero dubbi emersi a riguardo dal presente lavoro, sia giudice e giuria il pubblico imparziale, che alla lettura dei fogli raccolti gratuitamente, leggerà ogni cosa.
Il luogo oggetto di questo breve edito, è uno dei numerosi, fortilizi verso l’entro terra citeriore dello Jonio, nati per garantire la difesa con indigeni locali e alimentare le necessità della “fannullona Sibari” dalla seconda metà dell’8° sec. a.C., identificato e facente parte dei territori di Bisignano con l’appellativo primo, di “Castello”, cui comprendeva anche il loco denominato Terra, il tutto dopo la dismissione della diocesi di Thurio.
Il Katundë come terra di Sofia, fu identificato dopo l’innalzato religioso Bizantino e quelli civili del IX secolo d.C. lungo la via di costa, che da Rosano conduceva a Cosenza e, nei pressi del torrente Galatrella, da soldati Bizantini preposti al controllo del confine lungo il corso del Crati, che li contrapponeva a i longobardi e poi abitato dal XI secolo d.C. dai monachi della grancia cistercense, perché luogo sicura da cui trarre benefici, dalle floride terre a garanzia del cuneo agraria in sicurezza, posto a breve distanza dalle sedi di Luzzi e di San Marco.
Bisogna attendere il XIV secolo per veder gli esuli Arbanon, a cercare misura nuova per insediarsi, presumibilmente il pomeriggio del 7 settembre del 1471, questi giunti nel loco oggi nota come “Sheshi Ka Arvomi”, prima accesero un grande fuoco e poi si sedettero attorno per decidere chi si sarebbero fraternamente così organizzati: un gruppo si posiziono in località pedalati e zone limitrofe e l’altro rimase insediando in quei pressi dove esisteva la chiesa e un vecchio insediamento abitativo denominato ancora oggi “Ka rin rellëth”; il tutto appellato Terra di Sofia.
Il Katundë, così articolato, non ha mai avuto la connotazione di Borgo o di luogo in difesa murato e, dopo le vicende precedenti dal IX sino Al XV secolo, è stato organizzato dagli Arbanon secondo disposizioni di strategica convivenza.
Allo scopo furono realizzati qui in Terra di Sofia, come in tutti gli altri siti di radice Arbanon, quattro punti strategici di comune convivenza, e qui in particolar modo si articolarono ancor di più, con l’unione dei due gruppi divisi inizialmente e unitisi nel 1535, in un continuo edilizio nell’arco naturale che va dal luogo degli eroi sino fianco est del Torrente del Duca e alla connotazione originaria così suddivisa e composta:
Prima con attività estrattive di residenza e poi sempre più energicamente con lo scorrere dei decenni, a un fitto tessuto di vichi, fondaci, vanelle, botteghe e case, un «labirinto», senza edifici pubblici o monastici in quella parte di territorio noto come, rione di approdo.
Il Katundë dopo il 1535 divenne ancora più ricco quando tutti gli Arbanon si unirono per dare vita al tessuto odierno, apparentemente caotico, ma per la posizione e le modalità di sviluppo teneva conto della difesa non in forma muraria, giacché affidava allo stesso sistema edilizio di ispirazione orientale/bizantina, risultato delle influenze note agli esuli perché tipiche dall’Oriente dal Mediterraneo più estremo.
All’interno della maglia edilizia e viaria dell’Iunctura Arbanon, i vicoli ciechi, segnano, la privatizzazione di un ben identificato contesto di famiglie, legate da vincoli di parentela, anche con i residenti in contiguità abitativa.
I fondaci, diversamente, erano per questo comparti abitativo/commerciali espressione di attività generata direttamente dal luogo, ove era uso attivarsi in compiti di apparente confusione, senza riposo sino al compimento dell’impegno giornaliero assunto.
Nelle attività di sviluppo degli Sheshi, sorgono case con orti, giardini, in tutto, spiazzi terrazzati, anche in forma di orto botanico, riproducendo in miniatura tipologie rurale, generalmente affiancati o disposti nei pressi elevati di riferimento civili e religiosi.
Correva il 1595, quando fu eretto il convitto estivo del vescovo do Bisignano, quasi sempre seguito da un folto gruppo di seminaristi, noto in paese come palazzo Arcivescovile, nel Katundë inizia una nuova svolta culturale ed economica.
La residenza Vescovile nasce perché, luogo sicuro e climaticamente favorevole al vivere in solitaria preghiera, specie in quell’epoca che vedeva minati gli equilibri sanitari e, un luogo isolato con una buona esposizione climatica dava modo per sentirsi più a lungo e in vita alle cose della chiesa romana.
Con il peggiorare delle vicende naturali e indotte, quali, carestie, terremoti e pestilenze, l’abitato si isola dalle vie di transito e confronto, subendo un decadimento demografico ed economico a dir poco notevole, il non confronto produttivo tra famiglie.
Le oscure vicende subiscono un rilancio intorno alla metà del XVII secolo, quando terminata la paura da pandemia, in Terra di Sofia e negli ambiti di pertinenza, dove comunque la malaria non aveva mai attecchito in maniera devastante-
Tuttavia, lo scenario che si presentava, non lasciava presagire uno stato economico fiorente, specie nelle attività agresti, in abbandono per non dire allo stato terminale.
Bisogna attendere la seconda metà del XVII secolo quando le autorità preposte, al fine di risollevare l’economia, distribuivano seminativi, per riavviare la filiera produttiva agro, silvo e pastorale, e i loro derivati, ormai senza domani e non certo per “rotazione triennale”.
Commenti disabilitati su DALLA “SCUOLA” DI PALAZZO GRAVINA GERMOGLIANO LE NOZIONI PRIME DEL MIO NATIO KATUNDË (rrgheth i motith cë shëcii haret cë chemj soth phër mendh i menatveth)
Posted on 05 agosto 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La Facoltà di Architettura dell’Università Federico II, ha la sua sede storica in Palazzo Gravina di Napoli, è proprio qui in questo anfratto partenopeo, dove un tempo si estendevano le proprietà della basilica di Santa Chiara, nasce la prima indagine del “Genius Loci Arbanon” e, la storia del ricercatore Arbanon per i nuovi stati di fatto mai indagati.
È in questo elevato, grazie a eccellenti maestri di antica radice, i soli in grado di tramandare, tasselli essenziali ed irripetibili, per la tutela del costruito storico, agli allievi, migliori perché mai distratti.
Tramandando un modello di comportamento nell’indagare, in prima analisi generale, poi di confronto degli elementi finiti, in seguito connettere e articolare per costruire la tessitura più solida per sostenere il progetto, con sostanze del passato, del presente, a garanzia dell’isostatico futuro.
Sino a quando avremo ancora vivo il “solitario ceppo con le radici profonde”, è confermata la speranza che si possano innestare i germogli citati e, ottenere fusto, rami, fiori e frutti, di solida essenza Olivetara.
Oggi restano vive le nozioni riverberatesi nel cortile di Palazzo Gravina, che coprivano sin anche il riecheggiare di fastidiosi suonatori senza voglia di studiare, diversamente da quanti restavano irremovibili e attenti alle lezioni in corso.
Solo questi acquisirono i principi antichi, poi riversati anche nelle trame del costruito storico dei Kalabanon, Arbërj e Arbanon, dallo scrivente sempre vigile e presente, perché la scelta era stata per passione.
Sono queste nozioni solide e inossidabili, in seguito poste a germoglio buono, grazie ai casati cattedratici dell’eccellenza partenopea, quali: Alisio, Bove, Bisogni, Cantone, Capobianco, Cardarelli, Casiello, Cocchia, Distefano, De Felice, De Fez, De Seta, Fusco, Giura, Renna, Rubino, Vitale e altri, tutti Professori appartenenti, all’olimpo della ricerca, e tutti assieme sapevano far distinguere e dare valore al costruito storico, fedele al luogo naturale e utile agli uomini.
E un loro allievo con questo bagaglio di sapere, per l’attività svolta, ha iniziato innestare, i germogli conservati nello scrigno, della Regione storica diffusa degli Arbër, che non sono espressione di lamento in lingua altra, ma principi di azioni, fondamentali per tramandare le cose di tutti gli Arbër, ovvero di quanti, vissero serenamente con sacrificio e dedizione.
Se non fosse stato per questi grandi maestri della “SCUOLA” di Palazzo Gravina e, i principi di studio per il buon progetto di tutela, in campo di indagine storica, opera prima di tempo e genio locale, dal 1977 al 1982, seguito dal tirocinio nelle botteghe dei citati maestri/e, (imposti per risparmiare danaro a favore di germanici), oggi gli Arbër non avrebbero avuto chi potrebbe innestasse, molto più di una “lingua altra”.
Per questo la ricerca in lingua altra va caricata a dorso d’asino e portati nelle stalle dei mittenti perché prive di criteri del continuo, con aggiunte stilistiche, demolizioni di edifici per fini veicolabili o falsi valori ambientali anche modesti.
Per non parlare del “diradamento” o “isolamento” dei monumentali, attuati con violentando il tessuto edilizio, con le appariscenti coloriture romaniche, di superfici e infissi, delle antiche prospettive, per questo si affermano gli interventi di risanamento conservativo, basati su una preliminare profonda valutazione di carattere storico-critico, essenzialmente consistere in:
Tutto questo, come definito nelle attività della carta di Gubbio, do si ravvisava, già da allora la necessità della valutazione storico-critica, secondo omogeneità di giudizi, affidata ad una commissione di alto livello formativo, da affidare ai professionisti qualificati, in tutto per avere stretta connessione con la commissione regionale dei Piani Regolatori, distribuendo così uniformità di intervento.
Tutto questo per liberare il territorio da interpretazioni di funzionari acerbi e senza, capacità intuito e vedute ambientali in continuità con la storia dei luoghi
Ma ce di più e, lascia a dir poco perplessi gli studiosi, sono, le lacune di innesto moderno tramandate di generazione in generazione, le quali invece di sollevare indignazione diffusa, sono vanto folclorico, scambiata per eccellenza locale, in fine esposte come architettura parlante di una non meglio identificata arte.
Infatti il popolo più longevo del vecchio continente, distintosi per millenni per le solide attitudini identitarie, non è concepibili sintetizzarlo al mero dell’abuso edilizio come esercizio, o nella compilazione alfabetica, quando basterebbe guardarsi dento e scoprire, un codice alfanumerico, ripetuto perennemente dai battiti del cuore e memorizzato nella mente, di chi nasce Arbanon.
Sono i luminari, di cultura che dalle cattedre di Palazzo Gravina, hanno seminato perle di saggezza e, tutte assieme contribuiscono oggi a leggere, l’Ambiente naturale dei Katundë, secondo lo scorrere lento della storia di ieri, di oggi e dei domani.
È da Palazzo Gravina che parte, per la prima volta, un nuovo stato di fatto per leggere con attività di studio, pluri temi, i trascorsi e le eccellenze della popolazione Arbanon, particolarmente, partecipi, alla storia del mediterraneo, senza mai smarrire la consuetudine murata dai cuori e le menti dei suoi figli.
Sono sempre loro a non temere il tempo, tramandando la fede della promessa data, il genio seminato negli ambiti attraversati, bonificati per poi essere vissuti, in fraterna vicinanza con gli indigeni.
Parlare evidenziando, storia, fatti, cose tangibili e intangibili, oltre al genio locale degli Arbanon, non è cosa semplice e alla portata di comuni figure o esperti mai emigrati fuori dall’orto botanico familiare.
Onde evitare ciò, è bene precisare che prima di ogni altra cosa, è opportuno essere cresciuti all’interna di una famiglia di radice Arbanon e, per affermare sé stessi e la propria discendenza, deve aver vissuto di suoni, sudori e conquiste, ottenute, ascoltando dai tempi delle fasce, la zappa che sfrega sulla terra, quando era il momento di seminare, mentre in fasce, si cresceva sotto l’ombra degli ulivi o tra i filari delle viti.
Se questi suoni prodotti dal metallo quando separa la terra, non sono stati ascoltati, assieme al crepitio delle radici che si facevano la strada per germogliare; è il caso di fare altro, evitando così di allestire alfabetari per danno.
Scrivere la storia con protagonisti luoghi cose e uomini delle terre della penisola italiana, dalla parte meridionale, in continua allerta mussulmana, non può esimersi dal parlare di popoli alla ricerca di luoghi per fare famiglia, in tutto l’ambito ideale per vivere e progredire in simbiosi con la natura, quella più mite del mediterraneo.
L’elenco di queste genti in perenne movimento, pone in evidenza proprio gli Arbanon, nati non per reprimere, sottomettere o conquistare le terre di altri simili, ma l’esclusivo piacere di avere il privilegio di essere presenti e poter vedere sorgere, illuminare e tramontare, il sole più buono le terre più miti per l’uomo.
Di questa popolazione e sono molteplici, in questo breve, si vogliono esporre le cose e i fatti che hanno visto protagonista la minoranza indoeuropea più radicata del vecchio continente, ovvero gli Arbër, gli stessi ad aver vissuto le terre dei Balcani prospicenti l’Adriatico e confinanti con i Greci.
In tutto, essi sono i discendenti primi dalla frammentazione dell’originario popolo protoindoeuropeo, imparentati dal condividere, oltre al patrimonio linguistico, anche numerosi tratti sociopolitici, religiosi e culturali.
Costituiscono per questo la parte più genuina dei popoli d’Europa, storicamente fedeli al principio di non sovrapporsi ad altre genti e, né avere privilegi o incutere soprusi contro quanti già presenti.
Essi amano gli ambiti naturali per depositarvi la propria arte, la consuetudine, la credenza e tutte le cose genuine, perché genti di una fioritura comune, inclini a sostenere la natura del luogo e la propria specie.
È noto un principio, secondo il quale, bisogna avere il coraggio per essere critici costruttivi verso le cose che si amano, solo così si diventa guida, via maestra, cammino sicuro per le nuove generazioni.
Chi è legato alla storia dei luoghi natii o di adozione, non deve esimersi da questo obbligo, specie se l’argomento tratta delle eccellenti figure, la complessità dei sanciti che definisce gli elevati storici, il patto per il mutuo soccorso, espressi e ripetuti a torto dai fascicolatori seriali, che fanno “la coda” perché frequentano gli archivi.
Per iniziare e parlare degli accadimenti centrali, il punto di partenza degli oltre cento agglomerati urbani, non può che essere il XIII° secolo.
E’ ad iniziare questo intervallo che si dispongono e si sviluppano gli agglomerati urbani e, prendono forma le macro aree secondo parallelismi, di memoria importata dalla terra di origine.
Iniziare è opportuno avviare lo studio con l’analizzare la città di Napoli, notoriamente nota per l’impianto greco romano, senza poi mai continuare ad approfondire la regolarità del cielo, la terra da quello che non appare.
In altre parole gli ordini popolani allocati tra la via Furcillense e il mare, la strada che in maniera a dir poco edificante viene banalmente definita Spaccanapoli.
In definitiva un’impinto urbano con la radice greca a cui sono state sovrapposte nelle varie epoche modelli romani, in continua evoluzione di forma dalla collina di Caponapoli sino alla Furcillense e poi da questa nel costone sino al mare con temi arabo bizantini.
Un banco tufaceo ricoperto da una coltre di lapilli puteolani e vesuviani, stratificazioni databili secondo le eruzioni vulcaniche, che le popolazioni subivano con caparbia devozione ricostruivano i mutevoli scenari in elevato.
Allo stato mancando precise notizie attribuite alla introduzione del culto religioso in Grecia, è da supporre che le colonie delle diverse nazioni si stabilirono in comune accordo, avessero ciascuna le Guida e le cerimonie religiose del proprio paese, di modo che venisse col tempo a creare un sistema distribuito, secondo cui le varie parti di memoria, in: Celesti, Terrestri, ed Infernali:
i primi si chiamavano (Epurami), abitatori del Cielo, (Athanati) immortali;
i secondi, abitatori della terra, (Eroes) Eroi;
gli ultimi, sotterranei i terminati (Limès) Frontiera.
Una volta riconosciuta e individuata la progressione medesima, si calcolavano le porzioni territoriali, adibiti a credenza, radice, difesa, sostenibilità.
Dopo questa breve premessa, indispensabile a definisce il centro antico dell’originario sito, da cui estrapolare elementi utili per comprendere quali siano state le direttrici di sviluppo, successivi all’originario impianto greco a cui ebbero seguito disposizioni romane, bizantine o egizie/arabe, senza mai sfuggire al vigile controllo, delle due Aquile bicipiti che dominano e definiscono tutti i confini.
Due aquile che guardano a Nord e a Sud, limitando l’Est e l’Ovest, col il proprio corpo orgogliosamente esposto nei punti strategici pronti a generare stradioti.
Partendo dalle tre direttrici storiche che seguendo il sole da est a ovest, organizzano la citta di primo insediamento con i regolarissimi cardini, che se pur detti di matrice romana erano organizzati secondo consuetudini greche.
I tre decumani che rappresentano i solstizi dell’anno solare, originariamente raccontavano lo sviluppo del centro antico ovvero, la Strada della Somma Piazza, il superiore; la strada del Sole e della Luna il centrale e La via Furcillense l’inferiore, tre decumani, storicamente presenti a definire e dividere i dettami del Cielo della Terra e del Termine.
Tre limes che dividono citta la parte Greca, dalla Romana, da quella inferiore, dopo la Furcillense sino al mare, di estrazione rispettivamente Bizantina, Alessandrina e Araba.
E lo studio di queste epoche Partenopee, che riversata nelle macro aree delle sette regioni del meridione uniformano, l’edificato urbano dei cento Katundë Arbër, compreso la capitale Napoli.
Commenti disabilitati su È IL TURNO DELLA “SCUOLA” DI PALAZZO GRAVINA E, DELL’ALLIEVO DI LUNGO CORSO ARBËR (Arrëvoj moti i zhotjtë thë nghëruiturat me krje Arbër)
Posted on 03 agosto 2023 by admin
NAPOLI /di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Alla luce delle attività in “Carmina Convivalia”, ad opera dalle istituzioni preposte, ad Est e ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio, con il fine di valorizzare e promuovere, le cose tangibili ed intangibili dei luoghi attraversati, bonificati, per essere vissuti in Arbër.
Si ritiene urgente proporre, a tal proposito onde peggiorare le cose, un supporto storico, scientifico, linguistico, consuetudinari, toponomastico, architettonico, agrario, sartoriale, architettonico, urbanistico, dei trascorsi più rappresentativi, con figure di eccellenza albanofona, illustrando cosa sia realtà e cosa leggenda, in ruolo fondamentale e determinante, di questo popolo.
Sono ormai troppe le epoche secondo le quali ha valore di eccellenza Arbër solo chi si è adoperato a scrive inseguendo gli innumerevoli ed inadatti alfabetari, come indicato da Norman Douglas, il quale con ironia si prendeva gioco degli scriba, che usavano l’inchiostro versato da altri.
Questi imprestatori d’inchiostro, allora come oggi, invece di valorizzare il genio primo, di: Editorialisti, Giuristi, Ingegneri, Politici, Bibliotecari, Ricercatori, Eroi di accoglienza sociale/culturale e ogni sorta, di figura che per la sua formazione culturale ha dato alla nazione ospitante luce, riverberatasi in tutto il vecchio continente, si ostinano allora come oggi a copiare greco.
È arrivato o meglio giunto il temine, di iniziare, per dare valore e merito, a quanti in ogni intervallo storico, hanno dato forza trainate al mondo Arbër e non solo, per questo, rimanere ancorati a vetusti stereotipi, vuoti di senso, oltretutto, immaginando, che parlare in lingua altra, fa la differenza con il mondo indigeno è una favola che non interessa ormai più a nessuno, specie alla nascente cultura Albanese.
Allo stato delle cose, per dare un contributo, fondamentale e aprire nuovi orizzonti dei trascorsi storici, degli oltre cento paesi della Regione Storico/Ambientale Arbër, sparsa in sette regioni, raggruppata in ventuno macro aree omogenee, onde evitare ideologiche, inopportune e infondate attività di tutela, apriamo nuovi stati di fatto, perché è tempo di mettere in luce i veri accadimenti della storia di questo popolo.
La minoranza, per questo non va considerata come giullaresco esperimento di figure che ballano cantano e suonano vestite strane e null’altro; giacche essa rappresenta uno scrigno dorato molto vasto e capiente, fatto di un codice identitario composto da promesse mantenute, intelligenza, garbo, valori sociali, valori religiosi e più di ogni altra cosa genio, quello indispensabile a produrre cose buone, con il poco offerto dalla natura.
Tutto questo non lo si può raccontare con il dare vita a un Katundë, con inopportuni, protocolli identitari, che iniziano e finiscono nell’atto di raffigurare episodi di vita indigena, sporcando intonaci, porte e gemellandole con le intime prospettive o rievocando guerre cruenti il giorno di una Pasqua irreale.
Come se la storia degli Arbër, non avesse eccellenze e regole identitarie di nobili principi e, se ignari preposti, non possiedono misura metodi di conoscenza, vanno redarguiti e informati, perché da troppo tempo avanzano “vale vale” equivocando sui trascorsi di accoglienza e integrazione e, se continuano ad avanzare imperterriti e ostinati a contare il numero delle migrazioni come se fossero la domenica dopo il sabato, non è certo un bel vedere.
Alla luce di tutto ciò, si rende disponibile produrre e rendere merito con documenti e protocolli identitari per quanto ancora ignorato dai dispensatori di piazza, in tutto, contribuire alla stesura di Tesi di Laurea, excursus storici dei Katundë e dl loro stanziamento, le disposizioni tipiche in pubblico confronto con quanti ambiscono e vogliono allargare l’unitiva conoscenza formativa, di tutela e resilienza, di tutto il sistema storico Arbanon compresa la Napoli Capitale,
Alla luce di ciò i temi di progetto, seguiranno il seguente Piano, rispettando cose, fatti, terre, presidi uomini e credenze;
Posted on 25 luglio 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – La verità che va subito svelata è il concetto Università in origine appellata “Scuola”, che nel corso dei secoli e dalla sua origine ha assunto una organizzazione gerarchica secondo cui non si riferisce di “Scuola” ma “Scuole”.
Infatti un maestro abbastanza bravo che aveva un seguito di allievi, inclini ad avere particolari attitudini a, seguire, studiare e conoscere, le vie del sapere, erano accolti a casa del maestro; cosi ha inizio la radice, dell’università sino ai giorni nostri, per quanti le frequentano con lo spirito antico di conoscenza.
Nel caso in questione, di terra di Sofia, si può ipotizzare che il gruppo di studio locale era diretta da un prelato o più prelati a casa propria, dove svolgevano questa attività, anche fuori i canali prettamente clericali.
Per datare inizio all’avvenuto continuo, senza soluzione di continuità alla formazione di quanti vivevano questo luogo, si può ipotizza che tutto avvenne, dopo la costruzione del Palazzo Arcivescovile, il palazzo delegato alla residenza estiva degli allievi monastici del vescovato di Bisignano; siamo alla fine del XVI secolo esattamente il 1595.
Qui i rampolli delle famiglie che riuscirono a formare un proprio figlio, facendolo rientrare nei gruppi o “capannelli universitari privati” le stesse che in questi anfratti, senza soluzione di continuità, elevano figure in ogni epoca.
Le stesse che oggi rimangono come pietre miliari di una scuola all’interno della comunità albanofona, ancora senza pari, in numero e di elevata cultura e conoscenza della storia.
Nel corso dei secoli a seguire le case dei Bugliari, Baffi/a, Feriolo, Miracco, Becci di sopra e dei Pizzi, divennero veri e propri poli universitari, dove i figli delle famiglie, pieni di volontà di apprendere, ebbero modo di formarsi e divenire esempio irripetibile per tutta la Regione storica diffusa degli Arbëreshë.
Non a caso, furono proprio questi, una volta inseritisi nella società di pensiero, a far brillare i “presidi universitari locali in terra di Sofia” alla luce dei fatti e, avendo modo di concertare l’allargamento il numero degli allievi del Collegio Corsini, trasferendolo in sant’Adriano, luogo ideale citeriore, per liberali prospettive sociali, caratterizzando la formazione in libero pensiero e difesa della propria radice identitaria, sociale, civile e religiosa.
Tuttavia dopo un medio periodo di lume, ha iniziato una china senza tempo e nonostante alcuni esempi siano sfuggiti alla deriva culturale verso il basso, il luogo di terra di Sofia, conserva tutti gli ingredienti e le cose per diventare cosa fu nel passato e, quanta spinta ha dato all’unita d’Italia e di tutte le sue cose più buone.
Purtroppo da ventotto febbraio del 1986, vige un comando una legge o meglio un gruppo di lavoro sotterraneo, ambiguo e senza scrupoli, che predilige far frequentare i “Presidi universitari locali in Terra di Sofia”, cercando a sottrarre braccia ai cunei agrari, scacciando dagli ambiti del centro antico quanti hanno cuore, mente e vedute larghe, per valorizzarla in senso assoluto.
Il risultato è steso, continuamente e senza ritegno, al sole “the kopshëti pà gardë” svelando il sudore in sangue, del genio, apponendo, elementi utili a distrarre, le prospettive di ascolto e visone, verso altrui segni distintivi di luogo, ormai ripetuto affanno operare dei peggiori; tuttavia il luogo ameno, rimane e vanta d’essere nato e per lungo tempo, luogo di prima scuola universitaria Arbër in terra citeriore.
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Posted on 19 luglio 2023 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Nel mentre l’ANSA da ROMA, rilancia che, un altro turista, è stato denunciato dai Carabinieri del Comando di Piazza Venezia per aver deturpato il Colosseo, denunciando e sanzionando amministrativamente il turista sorpreso mentre grattava, deteriorando una parte del laterizio scalfendo le iniziali del suo nome; di contro succede che, in altri ambiti tutelati dalla legge 482 del 1999, si fa gran uso di pitture acriliche, pennellate, bombolette e chissà quali altri scalpelli e scalpellini, utilizzati a perimetrare, inconsuete attività e, deturpare porte, prospettive o monumenti di memoria storica dell’illuminismo, che se paragonata ai recenti attentati di concertazione illegale, parlerebbe la memoria alle stragi autostradali e abitativi del secolo scorso e, per non coler esagerare, arrivare a parallelismi in eccidi politici di eccellenza; bene immaginate se questi ambiti oggi venissero ricordati ad opera di comuni artisti senza alcuna formazione o nozione culturale, e i luoghi di appellino Capaci, Via D’Amelio e ………, da riattare.
Dal punto di vista della tutela storica e urbanistica, alcuni luoghi non hanno bisogno di leggi specifiche, ma solo di buon senso civico è, rivolgere solo attenzioni, quando i luoghi sono memoria di centri antichi, centri storici o di storiche vie, memoria di noi tutti, altrimenti è segno che il termine non fa più da Limes.
Nell’Art. 9 della Costituzione Italiana è sancito, a norma di legge lo sviluppo della cultura, la ricerca scientifica e tecnica, per rispettare con dovizia di particolari le cose del passato.
Tutelare il paesaggio e il patrimonio storico/artistico, tutte le cose che fanno parte dei valori locali della Nazione.
In oltre, nella legge sono rivolte particolari attenzioni all’ambiente, la biodiversità gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni titolate a conoscere il senso del bene trasmesso.
La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela delle cose, l’ambiente naturale, quello costruito e gli ambiti di carattere identificativo e, gli animali.
Come tutelare il patrimonio storico? È una prerogativa basata sulla conoscenza e il rispetto che si ha per le cose al fine di conservare il patrimonio culturale, assicurando mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.
Per prevenzione si intende il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto.
Un Complesso di azioni intese a proteggere il patrimonio, impedendo che possa degradarsi nella sua struttura fisica e nel suo contenuto culturale, per questo prodigarsi a garantirne la conservazione per consegnarlo inalterato alla posterità.
In questo articolo si riporta la definizione di centro storico e centro antico, esprimendo quale possa essere una definizione “embrionale” di centro, spalleggiato tra la L. 1497/39, e la Legge ponte n. 765/67.
Diversamente dalle aree libere sono inedificabili fino all’approvazione del piano regolatore generale; L. 1497/39 art. 1 c.3: i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale; Diciamo che la necessità di tutelare e diversificare la disciplina di queste zone si è affermata sempre più, diventando prioritaria a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando ormai si era praticamente conclusa quella stagione di trasformazione edilizia che non ha guardato in faccia a niente e nessuno.
Furono infatti emanate norme sempre più rivolte al recupero del patrimonio esistente, vedasi la L. 457/78 e la L. 179/1992.
Speculazione e abusivismo edilizio continuarono il loro corso, e fu così che per arginarne gli effetti si rese necessario emanare alcune leggi particolarmente rigide come la L. 431/85, meglio nota come Legge Galasso.
Nella stessa L. 431/1985 fu statuito espressamente che tale estensione del vincolo non si applicasse a: Comuni provvisti di PRG: nelle zone A e B e – limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione – alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del D.M. 1444/68; Comuni sprovvisti di tali strumenti: ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865.
Il vero problema non nasce per i vincoli di natura paesaggistica (Parte III del Codice), bensì i vincoli di natura di beni culturali (Parte II del Codice).
Infatti secondo il D.Lgs. 42/2004 si devono considerare tutelati fino a quando non intervenga una espressa verifica di interesse in senso contrario, che spesso risulta compiuta in fase di redazione o variante generale di uno strumento urbanistico comunale (Piano Regolatore).
Allo scopo si fa riferimento a spazi pubblici, quali vie, piazze, vicoli e le relative prospettive, dove prevale una sostanziale coerenza coi vincoli “tipici e paesaggistici”.
A quanto pare il Codice dei Beni Culturali D. Lgs. 42/2004 ha rinvigorito la valenza culturale di questi spazi pubblici, e lo ha fatto, ai sensi del comma 1 e del comma 4, lettera g), dell’articolo 10 del Codice stesso.
Stiamo parlando della parte II del Codice, cioè quella impropriamente detta per gli immobili vincolati “alle Belle Arti”. Più correttamente si deve dire dei beni culturali, da tenere distinta dalla parte III dei vincoli paesaggistici.
Rinvio ad apposito approfondimento e consigli trattandosi di aree ad alto valore e pregio storico identitario, di bellezza e architettura irripetibile, diviene necessario verificare la presenza di vincoli di ogni tipo, su immobili situati in centro storico e assimilati da normative regionali o strumenti urbanistici comunali che ne tutelino anche il valore ambientale.
P.S. Ascoltate e se avete saggezza residua traducete, capirete il senso delle cose:
https://www.youtube.com/watch?v=kmggw1sM9rY
https://www.youtube.com/watch?v=dcjec7WZ41s
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