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VOI LE VOCI ALTRE; IO TESORO METRICO CANTO FAVOLE E GENIO ARBËR

VOI LE VOCI ALTRE; IO TESORO METRICO CANTO FAVOLE E GENIO ARBËR

Posted on 29 novembre 2023 by admin

turisti-napoli-2-5NAPOLI di (Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Considerando che nella legge di tutela delle minoranze storiche, n.482 del 15 dicembre 1999, siano menzionati e applicati solo i temi dell’articolo 3 e 6, della Costituzione Italiana, non è chiaro se deliberatamente o per inesperienza dei delegati, del lungo periodo, di stipula o compilazione dirsi voglia.

Nell’aggiunge il menzionato contenuto nell’art. 9, ovvero la tutela delle cose materiali ed immateriali, oltre l’ambiente naturale, scelto dalle minoranze per insediarsi, lascia più di un dubbio sulla formazione di quanti compilarono quella legge.

Va qui precisato che nell’articolo secondo, di detta legge, si tutela assieme ad altre minoranze in Italia, correttamente specificate,  “l’Albanese” che è una ben identificata e moderna nazione europea, non si comprende come possa essere interessata.

E non certo gli antichi ambiti diffusi del meridione italiano dove si parla l’antica lingua Arbën o Arbër dirsi voglia, ovvero la regione storica diffusa con 109 paesi più Napoli capitale, dove non tutti i Katundë, sono riconosciuti tali, preferendo pero, nella legge indicare, l’Albania moderna intera.

Questo denota la singolare commissione che ne definì le linee generali, immaginando, le minoranze dell’Albania, come una mera rruha, in componimento solitario di pietre calcaree, d’oltre adriatico senza agglomerato cementizio e sabbie drenanti.

La misura terapeutica o dicta diffusi dell’idioma, poi applicato, allertando i provetti pensatori, fu il Decreto del Presidente Repubblica n. 345 art. 1 comma 3 del 2001; che innesca una fiammella di consapevolezza, degli ambiti abitati, tuttavia, in senso generico, generale o addirittura blando dei luoghi, i costumi e le consuetudini che trovarono la culla ideali nel costruito.

Allo scopo e per questo si ritiene indispensabile, urgente e non più prorogabile, esaminare cosa sia utile fare ai fini della conservazione dei centri di lingua minoritaria, per conservare, valorizzare e tutelare anche il costruito storico.

La forma di genio locale diffuso, con particolare attenzione rivolta a tutta la Regione storica Arbëreshë, e non dei pochi paesi parlanti, avendo consapevolezza del fenomeno parallelo, portato nel cuore e nella mente colmi di concetti e valori avvertiti, puntando la detta legge a fenomeni del genio, mai concertati con decenza verso argomenti del costruito.

Poi se si pronunciano discorsi a dir poco pericolosi o ingiuriosi, verso i multi disciplinati, che mirano a tutelare l’intero patrimonio, a cui si prospetta la Furcillense via, in pena decisa dai delegati di inutili e impropri istituti, è la prova evidente che i cultori economici, mirano al fare sterminio culturale di massa.

Delle oltre venti macro aree abitative sparse in tutto il meridione, ad oggi, pochi risultano essere abbandonati, in diversi si rileva la perdita di memoria, altri in via di commercializzazione e la rimanente parte, la più consistente, deturpata perché mai tutelata con dovizia e attenzione storica, dall’articolo 9 della Costituzione Italiana, perché non certificati al pari dei monumenti perché non titolati da nomi eccellenti.

Gli identici ambiti minoritari ripetuti, senza soluzione di continuità che dal dopo guerra, s’incutono gravi danni, all’ambiente naturale e del costruito storico vernacolare.

Onde evitare che si ripetano episodi con enunciazioni simili: Tranquilli vi ricostruiremo un paese Arbëreshë con la Gjitonia dentro; si apre questa diplomatica, affinché, menzogne culturali di bassa levatura, non trovino più una tana dove proliferano ratti, delle questioni culturali e dell’architettura storica dei Katundë.

Ad oggi e ben accolta o accettata l’esistenza di analisi monografiche in temi generi rivolti a questi centri, a dir poco gratuiti, sempre condotta da non titolati, e cosa più grave, da indigeni non parlanti, a questo punto è il caso di iniziare a dare risposte solide e senza labilità, ed avere particolari storico/linguistici, per leggere la sovrapposizione delle cose in relazione all’epoca e ai tempi vernacolari.

Un’indagine rivolta al costruito storico, la culla del parlato, delle consuetudini del canto e delle favole dove la regina del fuoco, verificava costantemente il calore idoneo per le cose della casa e della chiesa, supportato dalla mitigazione dell’ambito territoriale parallelo, che mira all’analisi di sovrapposizione delle forme e dei materiali.

Gli stessi con cui e su cui si presenta il fenomeno del costruito complesso o articolato, oltre all’operare sulla consistenza materica che compone case, isolati, palazzi, vichi, supportici e piazze, le reali priorità in via di analisi e definizione da un gruppo di lavoro multi tecnico e disciplinare.

La complessità del tema ha richiesto approfondimenti in campo materico, sociologico, economico e legislativo, condotti nella consapevolezza che, nonostante l’intervento sul bene considerato, richiede il contestuale operare di tecnici con competenze specifiche e, solo il possessore di una formazione conservativa può esaminarne con piena coscienza la problematica a seguito della quali sarà proposta una relazione storica dettagliata del manufatto o delle insule.

Quanto esaminato e la comparazione di numerosi centri di simili origini ha consentito di individuare valori e significati del costruito, secondo le modalità importate dalla terra di origine, trasmissione avvenuta per esclusiva forma orale, dopo aver riconosciuto le tracce di una profonda cultura vernacolare nelle orografie, i luoghi, oltre le stratificazioni degli edifici realizzati con tecniche semplici e povertà di materiali.

Dalle analisi è emerso che le tipologie, del primo periodo di insediamento degli esuli, erano una forma rudimentale di rifugio estrattivo e una volta stipulati gli atti di sottomissione, e la possibilità di lasciti alla discendenza, sono seguiti le attività additive degli elevati abitativi, come in molti casi ancora appaiono.

Allo scopo in primo luogo è stato identificato, con un approccio deduttivo, individuare l’oggetto di studio: partendo da analisi a carattere generale sui centri storici si è gradualmente ristretto il campo sul centro antico, primo componimento additivo e individuato quest’ultimo, si è gradualmente allargato il campo alla definizione dei rioni diffusi o lineari tipici di questi ambiti.

Le cose emerse in senso sociale, materiale e immateriale, comparate con i centri indigeni di eguale epoca, ancora abitati, oltre a quelli delocalizzati, per eventi naturali o indotti dall’uomo, hanno definito un campo d’indagine, da cui sono emerse numerose differenze.

Allo scopo segue l’evoluzione dei concetti di “centro antico e centro storico”, espresso dalla letteratura specialistica, dai temi in Documenti, Convenzioni e sin anche forme compilate in Raccomandazioni Congressuali.

Consapevoli dei rischi insiti, nello schema di rigidi assiomi, si è proceduto, sia per i centri minori che per quelli abbandonati, al fine di privilegiare, una definizione unica, ritenendo opportuno far emergere quelle caratteristiche che concorrono con maggiore obiettività l’identificato storico, lo stesso che continua ad essere ignorato da diverse istituzioni preposte, ma che non possono essere recepite da non addetti ai lavori, che minacciano Furcillense.

È emerso che un centro minore si sviluppa attraverso coordinate qualitative, riferibili ad ambiti economici, socio-culturali, funzionali e di Iunctura vernacolare, secondo precorsi caratteri dimensionali, e sociali come nei casi sottoposti ad analisi.

Le seconde, di più immediata lettura, sono la soglia numerica, che, come si vedrà, può risultare estremamente variabile.

L’individuazione di un “centro minore abbandonato” deve invece essere estremamente precisa per la molteplice manifestazione del fenomeno e pertanto, ispirata a parametri afferenti alla sfera percettiva, che in alcuni casi espone solo frammenti, senza forma senso e garbo.

Parallelamente all’operazione di identificazione dell’oggetto di studio si è provveduto, in coerenza al percorso deduttivo premesso, ad approfondire la conoscenza della legislazione nazionale e regionale, mettendone in luce positività e carenze, delineate in altro capitolo dal titolo “Aspetti legislativi”.

Un’attenzione particolare è stata qui riservata alla legge della Regione Campania n. 26 del 18/10/2002, in quanto essa, sebbene non pienamente pertinente, per questo oggetto di sperimentazione applicativa in alcuni centri abbandonati, come riscontrabile nella descrizione dei progetti in corso nei quattro centri campione esaminati, dove non appare mai l’involucro abitati co come primo, ma accennato in diverse forme, come di genio diffuso senza tempo.

Relativamente ai, “centri storici minori abbandonati”, è stato approfondito il tema dell’abbandono, nei suoi caratteri generali, non tralasciando valutazioni di tipo economico e sociologico inerenti alla possibile rinascita dei luoghi, nella consapevolezza, di un non proprio progetto.

Ritenuto che l’operazione di restauro non è da sola in grado di assicurarne la piena riuscita, per questo essa deve essere inserita in una strategia complessa e coordinata, possibilmente concordata per essere comprensoriale e continuativa nel tempo e, non mera parentesi di superfetazioni aggiunte per leggi e trame di capitoli economici.

La complessità del tema ha richiesto, per una più ampia definizione, l’analisi delle tipologie abbandonate, le cause e le reazioni, in conformità della poca dedizione allo spopolamento, operando confronti metodologici e procedurali tra realtà regionali, nazionali ed internazionali.

Sulla base di valutazioni teoriche interessanti i processi di nascita, trasformazione e morte di un centro urbano, si è proceduto a selezionare e studiare alcuni casi di rivitalizzazione attuati nel contesto internazionale.

La lettura delle connotazioni positive e delle ricadute negative riscontrate in queste esperienze è risultata utile per delineare possibili strategie operative di recupero, unitamente ad alcune riflessioni suscitate dalla complessa realtà e dal fascino

dell’abbandono in operatori di differenti settori. Gli aspetti geografici, sociologici, filosofici, economici, urbanistici, geologici ed ambientali risultano di fatto complementari a quelli architettonici e restaurativi. Pertanto si è ritenuto opportuno non trascurare il colloquio interdisciplinare nella conduzione del cammino percorso, indirizzato al perseguimento di un effettivo ed efficace recupero socio-culturale dei centri abbandonati, da attuare con gli strumenti del restauro conservativo.

Queste premesse hanno guidato lo studio del caso campano, argomento centrale del lavoro, illustrato nel quarto capitolo “I centri storici minori abbandonati della Campania”.

Il confronto con una precisa realtà territoriale ha consentito la verifica della varietà tipologica con cui si manifesta il fenomeno indagato, facendo emergere così paralleli di lume della presenza di tanti piccoli nuclei caratterizzati da rilevante ricchezza storica, artistica, architettonica, ambientale, urbanistica e culturale.

Per il censimento dei centri ci si è avvalsi nuovamente di una metodologia deduttiva, esplicitata attraverso progressivi restringimenti del campo di indagine, operati con l’ausilio di fonti statistiche, bibliografiche e cartografiche e facendo ricorso ad interviste telefoniche indirizzate ai responsabili degli uffici tecnici; tutte le informazioni sono state successivamente verificate nel corso di numerosi sopralluoghi.

I trenta nuclei individuati, localizzati anche nelle province di Napoli Capitale, Caserta, Benevento, Avellino e Salerno, sono stati classificati in categorie di studio derivate dai caratteri eterogenei riscontrati e, tutti mirano non solo ad esplorare e mettere in dialettico confronto le singole realtà insediative ma anche ad agevolare il controllo dei risultati sia in fase di studio che di presentazione finale della ricerca.

Le caratteristiche di ciascun nucleo sono state brevemente illustrate in schede monografiche nelle quali si è preso in esame l’origine del toponimo, le caratteristiche storiche, geografiche e socio-economiche, gli assetti tipologici nel loro storico determinarsi, le modalità ed i tempi di abbandono, lo stato di persistenza dell’abitato e, dove sono stati predisposti, progetti di recupero, in atto o in corso di elaborazione.

Nella presentazione dei casi di studio, oltre a descrivere le caratteristiche orografiche, paesaggistiche ed urbanistiche dell’abitato, una particolare attenzione è stata indirizzata ai materiali ed alle tecniche impiegate, alle vicende costruttive, alle opere di consolidamento ed allo stato di degrado in cui attualmente versano.

Tra i nuclei censiti sono stati scelti per un’analisi più approfondita i comuni di Santa Sofia D’Epiro e la frazione di Pedalati (CS), Lungro (CS), Cavallerizzo Frazione di Cerzeto (CS) San Demetrio Corone e la frazione Macchia (CS), Civita (CS), Falconara Albanese (CS), San Benedetto Ullano e la frazione Marri (CS), Cerzeto e le sue frazioni(CS), Caraffa di Bruzzano (RC) Caraffa di Catanzaro (CZ) San Nicola dell’Alto (KR), Greci (AV), Ginestra degli Schiavoni (BN), Casalvecchio di Puglia (FG), San Giuseppe (TA), Barile (PZ), Maschito (PZ), Ginestra (PZ), Brindisi Campagna (PZ), Villa Badessa (PG), Campomarino (CB), Ururi (CB), Piana degli Albanesi (PA) e Napoli , in quanto, centri interessati da tipologie simili sia in senso architettonico che di organizzazione urbana tipiche del parallelismo territoriale del mediterraneo storico.

I centri non rappresentano un campione casuale in quanto confermano le tradizioni, nelle diverse macro are regionali di Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Lucania, Calabria e Sicilia, dove è stata approfondita l’evoluzione storico-urbanistica degli insediamenti, analizzando più dettagliatamente lo stato dell’abitare senza murazioni in sicurezza dell’Iunctura.

Va in oltre rilevato che un latente abbandono diffuso senza soluzione di continuità, è in atto dagli anni sessanta del secolo scorso, per questo, il futuro di questi centri non focalizza nulla di positivo in forme di merito alla tutela con le istanze culturali del restauro conservativo.

Le vicende degli alberghi diffusi o dell’ospitalità alberghiera privata in questo momento produce danni irreversibile, un assalto di cavallette impazzite invade i nostri centri antichi e senza tregua,, una forma di accoglienza paragonata a che sino a ieri non aveva letti patti e forchette per mantenere i pochi familiari, oggi invita frotte di curiosi, che terminano con l’imprimere e autografa cose della storia, oltre a portare in pegno intonaci, sabbia e pietre.

In questo discorso si mira a tracciare almeno le linee guida fondamenta della conservazione della parte antica del costruito, con il bandire la libera accoglienza se non negli alberghi, avvalendosi anche del contributo di autorevoli docenti Urbanisti, Storici, Geologi e Antropologi.

L’obbiettivo mira a realizzare progetti, volti alla conservazione del genio locale nel corso dei secoli, avendo come regola prioritaria l’inscindibile legame dell’architetture e la natura, in tutto, il territorio, con i suoi abitanti e con le loro tradizioni culturali storicizzate rivalutate per essere gradualmente e con parsimonia esposte.

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Sila Greca

ABSTRACT “Santa Sofia: i tempi e le cose Vernacolari, Urbane e agresti nel corso della storia” di Atanasio Pizzi Architetto Basile

Posted on 27 novembre 2023 by admin

Sila GrecaSanta Sofia è un comune di minoranza Arbër in provincia di Cosenza (Italia), abitato dal 1471 da esuli provenienti dall’oltre adriatico e accolti dai Principi di Bisignano tra le colline della preSila Greca. Perché luogo in forte calo demografico, dove gli esuli riconosciuti i parallelismi della terra di origine lo preferirono. Lo storico casale era uno dei cinque allocati lungo il confine diocesano di Bisignano e Rossano, dove nel Casale Terra di Sofia, incideva un fenomeno franoso, che ne definì i confini verso est, lo stesso che in epoca moderna, persa la pericolosità in memoria, è stato velato in elevati. Di contro il centro antico sviluppatosi ad, ovest di questo limes, ha da subito assunto le tipologie vernacolari e sociali, importate dalla terra di origine, qui parallele anche alle cose dalla natura, conservando e segnando, grazie alla toponomastica moderna, le tappe evolutive in eredita storica, che non ha eguali o precedenti, dirsi voglia. Rilevanti i principi dell’Iunctura del Katundë, oggi aiutano senza commettere errore a delineare le fasi e lo sviluppo dei noti Sheshi, (confusi per Rioni, Quartieri o semplici Gjitonie). Quindi abitazioni prime in mattoni di “adobe”, poi in pietra, disposti lungo le rrughë, porticati, vichi ciechi e orti botanici, elementi di tessitura urbana a misura che difendevano gli Arbër da bellicosi guerrieri alloctoni, che qui, per questo, non hanno mai scelto di addentrassi perché le dogane delle Kaljve, con porta e finestra gemellata, non avrebbero dato modo di passare per tornare. Lo studio e il progetto qui condotto, mira a creare un manuale per la lettura delle numerose e identiche realtà urbane Albanofone, di tutta la “Regione storica diffusa degli Arbëreshë” le quali, pur se manomesso pesantemente, perché non tutelato dalla legge incompleta 482/99, resistono caparbie, nonostante è stata posta a regime, per la poca esperienza dei preposti alla definizione, non tutela gli Arbër, ma gli Albanesi. La legge oltre ad aver lasciato fuori dai temi di tutela, quanto sancito dall’Art. 9 della “Costituzione Italiana”, ha preferito recintare gli immateriali sanciti del 3 e del 6. Per concludere questo breve, si vuole mirare a fornire lumi, per recuperare i cunei di semina raccolta e lavorazione agraria, oltre a recuperare una Insula del “centro antico”, dove studiare e catalogare le sue trame muraria lasciate intatte e leggere le tappe dell’arte vernacolare. Un complesso articolato con gli spazio tipici delle “Manxzane Articolate” colme di spazi utili per un “cento multidisciplinare di studi storici, delle parlate, del costume, in tutto, del genio Arbëreshë”. Le cose che ad oggi restano ignote ai più e produce danno perenne di memoria locale. In tutto, risvegliare l’antico Sapere Sofiota, arenatosi il 18 agosto del 1806, lo stesso che ancora oggi, attende di essere svelato e, illuminare  gli Arbëreshë di simile radice anche oltre il Galatrella e, sino alle terre parallele, questi ultimi in specie, avrebbero bisogno di più cose, visto che ritengono sia un fatto di mera scrittura e non in figure di genio del fare.

 

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LUGLIO 2003 OTTOBRE 2023 LA STAGIONE DI UN FALLIMENTO EPOCALE

LUGLIO 2003 OTTOBRE 2023 LA STAGIONE DI UN FALLIMENTO EPOCALE

Posted on 19 novembre 2023 by admin

36384154-albero-con-radici-isolateNAPOLI (Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Era da poco iniziato quel luglio e passando davanti alla sala consiliare udivo esternazioni con titolo, Gjitonia a dir poco inesatte se non demenziali, e quanti le esternavano millantavano di essere la massima espressione colturale, religiosa, linguistica, amministrativa e di ricerca arbëreshë.

Tornato nella capitale di adozione , che mi alleva e mi sostiene culturalmente dal 17 gennaio del 1977, mi sono recato in diversi innalzati culturali, chiedendo conto di quelle  affermazioni della mia identità e, se da una parte ricevetti lumi irripetibili di cui vado fiero

Ci fu anche chi affermo: architetto questo è quanto abbiamo avuto in eredità dagli studiosi della storia di noi arbëreshë, e gli altri non centrano perché solo quanti hanno scritto in albanese conta,  esclusi gli altri che non sono neanche storia.

Spontanea fu la risposta: e Baffi, Scura, i Bugliari vescovi, Torelli, Gramsci, Crispi e Giura, quest’ultimo che diede vita a Leopardi? Mi fu risposto che non avevano scritto in albanese; la risata che mi venne dal cuore e dalla mente fu strepitosa e scenografica, dopo la quale sottolineai, ma voi siete istituzione antica, come potete fare queste affermazioni, se siete i preposti per la tutela della nostra storia, a servizio e per la tutela delle nuove generazioni.

E, mentre ciò accadeva decisi che una nuova metrica, o stato di fatto doveva nascere e così fu.

Tornato a casa iniziai a rileggere atti e nozioni, bibliografiche e archivistiche, già in mio possesso e, nel breve di meno di cinque anni mi ritrovai nei presidi della protezione civile, in difesa della frazione di Cavallerizzo, un paese storico della minoranza in fase demolizione.

Questa era ed è una frazione che per questioni di carattere idrogeologico, doveva essere delocalizzata, per problemi di faglia, secondo il teorema che fare un paese arbëreshë con le Gjitonia era di semplice di attuazione, infatti, bastava andare al catasto e rimettere le persone o meglio le case di proprietà un vicino all’altra.

Tutto questo, tralasciando sei secoli di storia e patimenti, senza neanche rendersi conto che le colline della mula calabrese, non sono piane desertiche algerine.

La mia china di ricercatore da allora non ha avuto tregua, neanche quando mi è stato chiesto come avessero brillato alcune figure che scrivevano e raccontavano, perché quando riferii delle correzioni, con la matita “BLU” che questi allievi senza titolo accademico e, se anche lo avevano perseguito era stato per anzianità, a lori affidato, per questo non erano proprio di limi nobili o titolati, per essere innalzati, giacche campanili senza campane.

La mia china è diventata più ripida, ma nulla mi spaventa, infatti una delle soddisfazioni che ho ricevuto con la difesa di Cavallerizzo, è stata di essere interpellato o meglio di aver lasciato un segno che ha portato le News Town a non essere più una priorità Italiana, perché la storia dei luoghi che si cela nel cuore e nella mente delle persone non va mai in ramengo.

Nonostante ciò, hanno preso il sopravvento manifestazioni gitane, che siccome organizzate da accademici, pensano che trasferirsi dai loro tuguri bui e senza prospettiva, in luoghi dove la cultura si semina ed è giardino florido si diventa sani.

I mugnai non possono pensare che annusare gli aromi della pizza margherita al forno a legna del golfo di Napoli, si possano illuminare e aprire le menti, niente di più sbagliato e nulla di più dannoso, se non si conosce la provenienza degli elementi che la rendono apparentemente genuina.

Tanti saggi si sono alternati per prendersi cura della minoranza Arbëreshë, al punto tale che ad oggi non esiste una legge che li tuteli, visto e considerato che la tanta esaltata legge del 1999, nume 489 non li contempla, infatti nell’art. 2 di questa specificamente tutela: popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il Franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

A ben vedere questa legge non menziona gli Arbëreshë in nessun grado o valore, allo scopo, oggi sarebbe il caso di integrare la minoranza e tuteli anche quanti vivono la regione storica diffusa degli Arbëreshë.

A scopo raggiunto, magari integrando alla suddetta legge, le normative, emanate dall’articolo “Nove della Costituzione Italiana”, visto e considerata, la violenza perpetrata negli ambiti dei centri antichi, ormai presi a secchiate senza misura, non per protesta, ma incoerenza dei trascorsi storici.

Qui si possono osservare, restando a dir poco basiti, cosa si fa contro le cose storiche e nello specifico porte, finestre, intonaci profferli e tetti, come se l’ambiente e le prospettive dei centri antichi, siano luoghi dove indirizzare coloriture di modernità o apporre lapidei componimenti, in tutto, far rivoltare nelle tombe gli uomini illustri; quelli veri e, fermare la digestione di tutti gli altri .

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IL FATUO, FARINA VOLATILE E LA SOLIDA CRUSCA DEGLI ARBËRESHË

IL FATUO, FARINA VOLATILE E LA SOLIDA CRUSCA DEGLI ARBËRESHË

Posted on 05 novembre 2023 by admin

1787 1814NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Quando si promuove, si scrive o si tutelano le cose degli Albanesi, si tende a mescolare anche la forma parlata arbëreshë considerandola come Arberia.

Il sostantivo storicamente indicherebbe il centro nord, escluso il sud dell’Albania, inglobando però la Regione storica diffusa Arbëreshë, dell’Italia meridionale, che è altra cosa e, potrebbero essere al più ambito, territoriale parallelo ma null’altro per la storia, la politica e il sociale evolutivo degli ultimi sei secoli.

Ambiti o confini culturali, utili a creare confusione o meglio, seminato fatuo nei giardini dei degli elevati preposti, i quali invece di fare il loro dovere, a modo di mulini, dove si valuta il grano  per la sola farina prodotta, mentre la poca crusca una volta depositata in un sacco usato, viene messa da parte senza alcun rispetto per l’opera del ricavato prodotto.

Quest’ultima, invece di essere saggiamente utilizzata, come facevano i nostri avi, per il ciclo della vita e, le cose sane, viene disprezzata perché rude ricavato del candido genuino.

Fatuo e farina bianca sono gli ingredienti, che vogliono la parlata Arbër, vetusta e senza futuro, ritenendo che la crusca locale non sia indispensabile per la genuinità e la cura della memoria e lo spirito.

Tuttavia nonostante fatuo e farina hanno preso la via del vento e sognano tempeste, la crusca rimane vicino ai nativi arbëreshë, gli unici che tutelano e non smetto di sostenere valori antichissimi, del patrimonio identitari delle genti che furono Arbër e Arbën, senza mai stare lontano dal cuore.

Ritenere che la lingua Arbëreshë sia un esperimento, in fase di arricchimento Albanese, come si fa con le lingue moderne, è un grave disastro storico, non si trovano parole per definire questo errore, specie se si definisce tutto il panorama linguistico antico europeo, senza future e quindi seguire la via della crusca dopo il mulino.  

Ho assistito in due occasioni distinte, in presenza a tali esternazioni e valutando il livello culturale di quanti, dovevano tutelare, proteggere, saggiare, circoscrive dalle inopportune azioni o forme letterarie, per il parlato del genio Arbëreshë, ritengo che esso sia confusa come semplice crusca, da imbibire con la troppa farina l’Albanese.

Se i predisposti presidi in senso generale, si sono occupati a scrivere, una lingua non scritta da millenni, forse avrebbero dovuto dedicare più tempo e attenzione ad indagare il parlato della stagione lunga dedicata al canto (la Primavera) e della stagione breve (l’Inverno) delle favole raccontate al caldo del camino.

Certamente oggi avremmo avuto più energia o certezze per il passaggio generazionale di questa antica forma parlata denominata Arbë/n.

Nel campo dell’architettura esistono due vie che un allievo può scegliere, quella dell’architettura moderna e del restauro, e ognuna di esse ha campi e luoghi precisi dove esprimerle, perché non si imita questo con la farina e la crusca del parlato Arbëreshë, nessuno oggi si sognerebbe di ammodernare il Colosseo o fare un albergo diffuso a Pompei, e mi fermo qui.

Dicono ed è vero che forme scritte comuni, che uniscano più di tre arbëreshë non esistono, tuttavia sfugge a tutti, i delegati comuni, che esisto le direttive sartoriali non scritte, compositi manuali di costumi, i quali se saputi interpretare in lingua originale, non sono altro, che manuali di consuetudini antiche, indispensabili ad unire il focolare di ogni casa, con l’altare di credenza locale.

In tutto, le cose del passato nascono perché segnano il tempo e, nessuno dico nessuno ha il potere di rimuovere le lancette di questo storico orologio locale.

Al giorno d’oggi la regione storica arbëreshë, vive una confusione di campanili locali senza precedenti, dove si contendono cose uomini e fatti, mai avvenuti, per promuovere puro fatuo, invece di calibrare farina e crusca, con dosi a favore della seconda, che porterebbe al valore assoluto della radice della nostra parlata originaria, in altre parole, lo scudo o meglio l’elmo islamico sormontata dal capretto, magari cancellando nomignoli e impropri soprannomi turcofono, come hanno fatti in Terra di Sofia.

L’arbëreshë lo possono difendere solo quanti si son pregiati del titolo di “Crusca Locale”, indicando nomi e cognomi dei docenti sino alla giovinezza, poi grazie alle scelte di studio arrivare a titoli di studio multi disciplinari nel campo dell’operosità fatta di sudore, mirati alla storia e all’architettura, perché, allievi che non hanno mai smesso di pensare in Arbëreshë.

Se a questo poi si aggiungono le capacità di fare strada nel mondo della cultura, pregiandosi di formazione irripetibile, collaborando con numerosi docenti in campo della storia, della Geologia, del Restauro l’Antropologia, della Scienza Esatta e della Tecnologia, senza allontanarsi dal campo del restauro e dell’indagine di luogo, con le note caratteristiche locali di radice vernacolare.

A questo punto per tutti i comuni addetti, è chiaro la paura dilaga e tutti temono il confronto pubblico, ritenendo più utile fare ballate cantando con il vestito da sposa indossato di fretta, con movenze islamiche, spiegare e illustrare le favole in lingua indigena, depositare eroi che guardano in ogni dove, meno che a casa propria e, con l’elmo dell’ironica appartenenza islamica, assegnare titoli impropri o conversare pubblicamente di fatti luoghi e cose senza averne formazione.

La storia degli Arbëreshë è un componimento unico e raro in tutti i suoi aspetti, siano essi idiomatici, del canto, delle favole, delle consuetudini a primavera e in inverno, espressioni che si possono cogliere nella credenza del costume, che unisce, univocamente, casa e credenza, tutto questo fatto sempre rimanendo il più possibile vicini al proprio cuore e a quanti ti hanno consegnato il protocollo mnemonico in eredità e ti sono sempre vicini per consigliarti.

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FALSI MITI E LE REGALI LEGGENDE DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËRESHË (Hoj mulinà! e dij se crundia nëngn shëloghètë?)

FALSI MITI E LE REGALI LEGGENDE DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËRESHË (Hoj mulinà! e dij se crundia nëngn shëloghètë?)

Posted on 26 ottobre 2023 by admin

BUrrascaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Che vi siano scuole di pensiero di ogni ordine e grado, giacche non esistono forme scritte o graficizzate dei trascorsi degli arbëreshë, i quali tramandano ogni cosa, con le regola del parlato, la metrica del canto, le favole, e la credenza popolare, è un dato di fatto irremovibile che rende i comunemente irresponsabili protagonisti.

Tuttavia altra cosa è ritenere, genericamente, questo popolo antico, di alto valore identitario, al di sotto della media intellettuale a cui si può propinare ogni banale episodio, dei suoi trascorsi, le conquiste, i costumi e le figure emblematiche che sono la storia mediterraneo.

Che nel corso degli ultimi sei secoli, siano state violentate molte delle sue credenze, fatti luoghi e cose, poteva anche passare, sulla base delle nuove tecnologie in evoluzione, ma alla fine dal secolo appena trascorso, quanto avvenuto nella metrica del canto, lascia a dir poco basiti, nonostante gli avvisi del noto critico teatrale, che redarguiva di accoppiare musica al canto Arbëreshë.

Se a questo aggiungiamo glia avvenimenti post legge 482/99, che tutela la Lingua Albane e non l’Arbëreshë, il quadro diventa pietoso e senza futuro e, quanti hanno ancora consapevolezza della “crusca arbëreshë” è tempo che la mettano in campo, onde evitare che emergano cose a dir poco paradossali o addirittura blasfeme, per le nuove generazioni della “REGIONE STORICA DIFFUSA DI LINGUA ARBËRESHË”.

Sia dal punto di vista storico, come fatti generali, avvenuti ad opera di figure senza arte né parte, se non con la furbizia del profitto economico e guadagnarsi olimpi secondo principi o i teoremi di sottomissione mussulmani.

Il voler imporre nomi di figure spente o costruite in tavoli di parte, per valorizzare sé stessi e le proprie mediocrità storiche, ha preso piede a dismisura al punto tale che sin anche Giorgio Castriota, dalla madre Albania mussulmana vene denigrato secondo quel riprincipio che non lo rappresenta come Arben, ma lo espone in vestigia dell’arte Islamica in caparbia consuetudine senza termine.

A tal fine, corre spontanea una domanda: perché l’elmo del condottiero ha segni simboli forme e temi Islamici, senza alcun accenno all’ordine del drago, come è inciso in bronzea porta a Napoli, con gli aragonesi vittoriosi?

Serve rivedere molto della storia scritta per gli arbëreshë senza il loro consenso, sia dal punto di vista del valore identitario, canoro, religioso del costume, in questo ultimo caso specie negli atti di vestizione con colori drappi di antica essenza Bizantina, quindi credenza sociale pura, movenze, atteggiamenti, esposizione dalla ragazza, sposa, madre e regina della casa, oggi nella migliore delle ipotesi assume ruoli di una misera donna in cerca di ortiche per fare magie.

Se a questo aggiungiamo che nessuno e ripetiamo nessuno, conosce le regole contenute nell’atto di vestizione e portamento, oltre degli elementi compositivi, si coglie la misura della in consapevole attività che si affianca a ogni atto,  in esposizione, a dir poco volgare.

Dal punto di vista storico culturale per la tutela valorizzazione del patrimonio immateriale ed immateriale, lasciato al libero arbitrio dalla legge 482/99, mancante dell’articolo 9 della costituzione, è il caso di modificarne la legge su citata, ricordando solo un paese in Calabria citeriore ha avuto intuito prima dell’emanazione di questa legge incompleta si vuole a tal proposito riferire a Terra di Sofia.

È qui che gli intellettuali locali prepararono la citeriore area, nota per essere retrograda, in quanto le attività espresse a Napoli quanto ebbero modo di trovare appoggio europeo sulla linea Anglo-Austro-Ispanica, attivandosi e realizzare il collegio di Sant’Adriano trasferendolo dalla modesta sede Latina

Parliamo di Pasquale Baffi, del vescovo Francesco Bugliari e Ballusci, essi si contrapposero a, francofoni e loro affiliati in tutte le epoche dal 1790 e, senza soluzione di continuità sino 1876, quando il papa, nomina velocemente Giuseppe Bugliari vescovo, per rendere la misura dello stato di terminazione, che ormai era stato superato.

Tuttavia se dal punto divista letterario è sempre il Baffi che dall’alto del suo livello culturale suggeriva, il valorizzare il parlato, senza doverlo violentare con la scrittura; ciò nonostante, chi ha avuto modo di leggerne i suoi scritti, preferiti averli copiati e non studiati, anzi proprio per fare confusione, e quando a Napoli immaginando di dover solo pubblicare si è visto scoprire e tornato a casa per correggere simulando febbre e dolori inguinali come ripeté diverse volte quando avrebbe dovuto affrontare le cose di petto.

Esistono eccellenze nella dinastia degli arbëreshë, che tutto il mondo ci invidia, ciò nonostante esiste una scuola per la quale se non hai lasciato scritti, fandonie e imprecisioni o tradimenti certificati, non sei eccellenza, anzi, chi più ne sa, le può dire, tanto nulla cambia, e questo non è affatto vero.

Se noi escludiamo il letterato Pasquale, Baffi e le innumerevoli figure che come lui, qui a Napoli fanno la lista di eccellenze, nel campo della, giurisprudenza, il sociale, l’editoria, la scienza esatta, la religione, l’arte per nuove prospettive di civile convivenza, esempio e atti primi per tutto il mondo della cultura in evoluzione, i quali quando sono citati pubblicamente i soliti noti a bocca aperta riferiscono

: si è vero ma non hanno scritto nulla in arbëreshë.

Ai quattro insani di mente va ricordato che la lingua arbëreshë, nasce per essere diffusa con parsimonia familiare, secondo la metrica del canto, essa ha come riferimento di base il corpo umano, l’ambiente naturale circostante e, se si è sani di mente non c’è bisogno di appunti scritti o manoscritti per tramandata o ricordare le cose di casa propria.

È inutile a ostinarsi nel porre in primo piano scriba che dal XV secolo cercano di attribuire l o legare lo scritto della lingua arbëreshë che non esiste, alla credenza bizantina che già si sostiene di greco e di latino, noi arbëreshë abbiamo solo il parlato e il canto e nulla più, il nostro genio locale è fatto di letterati che spiegano questo, giuristi che ne hanno fatto la regola sociale, economisti che hanno portato a buon fine il progetto di integrazione, Maestri della critica e della carta stampata che hanno fatto stoia a poi viene la parla dell’ingegneria della minoranza Arbër, che addirittura, elevo il primo ponte, “al mondo”, su catenaria a pilastri singoli.

E ancora oggi vi sono provetti, pur se anziani luminari, i quali affermano che se non hai scritto in Arbëreshë nulla vale. A questi luminari di periferia o Llitìrë, aggiungerei che la figura che parlava in arbëreshë, una missione letteraria la compie e, non da poco specie se questo è servito a superare le pene fisiche di Giacomo Leopardi, quando venne a Napoli, prima ospitandolo e rendersi disponibile per ogni cosa, mi fermo qui, perché non vorrei che l’anno prossimo dalle viscere di Caponapoli, si elevassero altre grida di incoscienza, relative al parlato dei facenti parte la “Regione storica diffusa degli Arbëreshë”.

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QUANTO CRESCI VICINO CON IL CUORE IN ARBËR NULL’ALTRO IMPORTA (Ghiuga jonë hëshët gnë e ja thon Arbëreshë)

QUANTO CRESCI VICINO CON IL CUORE IN ARBËR NULL’ALTRO IMPORTA (Ghiuga jonë hëshët gnë e ja thon Arbëreshë)

Posted on 14 ottobre 2023 by admin

Wilhelm and Jacob Grimm, 1847; daguerreotype by Hermann Blow

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’intervallo primo della vita, di ogni arbëreshë è vissuto tra sheshi, rughe e sedili degli edificati vernacolari e, legano il cuore senza soluzione di continuità a queste cose pulsanti; e quando poi ti allontani, più vicino sei all’eco immortale in Arbëreshë.

Questa è la storia di tutte le generazioni nate sino agli anni sessanta del secolo scorso, poi venne la televisione e iniziò il gioco perverso, delle voci altre.

Da ciò Gjitonia, diventa prima Commarato, a fine secolo “copiatura  del Vicinato indigeno” per terminare la consuetudine storica parlata, in confusionari alfabetari Albanesi.

Va rilevato che dall’inizio del secolo scorso, ebbe inizio il sogno di allestire il tema oltre adriatico, dell’impero ottomano, in attesa di essere posto a regime come previsto quando i nostri discendenti fuggirono, sei secoli orsono, per non pregare o innalzare inni in lingua altra.

Allo scopo va precisato che “La Regione storica diffusa degli arbëreshë” rappresenta il perimetro diffuso italiano, dove gli arbëreshë, conservano cose, fatti consuetudine, credenza avvenimenti e memoria di uomini in certezza viva.

Altra cosa è “l’Arberia”, sostantivo storico utilizzato a identificare i principati centro settentrionali dell’antica terra, oggi identificata come Albania, escludendo il centro Sud degli antichi governariati Arbër.

Nella regione storica, quella dei 109 centri abitati compresa la capitale Napoli, dove ancora ben oltre sessanta Katundë parlano e si confrontano in lingua Arbëreshë, gli stessi dell’esodo, 1769 al 1535, i quali caparbiamente, preferirono per non essere forgiati dall’invasore a nuove pronunzie, la via dell’esodo, in quelle terre dove con non poca difficoltà seminarono le antiche radici Arbër e Arbën.

Nel mentre dopo circa cinque secoli, apparati monastici militari a Monastir, esclusero gli Arbëreshë nel 1908, per definire una lingua comune, o standard dirsi voglia, mentre qui in Italia ci si confrontava per risolvere la questione sociale Albanese, da nuove invasioni, e per fare una similitudine più chiara: come se per definire l’alfabeto della lingua italiana i nostri letterati avessero escluso la scuola fiorentina supportata della crusca.

Prova rimane l’ironia di Norman Douglas, nel volume Vecchia Calabria, sul fatto che l’alfabeto della lingua Albanese non aveva termine, sia in quantità di lettere che in numero di versioni, superando le trenta lettere e, secondo il geniale osservatore, non avrebbe mai avuto termine, per la formazione monastica dei compilatori.

Nonostante nel 1871 un esempio valido portato a buon fine per unire un popolo di simili origini era stato portato a buon fine brillantemente in Germania con il Tedesco, gli Albanesi imperterriti cercano di raggirare, gli Arbëreshë raccontando favole.

Tutto avvenne nel breve tempo di poche stagioni, quando la Germania unita voleva avere la sua lingua ufficiale attraverso la quale la nazione si potesse riconoscere, ragion per la quale si rivolsero a due filosofi di Berlino che non era certamente monastici e, fuori da confini della loro terra madre, erano conosciuti perché raccoglievano e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca.

E questa loro attività nel 1871 gli consenti di definire la lingua Madre germanica, che secondo il loro principio portato brillantemente a buon fine doveva iniziare e avere radice dagli appellativi del corpo umano e dalle attività, le cose e la natura che consentivano all’uomo, di vivere e rigenerarsi nell’antichità.

Tuttavia i distratti compilatori monastici sistemati a est dell’adriatico, avessero saputo leggere il curriculum dei fratelli Grimm compiutamente, oggi non ci troveremmo a incutere, l’Albanese a bambini Arbëreshë in età scolare.

Certo che la storia non smette mai di sorprenderci e, pur se dall’alto qualcuno i segnali li invia, peccato che solo uno sa coglierli.

Oggi rimaniamo basiti per le attività di terminazione tra Israeliani e Palestinesi, ma non diamo peso alla violenza culturale che da est dell’Adriatico si indirizza ai bambini in età scolare dell’ovest Adriatico Arbëreshë.

Se il cuore di noi Arbëreshë, ha iniziato a battere nel grembo materno, tranquillo e sereno, per il riverbero di una lingua antica e familiare, perché alcuni oggi, arrogano il diritto di riverberare quello di madri ignote e nessuno fa nulla per il male prodotto?

Allo scopo urge un comitato scientifico che faccia fronte, a questo sopruso culturale di fine farina Albanese e, di eterna conquista, fatto della rudimentale crusca che non muta le cose e le tiene in salute, come insegnavano le vecchie scuole di medicina Salernitana.

Per concludere si vuole sottolineare che per realizzare la statua del Cristo di Maratea conferirono professionalità e contributi da tutto il mondo per realizzare un faro con luce di credenza, viene spontaneo chiedersi: perché per la lingua più antica indo europea parlata, c’è solo un cristo che annaspa nel volerla definire?

P.S. Nell’immagine i Fratelli Grimm e anche loro erano in due

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LAUREA IN PARLATAO VERNACOLARE ARBËR IN CRUSCA LOCALE (Mendë për Mëma Papàu e ime moterë)

LAUREA IN PARLATAO VERNACOLARE ARBËR IN CRUSCA LOCALE (Mendë për Mëma Papàu e ime moterë)

Posted on 09 ottobre 2023 by admin

Inizio della LaureaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Dal XV secolo ha avuto inizio l’avventura che voleva l’Arbër, la lingua esclusivamente parlata da millenni supportata dalle spianate delle favole, la metrica del canto e, rigorosamente non scritta, come altre lingue indo europee,  esposta alla pubblica Furcillense, come la Greca e Latina, lette per gli innumerevoli e personalistici alfabetari.

Inizia così, un tortuoso calvario, che pone da un lato cosa poteva essere utile a quanti inventarono l’Albania, ma non certo a quanti da quelle arche, preferì l’esilio e rimanere fedele al canto, evitando poeti e scribi.

Canto e poesia, per il valore, potrebbero sembrare innocue, non dannose o pericolose, ma per il supporto che esse offrivano alla pubblica Furcillense della cultura, in quell’epoca, apparata come fucina per sottomettere e piegare popoli, videro schierarsi tutti i portatori sani della lingua parlata, disdegnare e, voltare le spalle a quelle terre preferendo l’esilio.

Quanto qui trattato è un teorema complicato e, non alla portata dei comuni compilatori librari o ricercatori di atti archivistici, i quali, ritenendo la lingua parlata, poetizzata e scritta, più penetrabile, del solido cantato che segue il consuetudinario parlato, hanno cercato di violentarla.

Anche se non è da poco sottolineare, la prima quale evoluzione incontrollata e, la seconda, solida identità inviolabile, preferendo insegnare e proporre  la prima, perché di semplice dominio.

Il parlato arbëreshë, infatti, si eredita vivendo con il cuore e fissando nella mente, ogni anfratto, episodio o figura, nei decenni del vivere in fraterna e leale solidità locale, al punto tale che essa rappresenta una vera e propria, laurea depositata nel cuore e nella mente, perché incisa con la consuetudine e nessuno mai potrà rimuovere, sia esso istituto, istituzione o università moderna, in  argomenti o progetti sostenibili.

Voglio sottolineare che alcuni mesi addietro, è venuto un gruppo a manifestanti in riva al mare partenopeo,  minacciando misure denigratorie, se non addirittura improprie, nei confronti di quanti non possiedono certificati in forma scritta, o affiliazioni a istituti di misurare del parlato Arbëreshë e la storia consuetudinaria, provando a velare  il valore dell’attestato di studio sul campo che per la luce che emana no teme veli di sorta, come se essa, sia di carta straccia o da Lavinaio marciano, in titoli autografati.

Ragion per la quale vorrei raccontare come la “Laurea in vernacolare storico arbëreshë in crusca locale parlata” si può ottenere e solo chi non conosce luoghi uomini e cose può contestarla gratuitamente e senza ragione.

Se nasci nello sheshi più operoso del tuo Katundë, ti trasferisci in età di camminare e iniziare a parlare in quello più nobile del paese.

Qui i tuoi nuovi i tuoi vicini di casa, per non redarguirti e interrompere i tuoi immaginari giochi infantili colmi di entusiasmo rumorosi posti in essere, ti fermano avvisandoti che cosi parlando, potesti essere scambiato per un bambino disperso e ti portano nella piazza del paese e la sua frazione limitrofa.

Per questo ragionevolmente ti fermi e, responsabilmente chiedi lumi per la tua pronunzia, applicando questo protocollo ogni volta che i tuoi vicini appaiono i quali ti garantiscono che sei sofiota e non altro, che poi diventa l’avvio perfetto per iniziare il percorso di crusca locale in Arbëreshë.

Se poi aggiungi il primo esame elementare, secondo il quale, in prima elementare devi essere bocciato perché muto.

Almeno a detta del professore Perri, che per nove mesi la cattedra la teneva nella bottega del sarto, attaccato alle corde della chitarra, facendo ridere mia madre, che riferiva a tutto il vicinato in delirio, il diktat secondo cui “il ragazzino è muto, sordo ….. e, non comprende l’italiano”, questo è il primo titolo o esame che ti viene assegnato sul campo, dove stai crescendo con il voto di trenta in loco con chiacchiericcio diffuso dalle finestre di tutto lo sheshi.

In seguito, ripetuto l’anno il maestro Baffa M. solleva i velo del colloquiare e scrivere italiano, illuminando così una nuova via di dialogo, che comunque restava relegata nel tempo breve, dell’aula scolare e dei compiti svolti a casa.

Tutto questo nei cinque anni delle elementari, avendo come guida di espressione linguistica prima, i miei genitori, i vicini, C. Miracco e il figlio T.M., oltre a tutte le persone in discendenza, che abitavano i rioni superiori del paese, noti casati nobiliari, provenienti dai governariati antichi del cento sud, di quelle terre, quando ancora non era appellata Albania.

Le scuole medie continuano sulla stessa scia, a tal fine si ritiene rilevare il disappunto nel corso dell’esame di terza, quando ho rifiutato di esprimermi in forma orale Latina, per avere l’attestato completo e, accedere a tutte le università, ritenendo  che conoscere l’Arbër/n antico, fosse più idoneo, di altre.

Questi sono i riferimenti del comune parlare, mentre le direttive comportamentali e conoscere attività agro silvicole e pastorali, tipici dei cunei agrari, ancora oggi eccellenza locale insuperabile, sono eredita di sapori, odori e appellativi indimenticabili, direttamente tramandati da mio Nonno, Pizzi Giovanni Vincenzo, mia Nonna Caruso Francesca, dal Fratello e dalla mogli, le memorie storiche sofiote, della trasformazione, conservazione e distribuzione dei prodotti  pastorali, ovvero Caruso Vincenzo e sua moglie, Bria Maria Antonia, a questo elenco di eccellenze della parlata e gli appellativi in lingua Arbër, potrei aggiungere altre e alte sonanti figure, ma preferisco fermarmi a queste eccellenze, per non eccedere verso i laureati, che sono tanti, della crusca locale Arbër.

Un fatto resta inconfutabile, essi sono la storia delle consuetudini, i costumi e le attività della stagione breve e di quella lunga.

Sono queste attività dipartimentali della vita dei non Katundë sino al secolo scorso, a fare la differenza tra un arbëreshë con “laurea sul campo in crusca”, da quanti seguono la via degli istituti, i quali si allontanano a dismisura della “pura e storica lingua nostra”.

P.S.

Nell’immagine il piccolo a Studi già avviati e con i suoi docenti e, già nessuno avrebbe posto dubbi sulla sua brillante carriera vernacolare.

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baffi

LA PROPRIETA’ CULTURALE RESTA SEMPRE FEDELE ALLO STORICO CHE L’HA CERCATA E RIFERITA (Tata thoj mosë thùà, ghjë ndëse nëgh ignegh)

Posted on 24 settembre 2023 by admin

baffi

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – I componimenti editi e diffusi, secondo promozioni culturali che lasciano il tempo che trovano, ad opera di figure locali senza confronto critico, diversamente colmi in elogi di non merito, si compilano non con lo scopo trarre conferme la nostra storia.

Prassi ormai consolidata, diffusa e nota con il metodo di riversare concetti precedenti, mai certificati, per questo, privi di ogni sorta di valenza di memoria, mantenendo il valore editoriale non oltre del mero compenso diffuso dai precedenti.

Un fenomeno che ha come scopo l’apparire nominalmente nella produzione editoriale o pubblici convegni, che definire “riverso di fatuo” è poco, consuetudine tramandata dal 1799 senza pausa, esaltando cosi improbabili studiosi o esponenti locali, i quali senza vergogna alcuna, millantano cose sottratte.

Una produzione di trascrizioni, vissute all’ombra del Vesuvio mai illuminato dagli studiosi, nei fatti mere fotocopie o trama illeggibile, dalla produzione editoriale che conta.

A tal proposito si vuole sottolineare una consuetudine antica, facente parte del trittico mediterraneo, dopo la pigiatura dell’uva, ed esattamente un mese dopo, era consuetudine travasare il vino, per eliminare il deposito “melmoso” formatosi sul fondo della botte, nel corso della chiarificazione del nettare.

Allo stesso modo gli editi, in modo equipollente, sperando di trovare consensi in regione storica, per la poca dedizione allo studio che qui si adopera, presentano cose per sentito dire per editi raffinati.

La deriva si è tanto espanda, dando vita a una nuova e pericolosa forma culturale per la diffusione degli impuri e scarni editi riportati, se a questa oggi sommiamo irragionevoli, incontri ben accolti nei centri oltre adriatico, dove ignari cultori scompigliati, si danno aria di sapienza accatastando refusi di multi pigiatura, ignorando editi, di Baffi, Giura Torelli e Bugliari.

A ben vedere, ogni componimento composto e pubblicato dopo il 1799, sino alla fine del secolo dell’anno dopo iniziato, lasciano a dir poco basti, visto il gran numero di false eccellenze che adoperava gli scritti in fotocopia per non far riconoscere chi realmente li avesse scritti.

A tal proposito se escludiamo i citati personaggi, il resto ha visto la produzione di fotocopie o residui melmosi del nettare travasato per fare cose senza senso.

Era il 1963 quando a Roma in una conferenza esponeva il teorema l’Archimandrita E. F. Fortino, riferendo del riversare le bottiglie di aceto con la speranza che diventasse buon vino.

Potremmo iniziare a trattare della Regione storica degli Arbëreshë fatta sulla base di migrazioni che variano a seconda del matematico di turno da sei a nove, con e senza costanti, come se si trattasse di una questione di aggiungere o sottrarre valore alla questione, legando fatti guerreschi a soprusi di forgiatura con necessità, di vivere del proprio lavoro, senza che alcun che negasse futuri.

Quindi migrazioni storiche, quelle legate alla politica alla religione e al principio di vivere liberi di produrre e difendere le proprie necessità identitarie o la propria credenza, fu un fatto determinante che si legge ancora oggi analizzando cartografie storiche e le dinastie che gestirono quelle terre, anche se a numerosi cultori dell’epica fuggiva in particolare il rivendicare i feudi Latini, Greci e Arbanon.

Il processo di ripopolare la penisola italiana si può affermare che si basa su tre date: La caduta di Costantinopoli (1453), la morte di Giorgio Castriota (1468) e la caduta di Corone (1532), confermata è un documento del 1647 del re d’Aragona e di Sicilia Giovanni II.

Il resto sono solo episodi di confronto in armi, per i quali e con i quali i gran ducati in necessità di eserciti, utilizzavano questi formidabili guerrieri, per terminare ribellioni e ogni genere di non sottomissione ducale o regia.

Motivo per il quale, una cosa sono i soldati mercenari e altra cosa sono i migranti, per necessità derivanti dagli attriti, delle terre ad est dell’adriatico l’accoglienza organizzata dal vaticano, i regnati partenopei e i dogi veneti.

Quello che appaiono evidenti sono le vicende storiche che hanno luogo nel meridione italiano, con protagonisti in specie, i facente parte l’ordine del drago o la crociata moderna, mai posta in essere da Giorgio Castriota, per la strana scomparsa del papa reggente.

La storia poi racconta di tutti questi attori primi, dei quali alcuni hanno mantenuto e altri con il passare del tempo rivisto le promesse o i patti stipulati dal 1453 al 1532.

Un dato resta inconfutabile e, nessuno comunemente può mettere parola, ovvero, tutte le terre su cui si stabilirono definitivamente gli esuli Arbanon, sono fuori dalle notoriamente segnate come Grecaniche, infatti dal Limitone, alle direttrici che definiscono il gran ducato di Calabria, non furono mai superate, e questo è un dato che fornisce due elementi fondamentali, secondo i quali si dovrebbe porre più attenzione e non limitarsi a definirli, mera comodità di approdo.

A questo punto si ritiene idoneo precisare il ventaglio che aprono le intelligenze artificiali e, constatare quanti sono i riferiti di fotocopia, specie nei convegni, che non hanno più solo il luogo circoscritto della piazza, il teatro, l’aula magna dei dipartimenti o i luoghi ameni, dove si è convinti di avere platea ingenua, perché il riverbero non termina li nel catino prescelto, in quanto, è molto più largo e indefinito.

A tal proposito è il caso di avere piena consapevolezza che l’usare espressioni altrui, specie di materie inedite, le stesse non contemplate nei protocolli dell’antichità come Urbanistica, Architettura, Casa, Chiesa, Costume l’utilizzi con espressioni vernacolari, ad oggi mai ritenute, a torto, patrimonio identitario, per questo ignote agli oratori comuni e di turno.

Motivo per il quale l’essere scoperti di non essere gli editori primi, diventa alquanto facile e non basta relegare fuori dal proprio assurdo orticello, di incultura gli illustri degli originali editi, in quanto una laurea per possederla devi averla sudata sul campo, non certo seduto a tramare in istituto contro i tuoi compagni di banco, perché solo con la costante dedizione di luogo studiato e, non basta scimmiottare i refusi dei colti, perché la proprietà culturale resta sempre fedele, a chi ha fatto sacrifici per illuminarla.

Comuni cultori, Guide, Amministratori e ogni forma umana o meccanica per la diffusione della stori degli Arbër, sappiate e tenete in conto che, c’è sempre uno che vi scopre e dice: questo concetto non è del Baffi Napoletano?

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LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

LA CRUSCA DEL PARLATO E DELLE COSE ARBËR (krundëia i jiughese i shiurbisetë arbër)

Posted on 21 settembre 2023 by admin

CatturaNapoli Adriano

NAPOLI (Atanasio Pizzi Arch. Basile) – Con questo breve si vuole evitare il diffondersi di nozioni errate che non sono parte veritiera della minoranza storica detta Arbër, da ciò tratteremo, consuetudini, religione, regole di vita e, le figure di eccellenza prime, con dati di fatto luogo e tempi.

Ovvero quanti si prodigarono per il valore della lingua antica arbëreshë, intesa non come farina, fine, scivolosa e attaccaticcia sulle stoffe e le superfici rugose o per affiggere manifesti, ma della rozza crusca, per la sua rude e solida trama che sostiene con forza l’idioma Arbër.

Onde evitare falsi protagonismi, errate interpretazioni o santificati culturali, in questa diplomatica della “Krundja Arbër”, tratteremo dei patimenti di quanti per essere tali, hanno vissuto e studiato sempre nell’ombra senza disturbi dalle inopportune conclusioni storiche, di luogo, tempo e avvenimenti mai avvenute, trascorse o svoltesi.

Eccellenze che per affermarsi non hanno avuto altro sostegno che la loro saggezza e preparazione culturale, tanto elevata da essere protagonisti primi, con il titolo onorifico del parlato acquisito negli ambiti natii, non per concorso, non per grado, ma sole per la saggezza affidatagli dalla natura, quando furono concepiti e allevati nel grembo materno.

Il fine qui perseguito, vuole, mira o meglio seguire le tappe salienti dello sviluppo culturale, secondo metriche, di luoghi, fatti e uomini, senza nulla inventare o propone offerte prive di studio e ingegno.

Allo scopo si vuole precisare che i lasciti identitari di pertinenza, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macro area e, la china dagli anni sessanta del secolo scorso, inesorabilmente continua a mietere fatuo innaturale.

Gli storici, è ben noto che, non scelgono le tante cose che si dicono, ma quello che fanno gli uomini e, il silenzio resta, l’unica arma per ascoltare, comprendere e indagare il saggio costruito vernacolare, l’unico a non ripetersi in ogni dove, senza regola di genio e consuetudine.

Per questo precisare cosa siano: Gjitonia, Vallja, Vera Arbër, Stolljtë, Sheshi e Katundë, affinando con le figure di eccellenza prime e, l’epoca di lume nelle scene grazie alle quali, la storia, rende semplice comprendere cosa è cultura.

Se poi si volesse raggiungere Napoli per essere protagonista e vivere dove sono state fatte le cose buone, belle della storia Arbër, prendete appuntamento, in non più di cinque persone e, non vi serviranno parole, le cose che hanno fatto gli uomini, con ragione e merito nella Napoli, Greca, Romana, Bizantina, Alessandrina, Araba e del periodo Arbanon.

Visitando i siti http://www.scescipasionatith.it/ e http://www.atanasiopizzi.it/ potrete leggere le oltre duemila (2.000) pagine fatte, con immagini di Storia, Uomini, Architettura Urbanistica, Religione, Costume e ogni avvenimento che abbia avuto protagonisti gli Arbër di tutti i 109 Katundë, con Napoli capitale, della regione storica diffusa degli Arbër/n.

Il frutto sono il risultato di otre cinque decenni di cose, con protagonisti i Kalabanon, poi gli Arbanon e in seguito Arbëri e Arbën, collaborando con numerosi dipartimenti e professori di eccellenza partenopei in specifiche discipline del costruito e non del parlato

Per ogni tipo di domanda, Inviare e mail ad: atanasio@atanasiopizzi.it; o contattare su WhatsApp il + 39 338 9048616 – Telefono per conversazioni +39 338 6442674.

P.S. Il fine mira a realizzare una fondazione di un gruppo di studiosi, che pone le fondamenta su fatti, cose e avvenimenti realmente accaduti, senza protagonismi di sorta

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GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

GJITONIA PER I GIULLARI CULTURALI DEL NUOVO MILLENNIO (Gjitonia come il Vicinato ??????????- ?????????)

Posted on 16 settembre 2023 by admin

la storia del costumeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era il sette luglio del 2004 e nella sala del consiglio comunale aveva luogo un confronto culturale dei massimi esponenti del mondo arbëreshë, le cui mire volevano colpire e cancellare le magiche sensazioni di mutuo soccorso della Gjitonia; le quali, scambiate in corrente, di reflui rumorosi, emanati del torrentizio in piena e se non fosse per qualche accenno di parole in Arbër, si sarebbe potuto ritenere che tutti erano di radice latina e per questo comparavano le cose a misura del commarato o ancor peggio del vicinato indigeno.

Abitare in un comune arbëreshë comporta l’apprendimento di una serie di vocaboli difficilmente traducibili in italiano. Nelle operazioni di trasferimento di un termine da una parlata antica, come quella ereditata dall’Albania e tramandata ormai regola certa che il significato appartiene ai comunemente locali. mai redarguiti dalle istituzioni, inesistenti o addirittura senza titoli di meriti e di esperienza sul campo, quella che nessuno ad oggi conosce.

A tal proposito è il caso di ribellarsi e lascare il loco dove si odono relatori riferire della parola “Gjitonia”, radice di ” Lighëa civile Balcana e Shëkita di credenza del monte Athos) tradotta senza rispetto per la storia di questo popolo, quando la si paragona o la si accosta al termine “Vicinato” e, scende ancor più nel senso del suo significato quando la si definisce meramente: “Gjitoni më se gjiri, il Vicino vale  più di un parente”(??????????-?????????); ancor peggio, un’unità urbanistica caratterizzata solitamente da un piccolo spazio all’aperto intorno al quale convergono le porte di più abitazioni e in cui confluiscono i vicoli del paese; o addirittura ritenerlo il loco dei prestiti alimentari e per stendere il gonfalone in senso di resa culturale: postazione di cumulo del lavinaio, dove si ode e si sente in Arbër.

La realtà delle cose e ben diversa direi a dir poco inverosimile, peggiore delle diplomatiche settecentesche dei trascorsi romani e, quanti diffondono il sancito, generalmente non ha titoli o esperienza sul campo e, finisce come affermato da Giuseppe Galasso, per copiare o chiedere di dove andare a riprendere editi di altre cose di altri luoghi e di altre epoche.

Allo scopo e per esecutare teoremi a dir poco giullareschi, va sottolineato che la “Gjitonia” è una forma d’identità sociale presente nella regione storica diffusa Arbër; vero e proprio sottogoverno locale di mutuo soccorso, condotto, diretto e presenziato dalle dinastie femminili.

Si identifica come luogo dei cinque sensi, avente come protagonisti gruppi allargati, entro i quali e per i quali, si sostiene e identifica il ceppo originario del gruppo familiare allargato, a garanzia del proseguo delle cose della propria identità; la scuola per le nuove generazioni, dove, madri sapienti distribuiscono conoscenza con radice di sapienza antica, in regole consuetudinarie, conservate armonicamente nei cinque sensi, il componimento armonico di cuore e di memoria, nel più rigido confronto con le cose e gli avvenimenti delle società in evoluzione.

Ad oggi il processo di lasciti identitari, sono diffusamente interpretati secondo campanilismi di macroarea, per cui ha abbandonato il modello allargato Kanuniano, per quello urbano e sempre con più lena discutibile, si preferisce spalmarsi nelle pieghe sociali metropolitane, da cui trae sostentamento per quella inesorabile china intrapresa dagli anni settanta del secolo scorso.

Certo resta il dato che la Gjitonia è un “Modello sociale immateriale di comuni intenti e valori”, (in Italiano codificato incompleto del luogo dove vedo e dove sento), importata nelle rive ad Ovest del fiume Adriatico sino allo Jonio,  dal XIV secolo resiste alle mutazioni sociali e culturali, esempio di fucina naturale, dove si modella identicamente l’antico metallo familiare allargato, il solo ad avere, elementi indeformabili per la continuità storico consuetudinaria degli Arbër.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande come cerchi concentrici, nello sheshi, estendendosi “thë rruhat”, sino a giungere negli angoli più reconditi delle rurali pertinenze, e sostenere i cunei agrari e della trasformazione di raccolti solidali.

La Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, punto d’incontro di materia, sentimenti e sensazioni, stese secondo consuetudine magistrale, lungo le articolate vie degli sheshi; i rifugi incontaminati di tradizioni, cultura, costruito, artigianato e credenze, in tutti, il tessuto multi filare della radice Arber.

La Gjitonia avvolge gli ambiti dove affacciano le porte gemellate alle finestrelle di casa, in sostanza tutti gli ameni luoghi articolati, dove o spunta il moderato sole o fluiscono le carezze e i sussurri del vento, lo stesso che si avverte, si respira, si assapora, si vedere e si tocca, senza mai poter essere dominati o circoscritti, perché, ideali confini d’appartenenza irripetibili.

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