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GJITONIA – VALLJE – SHEŞI - BORGHI E ILLISTRI NON HANNO PREGHIRE DI PERDONO DAGLI ARBËREŞË (gjitonia, valletë sheşi e llëtiretë arbëreşë me mbëcatë i sotë pàkùnghìmë)

GJITONIA – VALLJE – SHEŞI – BORGHI E ILLISTRI NON HANNO PREGHIRE DI PERDONO DAGLI ARBËREŞË (gjitonia, valletë sheşi e llëtiretë arbëreşë me mbëcatë i sotë pàkùnghìmë)

Posted on 28 aprile 2024 by admin

005b-NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Se oggi si dovessero tirare le somme di come siano state condotte valorizzate o indirizzate, le diplomatiche di tutela delle cose che rendono gli arbëreşë il modello di integrazione più solido e duraturo del mediterraneo, si dovrebbero allestire capienti confessionali dove impartire preghiere di penitenza per i peccatori.

Una deriva culturale senza precedenti, a giudicare dagli editi e i divulgati, non di comuni viandanti, ma per gli statici dogati senza formazione culturale in tema.

Si potrebbe qui allestire una enciclopedia consistente o di almeno pari volumi di quante si dice siano le migrazioni senza alcun senso storico sempre vantato.

Ma qui è il caso di sottolineare quali sono le cose storiche e veritiere, onde evitare l’allargarsi della deriva culturale, lasciate pericolosamente a invadere cose intime e identificative della Regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë.

A tal fine la memoria va al tempo in cui era difesa d’ufficio, nel corso della delocalizzazione di Cavallerizzo, frazione di Cerzeto per il rilascio della Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.), nel mentre si cercava confronto condiviso, con quanti dovevano essere gli anziani e formati al pari dell’Architetto Federiciano e Olivetaro i parà Krunde.

Due docenti, invece di tendere la mano, non avendo consapevolezza, a quei tempi, di me si condividesse una Mail, inviavano anche a all’Architetto Federiciano e Olivetaro di prima linea, le critiche senza senso e di incosciente radice.

La di cui corrispondenza critica era compilata con frasi del tipo; E chist’atru chi va cercannu ……………, e tutto questo solo perché erano stati invitati a confrontarsi, per i concetti qui di seguito a titolo come; Gjitonia, Sheshi, Rioni e crescita del centro antico di primo insediamento.

Tuttavia e senza soffermarsi anche su questi due Don Chisciotte e Sancio Panza, le cose più infantili che si ripetono e che si fa gran uso improprio è nell’identificare i centri antichi di radice arbëreşë, meramente Borghi, organizzati in quartieri sotto prodotte da Gjitonia, con piazzette dove affacciano porte e si canta e si balla a primavera la memoria di battaglie vinte dall’eroe albanese, deposto a memoria che giarda in tutte le direzioni men che meno verso la sua casa di kroje.

Va in oltre precisato che nonostante la minoranza abbia un proprio appellativo identificativo dei centri abitati, ovvero “Katundë”, che identifica un luogo di confronto, movimento o insieme di Iunctura sociale e familiare, in forma di città aperta rinascimentale, priva di classi onorifiche o economiche e, non certo medioevale chiusa, murata e di forma economica piramidale.

Quando nel 1999 ascoltai per la prima volta il teorema di “Gjitonia come il Vicinato indigeno” rimasi a dir poco basito e confrontai quel principio con ogni figura di spicco, i quali rimanevano tutti a dir poco perplessi anche se con sorrisi ironici de condividevano radice e contenuti sociali.

Iniziò così un ‘indagine molto articolata, fatta attraverso figure di eccellenza che a quei tempi erano riferimento storico, antropologico e psichiatrico in diversi dipartimenti universitari del meridione e, nel breve di pochi anni trovai la tessitura anomala di quelle esternazioni a dir poco infantili, anzi direi copiatura storica di un loco di pena e di vergogna.

In tutto, la Gjitonia è il luogo dei cinque sensi, non ha confini materiali e, rappresenta il luogo di formazione diretto dal governo delle donne, confuso genericamente, come traduzione semplice ed elementare come il loco “dove vedo e dove sento” che non è solo sentire a vedere, ma concerto armonico dei cinque sensi, gli stessi che fanno sentire il genere umano sempre a casa con i propri cari.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

È stato lasciato al bando pubblico il teorema secondo cui uno Shëşë è uno spiazzo attorno al quale affacciano porte e finestre gemellate, nonostante la storiografia seria li riconosca come modello di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato, disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa siano Costumi, Strade, Pietanze o quali sianole bevande tipiche ottenute con i distillati di prodotti mediterranei; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte, perché avrete risposte a dir poco inesatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia delle case che parlano e raccontano storia di abusi, tanto nessuna di loro è così leale per farlo, ne tantomeno voi distratti viandanti, potrete cogliere la casa del diavolo che racconta una storia con protagonista esasperato il dio malefico, che li resta arrabbiato.

Altro argomento diffuso e promosso comunemente per i distratti e divertiti visitatori distratti dai midia, sono le incomprese e vituperate “Vallja”, presentate come ironia canora e di ballo, di stragi appena terminate e quindi memoria trionfale, di stragi contro Uomini, Donne, Bambini, Bambine, Asini c Cavalli.

A tal proposito è opportuno precisa re che le Vallje sono le antichissime Carmina Conviviali, feste di gruppi familiari ai tempi in cui non esisteva la scrittura, l’uomo che non conosce la scrittura vive nel mondo magico dell’orecchio e non in quello neutro della vista, in altre parole, per lui il senso più importante è l’udito, è questo infatti il senso privilegiato con cui viene in contatto con l’intero sapere della sua cultura.

In tutte le società a cultura orale le produzioni verbali sono centra­te, in genere, su dinamiche agonistiche, tali culture si ama scon­trarsi verbalmente attraverso lo sbeffeggia­mento, il vituperio verbale, ma anche talora ci si può esibire in lodi tremendamente esagerate ai nostri orecchi.

La stessa conoscenza non è mai astratta, ma è sempre vicina all’esperienza umana ed è, quindi, situata perennemente in un contesto di lotta, in queste culture, «i proverbi e gli indovinelli non vengono usati semplicemente per immagazzinare conoscenza, ma anche per impegnare gli altri in una battaglia intellettuale e verbale: pronunciare un proverbio o un indovinello significa sfidare gli ascoltatori a rispondere con un altro più appropriato, o con uno che lo contraddica.

Il vantarsi del pro­prio coraggio e/o il sarcasmo sul nemico sono atti che regolar­mente ricorrono nella narrativa orale, basti pensare a quanto accade ad esempio al piccolo esercito del Castriota che diede filo da torcere alle armate turche.

La cultura orale è conservatrice, tradizionale, in tutto, sono società magiche e tribali, in breve società chiuse, società fortemente conservatrici e tradizionali in cui la critica, il miglioramento o l’innovazione non vengono favorite, ma guarda­te con diffidenza e spesso osteggiate.

Infatti, «poiché in una cultura a oralità primaria la conoscen­za concettualizzata viene ripetuta ad alta voce altrimenti svanisce presto, le società, che su di essa si basano, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente impa­rato nel corso dei secoli.

sono soliti ascoltare con la fioritura dei sensi e sono disposti a lasciarsi coinvolgere totalmente da colui che parla o che canta, in altre parole, l’uomo della cul­tura orale vive sotto la tirannia del presente.

Egli non ha nei confronti della «verità» storica la nostra stessa sensibilità, in quanto l’inte­grità del passato è sempre subordinata alle esigenze nel presen­te, anche se parte «scomode» o non più «attuali» e, immolate sull’altare della quo­tidianità. 

Le società a cultura orale, infatti, sono riuscite a risol­vere il problema connesso alla trasmissione del loro sapere grazie a una scoperta fondamentale: esse avevano imparato a co­struire contenitori verbali ritmici e formulaici, avevano scoperto la poesia e di essa avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione delle conoscenze e alla trasmissione, da una generazione all’altra, dell’intero loro sapere.

In particolare, le società a cultura orale riuscirono a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica alle movenze di danza.

Nella civiltà moderna si verifica una situazione simile a quella presente nella cultura orale, nei meriti di testi invece che canzoni di successo, che finiscono con l’imprimersi nella mente del grande pubblico popolare grazie alla loro ossessiva e piacevole ri­petizione.

Di fatto, anche nella cultura orale la tecnica più comune per tra­smettere la tradizione era quella della ripetizione o delle rime di ironica partecipazione popolare.

Mentre la poesia epi­ca viene recitata da cantori professionisti, ma anche da adulti e anziani, da bambini e da adolescenti e ciò avveniva durante i ban­chetti, all’interno della famiglia, a teatro e sulla piazza del mer­cato.

Ovvero fare dimostranza attiva della propria storia, ricordando con canti e danze, le tappe della propria identità in diverse attività pubbliche nella stagione lunga; e poi nella stagione corta allevare le nuove generazioni davanti al camino, in forma riservata, e seguiti dal governo delle donne.

A questo punto è il caso di dire: chi è senza peccato di ironiche dicerie culturali scagli la prima pietra, anzi in primo blocco di Adobe per costruire le prime case degli arbëreşë, quelle denominate vernacolari o per necessità, ma qui entriamo in un campo dove solo i formati Federiciano e Olivetaro, hanno titolo per parlare e gli altri devono restare con la bocca chiusa e le orecchie aperte ad ascoltare, altrimenti si finirà per dire ancora per molto “la Gjitonia come il Vicinato indigeno” “le Vallje la battaglia vinta” “lo sheshi la piazzetta dove affacciano le porte e si balla per ricordare il Castriota” “la giornata del Temine si mangiano carne insaccata nelle tombe dei defunti”.

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Aprile 2

IL PENSIERO LIBERALE DI PASQUALE BAFFI E IL PARLATO PRIMO DEGLI ARBËREŞË (Motet i Ghiùhesh Tonë)

Posted on 25 aprile 2024 by admin

Aprile 2NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gli alfabetizzati non comprendono, cosa sia “la cultura orale prima”, ovvero, quella mancante di ogni sorta di scrittura, né immaginano sia possibile valorizzarla, per questo voi che sapete tutto, provate ad immaginare di non dover mai cercare una parola in un dizionario, avrete così consapevolezza che le parole, non hanno una presenza visiva ma un semplice suono di ri­chiamo.

Quando Pasquale Baffi, mi riferisco al primo, grande e unico letterario, nello studio di comparazione della lingua Arbëreşë pubblico, in Svezia, dal 1774 al 1776 perché unico paese europeo ad avere tutti i caratteri dell’alfabeto Greco e Latino per la stampa di Gutenberg.

Scrisse con genio diversi “discorsi” sulla storia della lingua Arbëreşë che vivevano a ridosso della via Egnazia, gli stessi che per sfuggire alla gogna di credenza mussulmana, si stanziarono allocandosi negli anfratti collinari del Regno di Napoli diffusamente, si limitò esclusivamente a comparare questo parlato, con quelle dei viandanti indo europei che li transitavano.

Naturalmente senza azzardo di voler stravolgere con esperimenti alfabetari dirsi voglia, diversamente da come agirono dopo meno di un secolo, prelati e i loro figli copiatori; avviando così, da quei tempi e, ancora oggi con ostinazione, la lingua parlata Arbëreşë di noi e dei nostri a una china giullarescamente scritta, senza eguali.

Un dato rimane inconfutabile, ovvero, se il Baffi nella sua carriera di lettore primo e grande interprete di testi Latini e Greci, sin anche delle forme più arcaiche, oltre ad essere un parlante natio di lingua Arbëreşë, ha ritenuto solo comparare la lingua, senza mai esporsi a fare romanze o alfabetari; un progetto ancor oggi inarrivabile, da lui posto in essere, ritenendo che quel codice, di parole non doveva essere stravolto, dai copiatori seriali senza adeguata formazione.

Allora è spontaneo chiedersi se lui che era ai vertici della cultura, non ha mai posto in essere nulla che violasse la lingua parlata degli Arbëreşë, gli altri a cosa ambivano quando si recavano in chiesa, nei collegi e poi correvano a Napoli per stampare cose per una schiera di analfabeti?

E chi diceva che una prima versione degli scritti sugli Albanesi era stata distrutta per difformità dei caratteri a stampa di Gutenberg, cosa cercavano di nascondere quando diceva che erano stati distrutti quegli scritti errati?

Se a questo aggiungiamo il dato che avere un titolo di scolaretto e merito di chiedere interessi esagerati per grano imprestato, non tifa diventare eccellenza di storia e di cultura, specie se mandante di eccidi, davanti granai e poi perisci in solitudine con gli scritti delle tue vittime pubblicate dai tuoi parenti ignari.

Per millenni l’uomo ha trasmesso le proprie conoscenze con lo “strumento voce” e le informazioni passavano di bocca in bocca al ritmo della lena del pedone.

L’uomo che vive ambiti di cultura orale primaria, pone in essere la cultura che non conosce scrit­tura, non possiede documenti, ma solo memoria uditiva.

Da ciò si deduce che questo popolo conosce solo ciò che ricorda, e per farlo, ha bisogno di formule quale ausilio, da ciò, l’uomo siffatto, ha una relazione con le paro­le profondamente diverso dagli alfabetizzati, in quando fanno uso più dell’udito che del visivo.

Dei suoi sensi l’orecchio è considerato il più importante, specie in una cultura in cui non esistono testi scritti a mano o stampati, e il sapere si sostiene perché disposto in memoria.

In tali ambiti culturali, si ricorre articolare le conoscenze in pensieri memorabili, in altre parole, il pensiero nasce all’interno di moduli bilanciati con solidità di contenuto ritmico.

Esso per questo viene strutturato in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in tutto, epiteti ed espres­sioni formulaiche, in temi standard, o proverbi costantemente uditi da tutti i partecipanti, in forma di rammentati facili, formu­lati per un semplice apprendimento di ricordo; ovvero, for­me di funzione mnemonica, intrecciata a sistemi determinati di sintesi.

Nella cultura orala primaria, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa molto ritmica, con forme di ballo, in quanto, il ritmo aiuta la memoria anche dal punto di vista fisiologico.

A tal fine è noto il solido legame fra modelli ritmici orali, del pro­cesso respiratorio, in gesti e simmetria bilaterale del corpo uma­no e, sin dai tempi delle antiche parafrasi Aramaiche e Greche del Vecchio Testa­mento, sin anche dell’Ebraico Antico.

Tutte queste popolazioni, passava­no la vita «ruminando» in continuazione, brani della Scrittura, ma tale loro incredibile performance mnemonica (per i culturali parametri odierni) era resa possibile anche dal fatto che il testo sacro era stato trasmesso per secoli oralmente.

Tutto questo avveniva o posto in essere secondo un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile, ma purtroppo, queste caratteristiche di memoria, sin anche della Bibbia, sono andate disperse nelle traduzioni delle lingue moderne.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quintessenziali.

In tutto resi, proverbi e mas­sime come ad esempio: Rosso di sera bel tempo si spera; Divide et im­pera; Sbagliare è umano perdonare è divino; Il lupo perde il pelo, ma non il vizio; Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore.

A tal fine esistono diverse frasi brevi, secondo le quali le giovani generazioni Arbëreşë erano allevati, come ad esempio; Kicchiricchi këndonë Ghielli e Sofia te Kangelli; kushë kianë, kianë pulari e Sofia thë kamizari; gnë gherë jshë gnë mij, ghiri thë ghë shëpië………

Tuttavia nelle culture orali esse non sono espressioni occasionali, perché formano la sostanza stessa del pensiero e, senza di loro è impossibile un pensiero che abbia una qualche durata, poiché esse lo costituiscono.

Nelle culture orali primarie, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti che posseggono una memoria di ferro.

La memoria è la custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato se non con l’aiuto della scrittura e, per quanto raffinata non sarebbe perciò conoscenza duratura, ma solo pensiero fuggevole.

Una cultura orale possiede caratteristiche particolarissime che appaiono decisamente insolite a chi si è formato nella galassia Gu­tenberg o vive nel mondo della parola elettronica.

L’uomo del­l’oralità primaria ha con la dimensione storica e del sacro, con gli altri e con sé stesso, con il linguaggio e con la poesia rapporti diversi da quelli che hanno gli uomini della parola scrit­ta.

L’uomo che non conosce la scrittura vive nel mondo magico dell’orecchio e non in quello neutro della vista, in altre parole, per lui il senso più importante è l’udito, è questo infatti il senso privilegiato con cui viene in contatto con l’intero sapere della sua cultura.

Ma il mondo dell’orecchio è «un mondo caldo e iperestetico mentre il mondo dell’oc­chio è relativamente freddo e neutro.

L’uomo biblico, ad esempio, è per antonomasia l’uomo dell’a­scolto, infatti, nell’Antico Testamento il verbo ascoltare ricorre da cin­que a sei volte più frequentemente del verbo vedere.

In tutte le società a cultura orale le produzioni verbali sono centra­te, in genere, su dinamiche agonistiche, tali culture si ama scon­trarsi verbalmente attraverso l’insulto reciproco, lo sbeffeggia­mento, il vituperio verbale, ma anche talora ci si può esibire in lodi che suonano tremendamente esagerate ai nostri orecchi.

Del resto, in una cultura orale, la stessa conoscenza non è mai astratta, ma è sempre vicina all’esperienza umana ed è, quindi, situata perennemente in un contesto di lotta.

In queste culture, «i proverbi e gli indovinelli non vengono usati semplicemente per immagazzinare conoscenza, ma anche per impegnare gli altri in una battaglia intellettuale e verbale: pronunciare un proverbio o un indovinello significa sfidare gli ascoltatori a rispondere con un altro più appropriato, o con uno che lo contraddica.

Il vantarsi del pro­prio coraggio e/o il sarcasmo sul nemico sono atti che regolar­mente ricorrono nella narrativa orale, basti pensare a quanto accade ad esempio fra Davide e Golia.

La cultura orale è conservatrice, tradizionale, in tutto, sono società magiche e tribali, in breve società chiuse, società fortemente conservatrici e tradizionali in cui la critica, il miglioramento o l’innovazione non vengono favorite, ma guarda­te con diffidenza e spesso osteggiate.

I motivi di questa propen­sione alla difesa della tradizione sono molteplici, ma tra i princi­pali va posto quello inerente ai processi comunicativi propri di tale cultura.

Infatti, «poiché in una cultura a oralità primaria una conoscen­za concettualizzata che non venga ripetuta ad alta voce svanisce presto, le società che su di essa si basano devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente impa­rato nel corso dei secoli.

Gli uomini della cul­tura orale, pertanto, sono un pubblico più caldo e rumoroso del pubblico della cultura tipografica.

Essi sono soliti ascoltare con la piena fioritura dei sensi e sono disposti a lasciarsi coinvolgere totalmente da colui che parla o che canta.

In altre parole, l’uomo della cul­tura orale vive sotto la tirannia del presente, ricorda solo ciò che è utile per la sua esperienza quotidiana. Egli non ha nei confronti della «verità» storica la nostra stessa sensibilità, in quanto l’inte­grità del passato è sempre subordinata alle esigenze nel presen­te. Ecco perché parti «scomode» o non più «attuali» del passato vengono ben presto dimenticate, immolate sull’altare della quo­tidianità.

A livello linguistico, tutto ciò comporta che in quelle culture so­pravvivano solo le parole che sono di uso quotidiano e che termi­ni arcaici possano rimanere in circolazione solo se entrano a far parte del vocabolario specializzato dei poeti. Ma anche in questo caso esse rimangono in vita sin quando vengono quasi quotidia­namente usate, altrimenti anch’esse sono destinate a svanire.

 

Le società a cultura orale, infatti, erano riuscite a risol­vere il problema connesso alla trasmissione del loro sapere grazie a una scoperta fondamentale: esse avevano imparato a co­struire contenitori verbali ritmici e formulaici.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione delle conoscenze e alla trasmissione, da una generazione all’altra, dell’intero loro sapere.

In particolare, le società a cultura orale riuscirono a conservare una memoria sociale collettiva associando la poesia alla musica e alla danza.

Nella civiltà moderna si verifica una situazione simile a quella presente nella cultura orale, nei meriti di testi invece che canzoni di successo, che finiscono con l’imprimersi nella mente del grande pubblico popolare grazie alla loro ossessiva e piacevole ri­petizione.

Di fatto, anche nella cultura orale la tecnica più comune per tra­smettere la tradizione era quella della ripetizione o delle rime di ironica partecipazione popolare.

Mentre la poesia epi­ca viene recitata da cantori professionisti, ma anche da adulti e anziani, da bambini e da adolescenti e ciò avveniva durante i ban­chetti, all’interno della famiglia, a teatro e sulla piazza del mer­cato.

Ovvero fare dimostranza attiva della propria storia, ricordando con canti e danze, le tappe della propria identità in diverse attività pubbliche nella stagione lunga; e poi nella stagione corta allevare le nuove generazioni davanti al camino, in forma riservata, e seguiti dal governo delle donne,

Per mantenere viva la tradizione, la memoria doveva essere esercitata continuamente e consolidata in ogni avanzare delle attività sociali.

Il cantore epico trasmetteva, in modo piacevole, ai suoi ascoltatori l’intero sapere giuridico, storico, religioso e tecnolo­gico del proprio tempo.

Resta un dato fondamentale, ovvero se l’intellettuale primo della cultura Arbëreşë tracciata da una figura che ha vissuto le sue stagioni colme di principi morali, perché oggi non è ricordato come esempio della minoranza; allora un problema di fondo ci deve esser stato, in favore di quanti oggi vanno per la maggiore sul palcoscenico da cui si rivolgono alla platea incosciente, dichiarandosi in colpevoli del danno prodotto per aver voluto promuovere Monastir e non il genio del parlato delle Terre di Sofia.

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RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

RITI E TERMINI RIVOLTI FUORI DAI MODELLI DI MEMORIA E CREDENZA POPOLARE (Na cèlljimë cocelljenë me thë şcruituratë e Bulljervetë)

Posted on 02 aprile 2024 by admin

Senza titolo

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Tutti i popoli hanno un percorso evolutivo unico, sostenuto da uomini, fatti, cose e luoghi; nasce a seguito di questo principio, circa sessanta anni orsono, la mia passione per comprendere e capire la storia degli Arbëreşë.

Chiaramente non come quella interpretata da prelati, guerrieri, artigiani, contadini, naviganti, i quali, per le succulente storie locali poste in essere, non trovarono alcun giovamento, per il continuo atto di riversare cose e fare storia.

Alla luce di questi minimali principi posti in essere e, non avendo giusta consapevolezza della mancanza di contenuti nel definire la leg.482/99, che doveva risolvere ogni cosa, avendo come principio la Gjitonia come il Vicinato dove si prestano cose, lo stato in cui si trovano i paesi su citati non lascia liberi certamente orizzonti di tutela mirata.

Ha avuto inizio, per queste e altre cose che qui si preferisce non citare, il pellegrinaggio attraversò i cento e nove Katundë, più la capitale Napoli Greco Bizantina e di Iunctura Alessandrina, con il raccogliere, verificare, incrociare e confrontare in loco, documenti, materiali, consuetudini, genio e credenze Arbëreşë.

Una ricerca nuova che al solo pensiero che possa essere resa pubblica fa tremare quanti da secoli ripetono e diffondono comuni cose senza ragione e senza avvertire, quanto e come offendere chi si è prodigato riversando studi e principi di altre eccellenze.

 La memoria popolare per questo, pone in essere e ripropone eventi o appuntamenti annuali, seguendo lo scorrere del tempo, dando forza alle memorie locali con riti, processioni ed eventi, che dal giorno del termine a febbraio e, senza soluzione di continuità accompagnano e mantengono vive le consuetudini della propria identità locale.

Tuttavia queste fanno come l’acqua, non seguono il tempo che scorre imperterrito e non si ferma mai, ma cambia destinazione e va per vie diverse al mare, che accoglie sempre ogni cosa che li si reca.

I riti di cui qui si vogliono trattare o discutere per comprenderli e valorizzarli meglio sono quelli che interessano la Regione Etnica Diffusa Accolta e Sostenuta Kanuniana dagli Arbëreşë.

E’ ormai da ben oltre cinque decenni che i riti e le rievocazioni, religiose e di credenza popolare anno perso ogni radice storica e per questo presentate più come momento folcloristico per il turista distratto e poco interessato all’evento e, non accumunano e riportano le genti residenti locali a una rievocazione che dia senso e agio alla propria identità che di anno in anno degenera e diventa sempre più flebile.

Gli appuntamenti di memoria culturale sono molteplici ad iniziare dal Matrimonio, le feste di credenza, il giorno dei morti, le feste patronali, il giorno dell’insediamento, l’inizio della stagione lunga (l’Estate), la fine di questa e l’inizio della stagione corta (l’Inverno) e cosi a ripetere.

Momenti di condivisione che rispettavano, rigidi protocolli dentro il perimetro di credenza e nelle sue prossimità, per poi via via essere espressione laica, ma sempre rimanendo entro un protocollo permissivo che non deve essere mai degenere o miscredente.

Tuttavia e purtroppo, il senso degenere in specie quello pubblico, da diversi decenni va per tangenti e diventa sempre più allegoria o meglio spettacolo da stadio.

Seminando così fatuo e ilarità a dir poco indecenti, e si immaginano sempre di più, a cose che non hanno nulla da spartire o vedere con la storia locale di quel preciso evento, quando si va fuori dal perimetro religioso.

Le libere interpretazioni civili, negli ultimi decenni, sono alimentate sempre meno di protocolli locali e lasciati al libero arbitrio di gesti e cose inconsulte e senza attinenza, da un vero e proprio vortice di copia inconsulto, sempre più scellerato, per fini privati o per emergere protagonisti, con l’arroganza che sia giusto riportare all’interno di un percorso intimo locale, le cose che attraggono il viandante organizzato.

Gli avvenimenti e le cose riportate, anche se hanno luogo in diverse macroaree e per altri avvenimenti, si applicano nell’inconsapevolezza, che sono altra cosa o rappresentazione, senza avere accortezza che non centrano nulla di locale cosi come riportato, perché copiato in altro luogo.

Ormai le cose sono poste, tutte in essere, non avendo come lume l’originario senso di quella ben identificata ricorrenza, ma secondo un principio moderno locale segue “discorsi nuovi” finalizzato a stravolgere la tradizione.

Tutto questo secondo una diplomatica che accomuna viandanti distratti a esecutori incoscienti locali, i quali si spera partecipi senza cuore o ragione, fanno tutto per la goffaggine esponendosi ignori del componimento e, fanno lacrimare sangue al cuore di chi conosce quell’evento locale.

È chiaro che richiamarli o redarguirli dalla platea, è un atto vano, giacché, viene inteso come consenso, acclamazione o lagna di un protagonista mancato, assumendo per questo gli attori del palco, la funzione sin anche di cattedratici o istitutori di un nulla che per loro si basa sul teorema che nessuno sa e, quindi posso essere o fare senza vergogna sempre cose più degeneri.

Cosa riassume questo stato di cose oggi stese alla luce del solo fu il cantautore Francesco Guccini, un anno prima che io iniziassi, ovvero nel 1976 a prevedere tutto quello che sarebbe accaduto e qui riporto il testo a mia misura;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni;

Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni (Nuova Storia);

Va beh, lo ammetto e mi son sbagliato e accetto il “crucifige” e così sia

Chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato;

Mio padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante;

Mia madre non aveva poi sbagliato a dir: “Un laureato conta più d’un cantante”;

Giovane e ingenuo ho perso la testa, sian stati i libri o il mio provincialismo;

E un cazzo in culo e accuse d’arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta;

Voi critici, o voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa;

Però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;

Io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi;

Vendere o no non passa fra i miei rischi, non avrete mai i miei “dischi” e sputatemi addosso;

Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a “cantare”;

Godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare;

Se son d’ umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie;

Di solito ho da far cose più serie, costruir su macerie o mantenermi vivo;

Io tutto, io niente, io stronzo, io ubriacone, io poeta, io buffone, io anarchico, “io architetto” io fascista;

Io ricco, io senza soldi, io radicale, io diverso ed io uguale, negro, ebreo, comunista;

Io frocio, io perché canto so imbarcare, io falso, io vero, io genio, io cretino;

Io solo qui alle quattro del mattino, l’angoscia e un po’ di vino, voglia di bestemmiare;

Secondo voi ma chi me lo fa fare di stare ad ascoltare chiunque ha un tiramento?

Ovvio, il medico dice “sei depresso”, nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento;

Ed io che ho sempre detto che era un gioco sapere usare o no di un qualche metro;

Compagni il gioco si fa peso e tetro, comprate il mio didietro, io lo vendo per poco;

Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni;

Voi che siete capaci fate bene a aver le tasche piene e non solo i coglioni;

Che cosa posso dirvi? Andate e fate, tanto ci sarà sempre, lo sapete;

Un musico fallito, un pio, un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate;

Ma s’io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso;

Mi piace far “canzoni” e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso;

E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare;

Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto;

Questa santa previsione, ebbi modo di ascoltarla e comprenderla subito perché il Nipote di Celestino “detto Gelèu” e dicevano a quel tempo, che avessi pure la tessa voce, e qui aggiungo solamente: Grazie Guccini, di aver previsto tutto questo; io il tuo disco lo comprai, lo diffusi, grazie il primo stereo che portai in paese nel 1976, in quella Trapeso, dove si diceva andassero i poveri di ogni cosa, a raccogliere gli scarti della mensa Arcivescovile e, nonostante ciò a nulla è servita la tua “avvelenata e il mio impegno profuso”.

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ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

ADRIATICA RIBOLLITA di BUGIE ESALTATE e RIVERSE tra ITALIA e ALBANIA “A.R.B.E.R.I.A.”

Posted on 31 marzo 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ad oggi bisogna accertarsi e con parsimonia delle cose che del palco su cui si è partecipi a diffondere cose senza senso storico e, per il solo fine di stupire turisti e comuni viandanti sempre affamati o pronti a digerire ogni cosa commestibile/fumosa, dirsi voglia.

Accertato che sia uso comune riportare teoremi riversati, secondo il tempo e le occasioni che corrono, qui in questo breve, si cerca di fare chiarezza a largo spettro per poi stringere la mira su luoghi, fatti, cose, uomini e in dettaglio illustrarle.

Tracciare un percorso storico e identificare cosa ha reso possibile, nella penisola mediterranea, le forme di accoglienza e integrazione, senza avere consapevolezza della “Regione Etnica Diffusa Kanuniana Accolta e Sostenuta per gli Arbëreşë “denota come siano stati condotti gli studi e i relativi approfondimenti utili ad interpretare contenuti di archivio, biblioteche o notarili atti, relativi ai trascorsi di questa chiacchierata minoranza.

Il tutto, non conduce certamente a risultati con il comunemente divulgato identificativo di radice, secondo cui una porzione della odierna Albania Balcanica, che geograficamente è allocata al centro nord estremo, denominata storicamente Arberia è la patria di quanti vantano radici di cultura Graca che si trova al sud della stessa nazione, e tutti; non hanno mai danzato per aver trionfato in  guerre o fatto stragi.

Nasce così la necessità, di una nuova indagine, secondo cui a migrare dopo la morte dell’eroe Giorgio, il 1468, non furono solo la gente del nord, o del sud, ma da tutta l’antica terra balcanica, ma diffusamente venne lasciata nelle mani di quanti si prestarono ad essere piegati secondo credenza d’oriente.

Poi se si odono le diffuse Vallije allestite in azioni mirate, emerge la necessità di analizzare le cose della nostra storia con più attenzione, racchiuso nel componimento a titolo di questo breve.

Sostantivo acerbo, amaro e forgiato, o addirittura, fumosa opera di comuni viandanti, che presentano pietanze garantite, da precedenti viandanti, per questo genuine, in quanto “benedette”, con rametti di origano intrise nell’ aceto, come fanno “le Jannare”.

Tuttavia, e con pena immensa, in questo breve, si vuole evidenziare, senza affondare nel citato pantano “benedetto”, e mi riferisco a quel trapeso, ormai non più, né Terra e tantomeno luogo o memoria condotta delle tre figlie; Fede, Speranza e Carità, che nel contempo hanno preferito, minareti a campanili.

Qui in questi ambiti stretti e lunghi, che fanno centri antichi, come la natura preferisce, hanno avuto i natali le figure di eccellenza più elevate tra gli Arbëreşë, grazie al presidio scolare monastico denominato “ Arcivescovile”, elevato alla fine del XVI secolo, giacché, luogo ameno soleggiato e difeso dalla natura,  per questo ha dato avvio alle formazione culturale di numerose figure locali su base greca e Latina e diventare eccellenza, quali prelati, rappresentati di cultura e legalità, i quali nel breve tempo di pochi decenni riecheggiarono ben oltre i confini del regno e dell’Italia unita, perché esempi di cultura prima irripetibile.

Una vera scuola che da questi luoghi di Terra che richiama le finezze Alessandrine, ed è qui si vuole accennare anche il nero che si alimentava dei reflui del butto vescovile, per poi diventare vergogna nel decennio francese.

Lo stesso che violando il senso di Terra, se si esclude l’elevato Romanico del XVIII secolo, elevato ancor prima dello scuro natalizio, a seguito del quale, il calvario di questo luogo, non ha avuto soluzioni di continuità, visti i risultati della profonda deriva che pur se nota, fa danno.

Essa inizia il 1799 a Napoli, con l’episodio dell’arresto, la conseguente esecuzione e il su drammatico epilogo di cattiva esecuzione di Pasquale Baffi, a cui segue con la costituzione del vergognoso monte del grano lungo la odierna Via Masci, un elevato costituito in elementi di esclusiva spogliatura tellurica.

Qu sono nate le figure che hanno immaginato aperto e poi chiuso quanto divenne esausto il presidio culturale della terra citeriore, fulcro culturale atto a indicare la via dell’unità, culturale, sociale, politica, religiosa e dei segni, in tutto, un cerchio perfetto descritto da un compasso buono, che senza mai apparire o averne avuto mai merito, ha posto in essere, solo bene per i vicini fraterni.

La deriva vera è propria ha inizio, con la strage, avuto luogo dal 12 al 18 agosto del XIX, lungo i lavinai di Terra a terminata davanti a un privato granaio, ma con pegno poi pagato, sedici anni dopo, alle spalle dei granai della capitale del regno, per ironica sorte; e da allora sempre con più veemenza si è lasciato spazio e tempo alla libera deriva.

Una vera e propria pandemia culturale che sparge gratuita cattiveria, perché di regia diavolesca, la stessa che vive e vegeta in questi luoghi e se non si corre e passare con urgenza, a rifoggiarla, di questo centro antico, non rimarrà più nulla.

Va sottolineata la parentesi avuta luogo e tempo nel XX secolo, una fiamma di ripresa durata sino alla metà degli anni cinquanta, epoca in cui venne allestita sin anche la Festa dell’estate o meglio l’inizio dell’integrazione, spenta sempre di più dai venti sessantottini, che hanno generato un vortice culturale secondo cui erano battaglie o stragi per il santo patrono: Vallje.

E negli anni ottanta si è dato inizio, con al calpestare la toponomastica, affidandola a ignari viandanti indigeni, iniziando così a produrre e allocare, progetti in elevati, allestendo percorsi pubblici per i quali sono stati cancellati o rimossi: sedili, fontane, varchi, vichi e ogni oggetto vernacolare di Iunctura storica.

Furono così trasformati i luoghi ameni, in parcheggi per autovetture d’occasione o foriere senza stagione e, in alcuni casi cancellare completamente gli antichi e valorosi percorsi da soma, in regola Kanuniana.

Non sono state rispettate scalinate, vichi, orti botanici, aie, sottoportici e tutti i lavinai, i quali senza riguardo, sono stati sotterrati con croci parallele in ferro, a memoria perpendicolare, in favole di inutili percorsi veicolari senza alcun bisogno condiviso, disperdendo il senso generale dell’impianto urbano di “Iunctura storica”, la stessa che fa di questi luoghi “NON BORGHI”.

Cosa dire poi della sovrapposizione o la deposizione per le memorie storiche locali, le quali sono menzionate e ricordate in episodi che ritenere inopportuni è dire poco offensivi se non ironici, in molti casi, ma tutto ciò non è nulla,     se accenniamo come la cultura, qui è stata violata, con episodi secondari o di infantile interpretazione, coinvolgendo sin anche le massime autorità, che distratte partecipano ed elevano i neri calpestando il bianco fatto di pene, sacrifici e principi violati.

E come se non bastasse, sono state sin anche violentate le prospettive storiche, dagli inizi degli anni novanta del secolo scorso, sostituendone il valore materico, che le rendeva uniche, elogiando madri comuni con quelle chiuse nel dolore, completando l’opera ritenendo che un centro antico sia il luogo dove depositare coloriture alloctone di altri paralleli terrestri, per seguire la moda che anche in questi luoghi ameni, solo la globalizzazione poteva ferire e uccide, con incosciente giubilo e senza rimorso della pena inflitta a Clementina.

Adesso inizia l’estate per gli Arbëreşë, con tempi e ritmi in gruppi di genere che innalzano Vallja; a questo punto è il caso di suggerire con il vestitevi in costume, ricordando che quelle vesti sono bandiera e, nel portamento sarebbe il caso di fare gesti garbati e mai inconsulti, specie per la memoria e l’onore di “vostro padre”, come tradizione vuole.

Ricordate che quando cantate, chi vi sta accanto, alterna vocalità di genere, per poi terminate nel canto che unisce voi e gli altri, riverberando in questi ambiti ameni, i valori di fratellanza in terra parallela quella solida ritrovata, naturalmente.

 

P.S. per quanti cercano di fare, dire o enunciare:

  • La Sposa in Pubblico, danza saltella, non fa sollevare le vesti, non fa coda o ruota,  né prima di esser sposa, aver al collo la fascia nera;
  • Bërlòcù, non è ne per bimbe o adolescenti; ma è solo per donne adulte che fanno famiglia, perché maritate;
  • Lavina Jònë; è dove il tempo, l’acqua, vanno per mano e riempiono buche, e fanno strade;
  • Chi non sa e conosce le Vallije, leggesse Serafino Basta dottore di Civita -1835;

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L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI E DISEGNA, PERIMETRI DI CASE, VIE, VICHI E PIAZZE (Chi Studia Tutela Valorizza e Tramanda)

Posted on 25 marzo 2024 by admin

sale

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’acqua scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, le persone che osservano dalle rive desertiche, prendono spunto dai suoi suggerimenti, e costruiscono con il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare storica memoria, ai luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva, come: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Cangellë, Sentinë, Morrë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Valga come esempio primo il Lavinaio, refluo torrentizio che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, grazie al fondamentale corso naturale dove attingere sabbia per la crescita dell’edificato originario.

Risorsa offerta dalla natura, dove fermata la sabbia con apposite barriere, in diverse grammature ed usi, grazie alle quali, venne sin anche edificata la chiesa padronale di estrazione latina del Katundë arbëreşë.

Qui grazie allo scorrere dell’acqua, operosa nel rifinire la sabbia, nel tragitto che faceva sino a valle, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare si depositavano finemente in diversa grammatura, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere nel fiume. 

In tutto acque che scendono da monte, segnando i tracciati, poi divenuti progressivamente strade vichi e scalinate, in quel tempo, fondamentali per orientarsi, secondo un progetto naturale, del centro antico in crescita.

Il tutto, fu poi per opera dell’uomo, percorso che conduce nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace, o tiene velate cose, tuttavia rimane vigile e in attesa che le sia ridata voce, dove essa scorreva o cadeva, segnando il luogo e la storia.

Infatti è stato sufficiente lasciarla libera di scorrere, affinché componesse secondo natura, quei percorsi ben seguiti dagli uomini, perché espressione di iunctura; o meglio tessitura fatta di trame di acqua e di tempo, ben accolta dall’uomo, che non le ha più abbandonate.

Ho sempre immaginato, che l’edizione di un testo, portato a buon fine, potesse sollecitare i migliori propositi revisionando e arricchi­re le cose della storia e la scienza in contenuti senza riserve, in tutto dare vivacità e “freschezza” come lungo i lavinai del passato, hanno consentito di attingere e poi in epoca moderna fa lo scorrere condiviso dell’acqua, che appartiene indistintamente a tutti.

A tal proposito si vuole sottolineare quel due di maggio del 1935, quando furono invitati tutti i fruitori in Terra di Sofia, in un luogo comune su base ottagonale, perché identificato luogo religioso sociale e religioso dei cinque sensi, per fare una festa e accogliere l’acqua nuova, senza distinzione di rioni o Gjitonie, ma rappresentanza di tutto il centro antico a quei tempi in spasmodico ardire per essere rilanciati, dopo il secondo inverno nero mondiale.

Lo stesso che dagli anni ottanta del secolo scorso, venne strappato dalla prospettiva dell’intellighenzia beneaugurante degli ignari di turno, posto molto di lato, senza una cognizione di causa, perché già prima era stato negato anche lo scorrere del fondamentale liquido naturale, che unisce e disseta le menti dei giusti.

Ed è così che il deserto storico, sociale e religioso ha iniziato a prendere il sopravvento; la pietra cementizia ottagonale, diventata desertica e, per diversi decenni, poi apparisce impropriamente alimentato con riciclo infantile, con la speranza che unisca persone a cui si vieta di usarla, in tutto impedire quegli atti sociali e di fede, che uniscono e dissetano le persone e le cose genuine.

Ed è così che il quadrangolare fontanazzo evidenzia solamente le pene dell’acqua, che non scorre come fa la Storia, ma gira su sé stessa, come un cane che cerca di mordersi la coda.

In questo breve sicuramente mancherà la citazione degli attori principali ma, il testo resta un esame di eccellenza, perché da quando il riciclo ha avuto inizio, la Storia del Katundë dove tutto è diventato piatto e non sfogliare pagine di storia buona, come fa l’acqua.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico sempre presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Katundëtë; dove oggi il tempo e l’acqua, van per mano e riempiono buche, e ingannano il comune viandante ignaro.

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I PAESI ARBËREŞË DA VISITARE ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DA VIANDANTE (Janë e na vighë ghindë zotë e i mami për lindrunërà)

Posted on 20 marzo 2024 by admin

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Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono comunità alloglotte insediatasi, con i relativi modelli abitativi nel meridione italiano, fatta di tradizioni, parlate, uomini, religione e, una solida Iunctura culturale, ancora inesplorata, in specie dai percorsi turistici che contano.

Queste macroaree sono episodi della storia mediterranea che non mutato, resilienti nel corso dei secoli, in tutto, modelli di integrazione e convivenza sociale, tra i più solidi e duraturi della penisola Italiana.

Genti che per convivere non hanno dovuto fare uso di scontri, prevaricazioni o sottomissioni di sorta con gli indigeni locali, ma convivenza di “civile Gjitonia”, quella portata dalle colline dell’oltre adriatico e, innestata nel meridione italiano.

Gli stessi ambiti segnati, prima dai Greci fannulloni, poi da Bizantini e Longobardi in lotta, seguiti dai monaci Cistercensi dei fortilizi di grancia, in quelle terre note, o facilmente individuate, in epoca moderna come Regno di Napoli, oggi Italia centro meridionale.

Ed è qui che le genti, in specie Arbëreşë, non hanno mai smesso di valorizzare e mantenere vive le antiche tradizioni o le cose portate nel cuore e nella mente dalle loro terre di origine dai Balcani.

Le stesse poi depositate in questi “Paralleli Meridionali” con rispetto, saggezza e genio di luogo, mostrandosi sempre operoso e mai distrarsi nell’assumere atti di protagonismo o prevaricazione verso gli altri.

Questi Agglomerati o Nuclei Abitativi Aperti, in stretta aderenza ai cunei agrari e della trasformazione, relativi, si identificano in Katundë.

Essi non hanno nulla a che vedere con gli impianti medioevali murati ai piedi di castelli o i sistemi in difesa o circoscritti dirsi voglia, identificati come “Borgo”.

In quanto gli Arbëreşë, facevano uso di modelli abitativi aperti e non murati, la unica difesa era l’impianto urbano di lenta percorrenza o di “iunctura familiare”, più idonei delle banali e violente mura o elevati, per dividere le classi sociali dall’agro operoso.

Qui tutto era familiare tutto era condiviso e nulla poteva essere violato o prevaricato da altri, chiunque essi fossero, e non poteva essere considerato mira per emergere.

Tutti i centri antichi e i relativi cunei agrari Arbëreşë, oggi sono itinerari molto suggestivi e colmi di significati antichi, anche se la poca attenzione che molte amministrazioni governative e locali, in diversa misura, usano rivolgere per identificarli, tutelarli senza mai valorizzarli e tutti, danno la misura con il definirli, identificarli o appellarli comunemente in “Borghi”.

Nonostante sia evidente che, se un Borgo risulta essere un sistema chiuso, un Katundë e un sistema aperto, se un Borgo ha diverse classi sociali, un Katundë vive di parità sociale, se un Borgo ha la nobiltà a guida sociale e politica, un Katundë vive del governo operoso degli “uomini” e delle “donne” che amministrano le cose in egual misura e cooperazione, senza mai superare i limiti di competenza civile tra generi.

Tutti i paesi, Villaggi, Contrade, Frazioni, Katundë minoritari, hanno caratteristiche distintive simili, sia nella disposizione dei rioni e, degli elementi urbanistici/architettonico, in tutto, un esempio di storia urbana di città aperta.

La stessa vissuta al fine di integrarsi, confrontarsi e dare agio ai loro abitanti senza distinzioni o elitarie di sorta e, nonostante la peculiarità che anticipava i tempi delle società che ancora oggi annaspano, solo a pronunziare quello che per gli Arbëreşë era regola, questi paesi vivono solitari e senza alcuna legge che tuteli questi aspetti, nel mentre si valorizzano, esclusivamente le forme idiomatiche appellandole di lingua altra.

Lasciano per questo, gli impianti urbani e le valenze Vernacolari alle ire del tempo, alle attività ideologiche della politica e al riversamento dei contenuti storici ad opera dei castellani, sempre più ostinati a credere che nel deserto si possa trovare una fonte di vino buono.

Le stesse ideologie locali che ad oggi giorno, la politica e delle metropoli moderne, sognano quale ideale irraggiungibile, ipotizzandoli solo come percorsi scolari e nulla più.

Nonostante, tutti questi piccoli centri antichi e, i loro cunei agrari fossero in origine abitati da indigeni, ma le vicende della natura, in forma di carestie, terremoti e pestilenze diedero modo di essere abbandonati e lasciati all’incuria di tempo affiancata dalla natura, solo grazie alla caparbietà degli Arbëreşë, questi oggi appaiono fieri sostenuti dai valori maturati, tra uomo e ambiente naturale preservato in maniera egregia.

Ed è la Calabria dove si contano circa sessanta tra paesi e frazioni o casali, su quattrocento sette, della regione intera, di Katundë Arbëreşë mentre tutto il meridione in sette regioni accomuna, ventuno macroaree in oltre cento dieci paesi con Napoli Capitale.

Questi tutti e senza alcun dubbio storico, sono caratterizzati da fenomeni sociali dove non vi era alcuna forma di borghesia o nobiltà altolocate se non, la nobile arte del prete di dire messa, per i quattro rioni tipici, secondo i quali si componeva la iunctura della; Chiesa Kishia, il fulcro, di unione tra i rione degli indigeni locali: Ka rinë rellët; Bregu per l’avvistamento e il controllo del centro in espansione; Kalive le tipiche residenze disposte in modelli articolati e lineari dagli Arbëreşë; che poi diventano componimenti urbani o perimetro del nuovo centro urbano denominato; Şëşi, (in Arbëreşë) e l’insieme formava un Katundë, che in Arbëreşë, ha il senso di luogo di confronto e di movimento operoso.

Indicavo un numero complessivo dei Piccoli centri antichi aperti, della Calabria e, solo di quelli ricollocati e innalzati dagli Arbëreşë, esclusivamente in zone collinari, oltre la quota, livello mare di quattrocento metri.

Questi, rispettivamente: molti hanno conservato il senso totale delle linee guida urbanistiche, architettoniche e i valori identitari; pochi anno parso le direttive religiose; e, pochissimi solo la memoria toponomastica.

In Calabria i paesi Arbëreşë sono allocati in quella che si identificano in tre itinerari delle Provincia di Cosenza, Crotone e Catanzaro; la prima con la Macroarea della Cinta Sanseverinese, suddivisa in sub m.c., del Pollino, delle Miniere, della Mula e, della Sila Greca; la seconda, con la Macroarea del Centro Jonico; la terza; con la Macroarea dei Due Mari, Tirreno e Jonio, quest’ultimo identificato come il confine storico del Gran Ducato di Calabria o del thema di Reggio Calabria della Costantinopoli imperiale.

Per quanti volessero addentrarsi all’interno di questi ambiti e rivivere sensazioni antiche, che neanche la globalizzazione ha ancora fermato; la prossima stagione lunga, ormai iniziata, (ovvero l’Estate) sia il motivo valido per recarvi, come residenti della breve sosta, assumendo le vesti di chi torna a casa propria, e si trova a vivere o avvertire i cinque sensi natii.

Per questo è il caso di risiedere nei presi e poi recarsi e fermarsi, simulando stanchezza per cogliere in ogni anfratto di questi luoghi, i fatti e attività sociali dal modello dei cinque sensi, ovvero al Gjitonia, dove si ode e si sentono, valori antiche che in nessun luogo è possibile rivivere.

L’antico governo delle donne, ovvero madri sorelle, zie e nonne instancabili che preparavano le nuove generazioni, ripetendo quelle attività che ancora oggi non smettono di esistere e dare vita a ogni nuovo fiore di genere, che qui ha la fortuna di nasce e crescere, pensando prima e parlando dopo in Arbëreşë.

Non chiedere mai cosa sia uno Shëşë, noti in storiografia come moduli di Iunctura urbana, in tutto, un componimento urbano articolato e disposto in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpij), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redhë).

O cosa sia Gjitonia, Costumi, Strade, Pietanze e bevande tipiche; non chiedere mai cosa e come erano innalzate Case, Chiese e Palazzi, o quali vestizioni tipiche usavano le donne e cosa rappresentassero in senso identitario della credenza e, dove siano avvenute, nascite, soprusi o malefatte.

Non addimandate di essere accompagnati, per essere raccontata la storia di quei luoghi, ma cercate di cogliere i valori che ogni persona è in grado sviluppare, nell’attimo in cui siete avvolti dal silenzio che innescano questi luoghi e sensibilizzano i vostri cinque sensi.

Solo così potrete avvertire attimi irripetibili e, vi troverete immersi in una dimensione nuova, fatta di odori, sapori, suoni, e prospettive, che se accarezzate con le mani lievemente, diverrete anche voi nuovi abitanti di questi luoghi colmi di storia e di leale passione, la stessa che rende e accoglie il passante che vuole vivere momenti non per distrarsi ma per essere migliore.

Mi raccomando, visitate i paesi Arbëreşë, non come turisti distratti, ma come figli che tornano nei luoghi materni.

Se poi la scintilla di tutto ciò non si innesca, chiedete dello scrivente e il fuoco della passione leale arderà dentro di voi e avvertirete le pene nobili degli infaticabili e leali Arbëreşë.

 

Napoli, dove il tempo scorre e cancella le cose della storia che conta.  

 

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Minareto o campanile1

VIAGGIO DI UN ARTISTA MODERNO NEI LUOGHI ARBËREŞË CITTERIORI (Ibrahim Shaban Likmetaj Kodra, il discepolo di Carrà, Carpi e Funi)

Posted on 12 marzo 2024 by admin

Minareto o campanile1

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Arch. Basile) – È facile cadere in inganno, quando si ode ripetere con insistenza il titolo di “Arberia” e subito riferire di luoghi dove la comunità Arbëreşë, ha disteso il proprio bagaglio identitari antico, al fine di non essere compromesso.

Lo stesso, presentato con il su citato sostantivo, a modo di Stato geopolitico nuovo, nonostante la minoranza si riconosca solo ed esclusivamente nell’enunciato di Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë.

Un esperimento storico disposto da Giorgio Castriota e, conclusosi in accoglienza e integrazione, priva di prevaricazioni o conquista di sorta, se non il solo principio di conservare la propria radice, nel confronto genuino con gli indigeni locali.

Rispolverare tutto ciò seguendo l’itinerario o pellegrinaggio dell’illustre Ibraim Kodra, si può estrapolare il compendio disegnato, secondo la metrica visiva dell’artista, un libero e spontaneo parere di credenza storica smarrita, lo stesso che denota l’accanimento profuso e conservato in quelle rive frastagliate oltre il fiume adriatico, mai mutate dai tempi e dei fatti del passato.

Kodra nasce 22 aprile 1918, a Ishëm, in Albania del nord, da una famiglia di pastori e sin da piccolo, allietava genitori, parenti e amici, disegnano sulla sabbia componimenti delle greggi con uno spiccato senso delle cose osservate,  inizia così la sua avventura sino a Milano dove diventa allievo di Carrà, Carpi e Funi per poi artista famoso in tutto il globo.  

I dipinti dei Katundë Arbëreşë, con grande finezza di monito, profusa dell’artista verso i suoi antichi fratelli, hanno come tema multi colore, continui abbracci fraterni, il cui unico rammarico è riversato nella forma dei campanili, con la croce in forma di luna, per ricordare cose che lui stesso non conosce e, a cui non sa dare valore di tempo e di luogo secondo l’antica e da lui mai vissuta, prospettiva di credenza.

Diventano attori il sole, la luna e le cose che indicano la strada maestra dal suo personale punto di vista moderno, avendo come suo unico riferimento il perpetuo abbraccio di generi, divulgato, come struttura di strumenti moderni in resta di ornamenti identitari, poi letti da altri, in maniera a dir poco inopportuna e riproposti come abusi edilizi degli anni sessanta del secolo scorso.

Nella presentazione delle opere, si rendere omaggio ad un artista, raffinato che attraverso la divulgazione delle sue prospettive di credenza, rendono e danno misura di un abbraccio, come fanno i familiari quando si dividono e poi si ritrovano, anche se l’artista, avrebbero dovuto conoscere la piega di credenza, che costrinse quelle genti a migrare a guardia dei confini e per non soccombere.

Il grande maestro, di formazione orientale, rimane un testimone/interprete di un lungo periodo di patimento culturale, del XX secolo, avendo il merito di coniugare i colori intensi del Mediterraneo, racchiusi nei ricordi della sua infanzia, con i grandi temi dell’identità inviolata, di quanti preferirono l’esilio per tutelare la memoria storica della terra natia.

I cromatismi pittorici, diventano così, un viaggio, che percorre i sentieri della propria radice di appartenenza, incastonata negli antichi sentieri di San Benedetto Ulano, Acquaformosa, Lungro, Frascineto, Civita, Plataci, della vestizione di Spezzano Albanese, Santa Sofia d’Epiro, San Demetrio Corone, Macchia, Vaccarizzo Albanese, San Cosmo Albanese e a San Giorgio Albanese, una tavolozza identitaria fatta dei colori della terra, del sole, il mare e gli abbracci di approdo mai terminati.

L’artista avverte l’alito, il soffio, la brezza colma di odori e sapori, interpretando il senso delle comunità Arbëreşë, secondo una visione Guernica Arbëreşë, storica ricchezza durevole, identica e senza soluzione di continuità, viva da cinquecento anni, tra questi luoghi ameni.

Questo è il tempo passato, lo stesso immerso tra gli ambiti paralleli del cuore e della mente degli Arbëreşë, fatto con il fuoco e campanili dei sentimenti che riportano, al tempo delle preghiere, non espresse in urla diffuse dai minareti, che modellarono, la tempra in terra madre, dal giorno dell’abbraccio di separazione.

L’itinerario artistico, di Kodra diventa, atto d’amore e di rammarico, verso queste comunità antica del mediterraneo, costruito di genio condiviso, ed è proprio qui che il maestro si ritrova a case sua, immaginando che sia giusto intravedere minareti inesistenti al posto di campanili.

Il sangue non mente e, per questo avverte le antiche sensazioni che attiva armonicamente i cinque senso, qui tutti lo conoscono e tutti lo vogliono, in altre parole lui vive la sensazione di ritornare a casa propria, vive gli attimi irripetibili di una Gjitonia.

Il viaggio spirituale tra i paesi inizia nel Pollino inferiore a quel tempo senza più il “Ponte”, abbattuto dall’incuria umana, precisamente pollino che guarda verso lo jonio e, poi prosegue verso il tirreno, dove l’antica “Acqua Bella” scorre rigogliosa, pura e limpida, finemente incastonata tra i le montuosità che osservano l’andare del Crati, ricordo parallelo dei monti dell’Albania, le colline e le pianure, dove il maestro nasce e trascorre l’infanzia.

Il secondo incontro è con le genti prospicienti il Crati, qui vede e prende atto delle pieghe del “dolce e dormiente” la quale aspetta il bacio del principe per risvegliare il senso delle cose antiche tradotte male.

Ed è proprio qui che l’abbraccio fraterno delle due dinastie.

Liturgia bizantina e icone caratterizzano il Katundë della “carmina convivala”, che diventa più la prospettiva di un monte con la croce che un luogo di credenza, mentre la Salina appare in tutta la sua bellezza naturale, riconoscendone il valore della convivenza civile dei parallelismi ritrovati, una strada che divide gli elevati non rilevando alcun atto per la credenza in luce.

L’artista fa tappa a nella frazione di Bregu, da dove osserva la piana di Sibari, dal Crati sino al Trionto, terra che dette i natali alla minoranza Arbëreşë il faro, o pietre su cui si ergeva maestosamente, l’intimità ormai senza più vesti.

Arriva, poi, in montagna da dove l’estrema altura di un Katundë diventa l’altare raggiante dal Mare Jonio e la Piana di Sibari si trasforma in perla dentro una conchiglia, qui la piccola comunità, sta raccolta in un manto di stelle nel cielo di alberi e colori naturali.

Ecco finalmente prende atto del viaggio Bizantino, accogliente e gentile, è il paese dei dottori, famosa per il suo santuario, come quello del trionfatore del drago; qui il tuffarsi tra gli ulivi e i vigneti, lussureggianti di verde e d’azzurro.

Ed è qui che appare luminosa la Terra di Sofia dove dal IX si prega con lo sguardo rivolto a Costantinopoli, sdraiata su una lunga collina con la sua suggestiva prospettiva agraria di unica e rara bellezza, da qui il viaggio lo porta alla stazione di posta storica, la più esposta e durevole comunità Arbëreşë d’Italia, esposta a continui confronti, cosa dire poi della vallja di credenze, con le due chiese che vanno per mano e non smettono di camminare.

Infine, quella che dovrebbe essere la Corone dell’ovest, dove si articola la sua storia in concerto al famoso collegio, ed è proprio qui, che l’ironico, saggio artista invia finemente un messaggio di memoria smarrita secondo lui da memoria di minareto.

Con queste piccole sintesi artistiche, di monito, il maestro intese “lasciare un segno indelebile di una sua esperienza illuminante, iniziata non meno di vent’anni fa e oggi analizzata con educazione e dovizia di particolari, sempre molto ermetici, onde evitare lo scuotere della intellighenzia dei numerosi liberi pensatori locali, “i grandi e distratti saggi”.

Un itinerario o atto d’amore che si esprime nelle sue cartelle con un “sole più grande che sorge un mare azzurro e colline sempre verdi e floride”.

Un segno d’unione con il passato intriso di radici, innestate in fonti inesauribili, ispirazione di un’attività di ricerca che si trasforma in espressione artistica nuova ed originale, ma che nelle sue opere diventa monito locale per le numerose cose smarrite.  

P.S. Vallja; Dal lat. carmina convivali, sono canti con cui i Romani antichi – secondo un’usanza diffusa presso i Greci celebravano durante i banchetti le gesta in memoria di una nuova fratellanza.

P.S Il Katundë non ha le cose del Borgo, perché modello di città aperta….

P.S. La Gjitonia è più ricca del Vicinato; almeno cinque e oltre, come il numero dei sensi……

P.S. Lo Shëshë non è una pizzetta circolare dove si dispongono finestre e porte gemellate…….

P.S. Il Rione è Shëşë, noto in storiografia come modulo di Iunctura urbana, componimento urbano articolato in Fondaci (Kopshëtj), Botteghe (Putiga), Case (Shëpj), Vanelle (Vallë), Supportici (Supòrtë), Grotte (Varë), Vichi (Rrughà) e Archi (Redë).

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OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

OTTO MARZO; SI RICORDA LA GIORNATA DEL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË

Posted on 09 marzo 2024 by admin

Governo delle donneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – All’interno di ogni Katundë di radice Arbëreşë, l’otto marzo rappresenta la giornata per onorare tutte le donne che hanno dato vigore e preparato nel corso dei secoli, dal primo vagito, alle prime pronunzie e attività, all’interno della Gjitonia, a generazioni poi divenute illustri.

Le stesse figure che poi sono state gioia e orgoglio di queste nonne, madri, sorelle, zie o, vicine di casa, in tutto il governo della formazione culturale prima, di ogni uomo di coltura Arbëreşë, rendendo così, questa terra, di approdo e buona accoglienza. ancor più solidale.

Al tempo che oggi corre, sono in molti a chiede, perché la storia della Regione Etnica Diffusa, Kanuniana, Accolta e Sostenuta in Arbëreshë, non abbia avuto eccellenze femminili in prima fila o, note nel corso della storia di questo popolo.

La risposta è molto semplice ed è racchiusa nell’assunzione dei ruoli, che articolava in modo semplice e chiaro questo popolo, nei meriti di ogni genere umano, che nel silenzio rumoroso del luogo dei cinque sensi, ogni figura ha assunto e indossato la sua veste, con orgoglio e, senza mai perdere il senso o la rotta del proprio ruolo.

Se gli uomini avevano il loro governo o meglio la loro piattaforma per operare e brillare, lo trovavano fuori dalla dimensione dei cinque sensi, ovvero la Gjitonia.

È il questo luogo senza confini, denominato:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë” composto da Nonne, Madri, Zie, Sorelle e Vicine di casa, che ogni genere nascituro, veniva allevato senza soluzione di continuità, da questa filiera femminile, che non lasciava mai solo niente e nessuno, sostenendo e rimanendo sempre vigile al fianco per sostenere o a guardare le spalle, quanti qui crescevano formati di valori irripetibili, sino a quando in grado di camminare per completare il proprio genio.

Un Arbëreşë nasce da una madre e da un padre, ma dal primo vagito, viene adottato e preparato a parlare, ragionare, comportarsi e agire con pensiero, secondo un codice linguistico, non fatto di confusione e mille parole, ma semplici e basiche pronunzie grammaticali in Arbëreşë.

Le stesse che non vanno oltre il corpo umano e le cose per sostenersi, sempre seguito dal governo delle donne, all’interno della Gjitonia e, grazie a questa scuola di vita, che ebbero modo di formarsi e abituati a pensare in lingua madre senza mai un momento di esitazione.

Chi di noi non ricorda, queste figure sempre pronte a sostenerti e non lasciati mai solo, quante volte, persa la madre, la sorella, la nonna, non si è sentiti affiancare, dieci, cento o mille nuove nonne, madri, sorelle, li pronte a dare solidarietà per sostituire la figura smarrita per, essere seguiti nei momenti più bui della vita in adolescenza.

Questo era un governo, una scuola, solidale che non costava nulla, tutti erano formati per essere buone figure, poi le vicende successive fuori da questo luogo senza confini e barriere di sorta, ti consentivano di brillare ed affermati nei campi, dove pensare, immaginare le cose Arbëreşë e, tutto diventava  terreno fertile per germogliare fiori e frutti buoni.

Gli esempi che qui potremmo rievocare sono molteplici e fondamentali, resta un dato inconfutabile: ovvero, tutte le figure Arbëreşë più eccellenti, a iniziare dall’alba dell’illuminismo, hanno visto emergere uomini illustri Arbanon, grazie a questo stato o regno locale, composto di sole donne.

E se gli Arbëreşë hanno avuto innumerevoli figure della cultura, dell’editoria, della scienza esatta, della magistratura e le eccellenze clericali, tutte queste provenivano o meglio sono il risultato di un governo condotto e diretto da una sola regina, con la sua corte fatta esclusivamente di donne Arbëreşë.

Quanti di noi non ricordano di aver appellato sorella, zia, nonna e altri sostantivi parentali, figure della Gjitonia, che poi non erano parenti, infatti quella era una forma di riconoscenza del supporto offerto dalla:” Scuola o Governo delle donne Arbëreşë”, composto in quei momenti di formazione sociale, grazie ai quali le cose della vita sono state più semplici da affrontare e superare brillantemente.

Bata citare la storia di Donica Arianiti Comneno, accolta a Napoli dopo la Dipartita del consorte Giorgio Castriota, ed è qui che per la fiducia che la regina Giovanna III aveva in lei, perché donna Arbëreşë, le affidò i suoi figli, giacché troppo impegnata ai doveri di corte, ed è così che altri pari a Napoli le diedero fiducia in tale attività di regia Gjitonia.

A tal fine si potrebbero citare numerose figure in eccellenza Arbëreşë e, ogni volta senza commettere errore rievocativo, tra le quinte della propria Gjitonia apparire, un riferimento Nonna, Madre Zia o Sorella da ringraziare.

Per cui concludendo, il giorno dell’Otto marzo per gli Arbëreşë non è solo una giornata di giubilo e di festa ma è l’inizio di una estate colma di sole e luce.

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I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

I PONTI FANNOANDARE OLTRE MARE E UNIRE POPOLI NON SI ELEVANO PER DISCRIMINARE (I parj bùrë cë Bënej huda satë chiasënej deratë, işë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La Calabria oggi come succedeva secoli orsono è salita sugli altari che spettano a chi unisce popoli e fa accoglienza, ma con una sostanziale differenza, ovvero, in terra ferma non è confermata la stessa disponibilità ad unire approdi, colline e monti.

Emerge così il confronto storico da le tre macro aree calabresi, Ovvero la Citeriore, la Ultra e l’Ulteriore, una scia indelebile di stupore diffuso, sin anche quando la si presenta come punta da cui partire per raggiungere isole oltre mare.

Oggi la ribalta politica e dei media, concentra l’attenzioni per i risvolti sociali ed economici d’Europa, grazie al ponte sospeso sullo stretto, un tempo “oltre il faro”, il traguardo da raggiungere co treni veloci, ma qui inesistenti, dove far viaggiare, tutte le sorti future del sud Italia che è già isola.

La Calabria, punta di uno stivale, ha un difetto grande, ovvero, dimentica di essere parte della gamba del corpo europeo, ed è proprio da qui che si sono tessute, le trame disgiunte tra le sue tre figlie Citra, Ultra, Ulteriore e, qui in questo breve, si vogliono evidenziarle per ripristinare lo stato di fatto non più accettabile, nello specifico l’operato politico/culturale che non collega, i suoi piccoli e grandi centri, che giorno dopo giorno perdono vitalità e porzioni ancora non fondamentali, dell’imperterrito scorrere delle stagioni.

Rievocare lo stato e le cose che hanno reso la Calabria protagonista nei secoli, non sta in questa diplomatica, perché largamente diffuse, ma riferire di quanto e cosa la caratterizza dal secolo scorso, è il caso di soffermarsi e sottolineare avvenimenti di radice culturale non di poca importanza.

Nel 1970 venne istituita la regione Calabria con capoluogo politico e sociale Catanzaro, ma gli attriti che anticiparono questa scelta, nate qualche anno prima, fecero riecheggiare le volontà antiche di Valle di Crati, Terra Giordana e del Gran Ducato calabrese, rispolverate e sventolate nelle piazze con colori ed emblemi politici.

Tutte e tre le province portavano sul tavolo, la trattativa in misura e del valore del proprio vento, ma poi ad avere ragione fu la strategica posizione della prima, su tutte le altre due, che vennero giudicate periferia.

Una volta ristabiliti, dalla politica, ruoli, funzioni sociali e formazione, ebbe iniziò la stagione delle autonomie regionali e, nonostante le province siano passate da tre a cinque, con Catanzaro capoluogo di regione e Cosenza, Reggio di Calabria province, assieme alle giovani Crotone e Vibo Valentia, il trittico storico della essenze culturale, continua a formare i calabresi, con venti e trame di tessitura secondo gli antichi risvolti di: Terra di Valle Crati, Terra Giordana e Terra del Gran Ducato.

In Calabria dopo aver elevato i confini politici e amministrativi con capitale Catanzaro, si disposero, temi culturali diversificati nei tre capoluoghi storici, e le discipline culturali poste in essere, continuano a seguire rotte distinte per un capitano che manca come regia super parte, quella in grado di far convergere ed essere eccellenza, come fa la terra con madre natura.

La regione grazie al principio di accoglienza della Sibaritide e del Reggino antico, con le coste colme di abbracci sicuri di approdo, hanno saputo portare a termine, e con successo sconfiggere, le difficoltà prodotte da terremoti, carestie, siccità e ogni sorta di evento naturale malevolo dirsi voglia.

Le genti di Calabria con le sole risorse vernacolari di genio locale, in fraterno confronto con i nuovi ospiti, li approdato prima e poi accolti nei centri collinari, hanno saputo superare ogni avversità, lavorando senza giudicare cose, fatti e uomini, seguendo solo l’aratro trainata dai buoi, per fare solchi assolati di semina buona in questa Biosfera del meridione.

Chine ripide senza misura, superate grazie alla forza dei solidi cunei agrari e, come atleti Crotonesi instancabili, trovare forza per confrontarsi in quell’ambiente naturale, innalzando i valori inestimabili del trittico mediterraneo per vivere bene e in salute.

Una radice sostanziosa che germogliò per dare frutto nei campi dell’agro, silvio e pastorale, poi trasformato dalla “proto industria locale”, in alimento unico, indivisibile e inimitabile.

Si conoscono tutte le epoche della storia di questa regione, grazie alla quale minoranze storiche, qui trovarono porti sicuri e, oggi, invece di essere valorizzate per i loro contenuti storici, sociali antropologici e dell’architettura vernacolare, come esempio di città aperta o metropolitana, sono tutti comunemente classificati come “Borghi”, termine a dir poco inopportuno, per il valore di apertura sociale che denotano quei luoghi di iunctura sociale.

Sono queste stesse minoranze che assemblavano agglomerati urbani, denominati Hora o, Katundë, rispettivamente a impronta Grecanica e Arbëreşë, senza mai produrre sovrapposizioni sociali, di tempo ed etnia, insediandosi in macro aree disabitate o dismesse dagli indigeni locali, i quali essendo in pena, li desertificavano assieme all’agro, gli stessi ambiti, poi secondo le epoche riconosciuti come: Grecanici, Arbëreşë e Occitani, tutti nel breve tempo del confronto con gli indigeni locali, resero vitali e produttivi le terre di pertinenza di quei centri antichi.

Oggi questi centri, di valori, forme e significati vernacolari inestimabili, pur rappresentano circa il 20% dei comini di tutta la regione, sono tutelati solo per la lingua altra che qui si ode echeggiare, ma non certo per l’interezza del modello sociale che qui venne innestato in espressione materiale e immateriale, per diventare il volano primo dell’intera Calabria in arte attività e cultura.

E nonostante ciò si perde tempo senza mai produrre, per opera di tutte le discipline culturali di formazione, un progetto condiviso di indagine e studio, formando gruppo multi disciplinari come faceva l’imprenditore/ingegnere Adriano Olivetti, negli anni sessanta del secolo scorso, ogni volta ricevuto un incarico istituzionale, per valorizzare o intervenire in ambiti di particolare interesse culturale, sociale ed economico, per nuove opportunità di rilancio.

Oggi si va ramenghi, per vicoletti, piazze, case e shëşë dei centri minori, cercando di innalzare ponti con i costume tradizionale Arbëreşë, il ponte che collega, la casa e la chiese, ovvero il componimento la regola o manuale, trattato senza misura con editi, multimediali, televisivi o cartacei, che siano, immaginando che i primi viandanti lì di passaggio, possano avere il ponte di formazione ideale per esprimere il calore in essi contenuto; la storia di ieri, aderente a quella di oggi, per i domani di continua coerenza.

Allo stato delle cose una domanda nasce spontanea: chi deve rispondere alla mancanza di chiarimenti culturali, di questa tessitura orfana di vie, strade e ponti per dare agio, al sistema Antropico, Sociale, Architettonico, Urbanistico e degli esempi vernacolari, per i quali questi centri antichi, fatti con materia di pura resilienza, continuano a rispondere alle ire dei quinquenni?

La consuetudine calabrese rimane intatta, si studia e si progetta realizzando ponti di confronto con altre terre, senza badare a valli, colline e coste, dove scorrono torrenti, fiumi e impatto i mari, si lascia allargare varco affinare coste e, il vicino di provincia li pronto ad aiutare è sempre meglio del viandante, ignoto e sconosciuto che arriva da lontano.

Si dice che in Calabria serve un ponte, di lunghe campate e molto largo, per fare cultura, economia e nuove opportunità sociali; allora non sarebbe il caso di indagare chi, come, con cosa e perché, costruì in forma vernacolare, “il primo ponte sospeso al mondo, con catenarie a pilastri singoli”, il fondamentale ponte, che divenne simbolo di unione sicura e vanto di Regni, Vescovati e Principati, in tutto, consentire la continuità ideale alla strada che dalle Alpi unì l’Italia sino al di qua del faro.

Tutto questo, mentre si costruivano modelli di scienza, fatti di uomini esatti e, non viandanti pronti a salire sul palco per essere illuminati dai riflettori, e questi ultimi non sono certo la forza della Terra nostra calabrese.

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TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

TRADIZIONE ECOLOGIA E VERNACOLARI I COMPONIMENTI IGNOTI “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.)

Posted on 10 febbraio 2024 by admin

cicòope dragoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Certe volte si ha la sensazione nel dialogarc costruttivamente con gli altri, fatto alquanto insolito nella società odierà, ricca di “fumosità di farine” e mondanità, attenta ad enfatizzare le cose con linguaggio forbito, invece che mirare alla sua “funzionalità di crusca” volta esclusivamente all’originale senso dei messaggi.

Poi se passiamo ai fatti con “editi convegni e consuetudini di memoria”, di un circoscritto momento della storia di uomini a settecento inoltrato, si inizia a correggere la storia con  diplomatiche, un’urgenza diffusa, che oggi si ripropone identicamente nel mondo culturale da divulgare e, conversando  con numerosi esperti partenopei, amici del settore,  in editi e manifestazioni presentate come “mastodontiche degli Arbëreşë” mai composte  con senso “pratico chiaro”  e,  soprattutto, in grado di veicolare due  cose del “ieri e dell’oggi in stretta fratellanza”, giacche la comune tendenza rilevata a dismisura lungo le strette e tortuose vie di uno Shëşò  “certe ed incerte”, senza alcuna piano di “presunzione storica “, come insegnano  i maestri della bottega Olivetara  senza mai “oltrepassare” i1  campo idiomatico e dilagare, fuori misura nei campi, del sapere.

Il fine di questo progetto le trattazioni qui esposte, a titolo, vogliono essere di maggiore e più “diffuso interesse” per essere fondamentale percorso di antichi itinerari con coerenza e rispetto delle cose svoltesi con senso storico condiviso.

In effetti, seguendo una “piramide ideale” nella citazione di fatti storico – culturali, si è ritenuto utile trattare di etimologia di un nome, piuttosto che elencare tutti i reperti linguistici di uno scudo improprio.

A che serve, ad esempio, evidenziare tutto il “trattato” di un edito, senza prima aver chiarito il significato del sapere e la formazione di una ben identificata figura che dice di essere il compilatore e l’epoca dei fatti e delle cose che lo elevarono a torto?

Vero è che occorre intuitivamente captare chi ha lo stesso “habitat” mentale, perché, dialogando con esso, possa scaturire qualche idea creativa, secondo l’esempio socratico.

Utili per lo scopo diventano le indagini in loco che riferiscano a quei corpi in elevato, del saper-fare, cose, dove sono avvenuti fatti e cose, in tutto le pratiche rappresentative, oggi conservate e mantenute dalle comunità locali, senza alcuna consapevolezza, delle interazioni complesse che scaturirono nel confronto tra l’ambiente naturale e gli uomini che vivevano in continuo il luogo.

Questi sistemi, cognitivi e di genio locale, devono essere la parte fondamentale per una buona sostenibilità della convivenza storica, tra il sociale dell’uomo e le incognite climatiche, ovvero la riserva della natura.

Ragione per la quale, conoscere, le pratiche delle rappresentazioni di tessitura, reciprocamente intrecciate includendo lingua, rapporto con il luogo e l’agro circostante, credenze, in tutto le attività per una visione globale di futuri migliori.

In diversi domini o macroaree si individuano queste conoscenze con termini specifici, di parlata indigena o dei migranti li approdati, come ad esempio: traditional ecological knowledge (TEK), ethnobiology, ethnobotany, ethnozoology, ethnoscience, vernacular architecture, material knowledge, i katund, bregù, kishia, shëşa del centro antico o i Pratj, Cangelli o Votetë, dell’agro, ovvero, l’antropologia dei saperi naturalistici, l’antropologia e quella toponomastica, museale che attendono di  essere diffusa con sapienza in musei dedicati.

Le tradizioni tecniche dei diversi luoghi, le parlate locali, le peculiarità culturali, l’organizzazione sociale ed i rituali religiosi delle popolazioni, evidenziano lo stretto legame che nei secoli c’è stato tra comunità umane, tecnologie e

ambiente naturale.

Il Centro denominato “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), una volta definito i domini di ricerca e conoscenza, dei sistemi architettonici e costruttivi dei paesi diffusi Arbëreşë, gli ecosistemi culturali, assieme ai prodotti in forma materiale, della regione storica, mira a promuove un confronto multi disciplinare sistemico e generale, per conoscere le attività locali, diversificandole con quanto di indigeno esisteva nei domini più antichi.

In specie come sistemarsi nel diversificato ecosistema di radice naturale e antropico, elevando, organizzando l’architettura in cultura materiale di luogo, il tutto intese quale innovazione di tempo o elemento strategico per i percorsi di conquista o progresso sostenibile locale.

Inghisando i processi di formazione riproponendo le esperienze migliorandole per individuare tutti i modelli vitali dei primi attori Arbëreşë, offrendo gli strumenti per una maggiore lettura interpretativa dei processi di interazione fra uomo e ambiente, in prospettiva energetica e di consumo mirato dell’ereditato, con l’ambiente per il futuro.

Sul piano dei metodi di ricerca il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), si distingue per una nuova diplomatica di sperimentazione sistemici, con particolare orientato all’integrazione dei metodi e degli strumenti di ricerca qualitativi, quantitativi e scientifici, rimanendo sempre vigile ai protocolli e strumenti di ricerca per la gestione della conoscenza.

Il fine primario quindi diventano i sistemi innovativi per la conservazione, valorizzazione e gestione dei sistemi di storici locali, espressione prima della diversità culturale in relazione alla coesione fra società e natura e i metodi sostenibili per gestire le risorse naturali.

In linea generale le attività di studio per la ricerca saranno indirizzate o meglio hanno come meta lo sviluppare di attività mirate di:

– localizzazione, identificazione, rappresentazione, modellazione e codificazione delle conoscenze locali tacite;

– classificazione, organizzazione e trattazione condivisa con esperti di settore o materia;

– progettare sistemi di apprendimento e comunicazione innovativi che non siano mera cattedra loci,

– progettare e sperimentare innovati sostenibili della memoria locale e confrontarle con la macro area e le altre;

– non rimanere attratti dalla lode, ma sentire le cose che dicono il maestro cuore e la lucida sarta per la mente;

– dare senso e sostenere con socratica forza culturale tutte le cose materiali e immateriali di ogni macroarea locale;

– analizzare con dovizia di particolari gli edificati e le manomissioni delle epoche per giustificare lo scorrere del tempo

Solo in questo modo la riflessione sulla conoscenza come risorsa per lo sviluppo non può prescindere dalle risposte ad una domanda: quale conoscenza?

È opinione condivisa che ci troviamo di fronte a due grandi sistemi di conoscenza: la conoscenza scientifica, accademica e generalizzabile da un lato e la conoscenza non accademica, pratica e contestualizzata, i cosiddetti saperi locali, dall’altro.

Questi saperi, assai vari e diversificati, possono essere associati dal possedere alcune caratteristiche comuni da dove iniziare a tessere:

– sono radicati in un luogo e sono frutto di una storia e di un insieme di esperienze tramandate oralmente;

– sono trasmesse attraverso meccanismi di osservazione ed imitazione a largo o larghissimo spettro territoriale;

– sono il risultato delle attività quotidiane, rafforzate e corrette dalla ripetizione, dagli errori, dei primi;

– sono fondati su un approccio più pratico che teorico, una sorta di vagabondo culturale che pensa di essere genio;

– sono in continua evoluzione e danneggiano sempre di più la storia per fini economici, i più dannosi;

– sono condivisi all’interno di un gruppo, secondo le pratiche e le norme della conoscenza frammentaria;

– sono generalmente stonati, astratti e, in essi si scorge un’attitudine dei saperi teorici belli da vedere ma senza struttura.

È evidente dunque che parlare di saperi locali significa racchiudere in un unico termine una varietà di strutture e sistemi incredibilmente vasta, tanto da ricordare la biodiversità degli esseri viventi; non è infrequente infatti che nei documenti del Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.), saranno usati termini quali la “biodiversità culturale” per la quale si intende proteggere modelli che non siano dissimili da quanto addotto in ambito dell’ecosistema e l’economia.

Le politiche per valorizzare la cultura locale non devono configurarsi come misure contrarie allo sviluppo, ma devono assicurare lo sviluppo umano e saper cogliere ogni briciolo di beneficio per quella ben identificata popolazione.

La stessa che nei nostri casi di studio si vedono apparire finora escluse dalle grandi decisioni politiche ed assicurano inoltre buoni rendimenti economici maggiormente diffusi grazie ad una maggiore stabilità, alla ampiezza del consenso, poiché le condizioni per l’attecchimento degli investimenti, per l’impegno a tutti i livelli di lavoro, per una crescita veloce sono già sul posto e non devono essere importate. «Il rispetto per la diversità ha quindi una valenza culturale e politica, ma al contempo ha anche una finalità economica e sociale».

Le politiche di valorizzazione della cultura locale non si codificata come le altre specie, riferendo con monocratica conoscenza, anche quando si tratta di trasmette attraverso il linguaggio codificato sostenuto dal canto.

D’altra parte la conoscenza tacita ha una valenza personale, che la rende difficile da formalizzare e renderla fruibile con il semplice approccio formale.

Giacché in questo modo introduciamo un problema nuovo al progetto di rappresentare e rendendo codificata e trasmissibile la conoscenza di una identificata macroarea.

Nel tentativo di operare una distinzione tra conoscenza tacita ed esplicita e di comprendere i meccanismi attraverso i quali ci può essere una conversione da uno stato all’altro il Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.),  individua nella conoscenza un contenuto profondamente radicato «nelle azioni e nei pensieri di un individuo in uno specifico contesto»; essa darà per tanto linfa nuova alle competenze tecniche e convinzioni delle prospettive sedimentate che vengono date per scontate e non possono essere facilmente interpretate dai monocratici ricercatori.

Esistono luoghi colmi di storia fatta dagli uomini preparati, buoni ed onesti, ma citati quale racconto per elevare il valore di analfabeti malevoli abbarbicati scenograficamente con azioni mandatorie al dio danaro.

Sono questi i malevoli ad essere esaltati, perché materia di una spianata senza spessore, su cui poter scrive e dire ogni cosa perché essenza non genuina legata alla storia, diversamente dalle figure prime che non può riversare aceto, come fan tutti, perché, nati colmi di Genio, Sapienza e Lume Arbëreşë.

La conoscenza esplicita si connota invece per poter essere facilmente espressa, catturata, immagazzinata e riutilizzata, al fine di poter essere trasmessa come un dato in database, libri, manuali e messaggi reperibili dal Centro “il Ciclope e il Drago delle Napoli Arbëreşë” (C.D.N.A.).

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