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UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

Posted on 02 luglio 2024 by admin

GenerazioniNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per millenni gli Arbëreşë hanno trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca, titolando il corpo umano e gli atti naturali per il suo sostentamento.

I generi che ancor oggi come un tempo hanno quale consuetudine primaria la cultura orale, senza alcun adempimento scritto grafico, non possiedono ne documenti, e ne grafiti di memoria, ma ha solo le cose locali riferite in base ai trascorsi storici e di quelli portati nel cuore e nella mente dalle terre prime parallela.

Essi sanno solo ciò che ricordano e per ricordare hanno bisogno di formule come ausili mnemonici, per questo ancora oggi in epoca globale hanno una relazione stretta con le paro­le profondamente diversa rispetto agli altri generi che fanno uso di sperimentazioni nuove.

Resta il dato fondamentale, ovvero, che un Arbëreşë usa l’apparato uditivo per ascoltare e non quello visivo per leggere. Tra i suoi sensi l’orecchio sarà quello considerato più importante, perché esso vive all’interno di una cultura in cui non esistono né testi scritti a mano né stampe o grafiti di memoria che non fanno parte del protocollo, infatti, il sapere è organizzato in modo tale da poter essere facilmente mandato a memoria.

In questa cultura del parlato, ogni cosa si traduce la conoscenza in pensiero o memoria dirsi voglia, espressa ciclicamente all’interno di moduli bilanciati di specifici contenuti ritmici e, per questo, deve strutturarsi in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espres­sioni formulaiche, in tutto, temi semplici in forma di proverbi costantemente uditi e rammentati con facilità da una generazione all’altra.

Essi così diventano contenuto formu­lato e ritmico per un facile apprendimento e ricordo, in altre for­me a funzione mnemonica, di pensiero intrecciato ai sistemi di memoria, che determinano anche l’unità del significato.

Nelle culture orali primarie, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa ritmica, in quanto il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista fisiologico, determinando l’unitario legame fra ritmi orali, un insieme fatto di pro­cesso respiratorio, i gesti della simmetria del corpo uma­no nelle antiche parafrasi aramaiche, greche e dell’ebraico.

Si racconta che questa usanza è stata utilizzata in tutte le antiche civiltà del vecchio continente, conoscessero a memoria nella loro interezza.

Tutte queste civiltà come gli Arbëreşë fanno ancora oggi passa­no la vita «ruminando», meditando cioè in continuazione, brani, ma tali incredibili performance mnemonica resta possibile anche dal fatto che i testi sacri si ripetono nei perimetri di credenza e sino a pochi decenni addietro come da secoli in esclusiva forma orale.

Chi di noi non ricorda i nostri genitori frequentatori assidui delle chiese Bizantine rispondere al parroco con rime ritmiche in lingua Greca conoscendone il solo esclusivo valore di credenza.

Tutto diventava un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile e, questa caratteristica si sono perdute con le traduzioni nelle lingue moderne a seguito delle disposizioni Vaticane degli anni settanta.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quinte essenziali.

Frasi, proverbi e mas­sime del tipo «Rosso di sera bel tempo si spera», «Divide et im­pera», «Sbagliare è umano perdonare è divino», «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio», «Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore», tutte queste e molte altre in Arbëreşë sono facilmente reperi­bili nei racconti o il fraseggiare delle Gjitonie, in tutto gli ambiti vissuti dove la memoria non termina mai, perché ambito di cultura orale dove nulla si propone come occasione, ma radice del consuetudinario locale più intimo che forma sostanza di pensiero, per il quale diventa ogni cosa pensiero mnemonico, poiché la radice che segna e da tempo al parlato ereditato.

Nelle culture orali primordiali, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria solida.

La memoria diventa il custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare, in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato e sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole.

Per questo chi nasce Arbëreşë allena la mente ad essere memoria solida un insieme di Iunctura, come lo sono le strade i vichi, porte, vicoli stretti e articolati dove l’accoglienza del viandante vale se si lega al patto di fratellanza e accoglienza.

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NAPOLI E’IL CENTRO PER LA CULTURA LA STORIA E LA SOSTENIBILITÀ DEGLI ARBËREŞË (NAPULLË HËSHËT MESÌ E THË SCUARETË I THË BËNËRATË E MBAITURATË ARBËREŞË)

NAPOLI E’IL CENTRO PER LA CULTURA LA STORIA E LA SOSTENIBILITÀ DEGLI ARBËREŞË (NAPULLË HËSHËT MESÌ E THË SCUARETË I THË BËNËRATË E MBAITURATË ARBËREŞË)

Posted on 01 luglio 2024 by admin

ladri di idee

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A seguito di accurate indagini eseguite e portate a buon fine con progetti mirati di ricerca e approfondimento, hanno consentito il definire le cose prodotte per la resilienza della Minoranza Storica Arbëreşë.

Allo scopo è stato inequivocabilmente rilevata la fonte della saggezza per la sostenibilità elevata dalle numerose figure qui accolte, poi divenuta polvere ormai non più accettabile, con le istituzioni in seguito approdate e, senza titolo specifico, definite le partorienti, dopo circa un secolo di incertezze, la legge 482/1999 che non tutela gli Arbëreşë, ma l’Albanese.

Infatti analizzati gli argomenti della storia, degli uomini, il genio, l’intellighènzia locale partecipata emergono palesemente fatti, uomini, cose, e luoghi, con logica migliorativa.

Ed è grazie a queste attività che si riesce a costruire quel fenomeno storico di valore inestimabile, dello specifico territorio, dove prevale non la conquista con forme di guerriglia, ma attraverso cunei condivisi o atti migliorativi del benessere comune di quelle genti che oggi vivono: La Regione Storica, Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë con Capitale Napoli.

Allo scopo si ritiene indispensabile allestire una Fondazione o Istituto Culturale, che ponga un freno al proliferare di questa anonima farina bianca di bosco fatuo, che offusca la mente e l’udito del parlato.

Infatti, serve sottolineare la centralità della cultura ad iniziare proprio dal lessico Arbëreşë utilizzando per lo scopo, come “Titolo Maiuscolo”, in favore di quanti giunsero dal 1471 al 1535 nel meridione italiano; la cui specifica centralità sia rilevata usando il sostantivo: “Mèsë o Mesì” e non certamente “Cènderë o Chienderë, dirsi voglia, che risulta essere libera opera delle adolescenti in opre di ricamo o tomboli con ami di libero arbitrio”.

Le vicende che definiscono e sanciscono la storia degli Arbëreşë, vanno coltivate attraverso le cose lasciate germogliare a misura del sentito, dato che essi sono, e su questo non vi è dubbio alcuno, una minoranza che si sostiene con valori identitari del parlato, ascoltando chi ti cresce, non secondo visione oculare di lettura.

Allo scopo va menzionato il ricercatore, unica eccellenza della lingua parlata degli Arbëreşë, Pasquale Baffi, il quale è stato l’emblema figurato, del parlato. tendenzialmente incline a scaraventare calamai e libri, il primo usato per scrivere, il secondo per leggere, contro il mentore che voleva dare lezioni di cose scritte male e lette peggio.  

Prova ne sono le gesta di Domenico, che ereditato da un suo avo prete, una corposa biblioteca di testi greci e latini, non sapendo egli leggere e scrivere, li utilizzava il mattino presto, per innescare il fondamentale fuoco del camino, per lui più utile di ogni cosa, evitando subito di patire il freddo, nel tempo della giornata colma del suo sentire al caldo del focolare materno.

Ciò nonostante, alcuni anzi troppi emeriti, dei trascorsi di ricerca, fanno uso ostinato per cercare metodi e cose da legge, composti da uno o più partecipanti, e nonostante siano firmati esclusivamente con, decima analfabeta, denotando senza alcun dubbio la radice storica Arbëreşë e, quindi, “atto non valido”.

Titolare i centri abitati diffusi realizzati in iunctura di solidità familiare, definendoli impropriamente con il sostantivo Germanico di “Borgo”, lascia a dir poco perplessi, specie per quanti conoscono l’assuntivo parlato, dove sono presenti sia il sostantivo per identificare, il costruito e sia i cunei agrari di sostentamento dei generi, ovvero: Katundë e Ka Valljetë Tònà.

Oggi si è giunti al punto di far apparire l’antica scuola Olivetara, una disposizione culturale allevata e cresciuta in favore delle incoerenze lungo la via Egnatia, nel tratto vissuto e illuminato dalla cultura Arbëreşë, poi abbandonato dal 1471e, da allora nelle disposizioni delle cupole e dei minareti di vergogna, secondo accenni di preghiera belata.

Adesso BASTA! il momento di svelare con coerenza storica, le vicende che hanno reso Napoli, la capitale della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë, va rivelata non elencando capitoli platee e onciari dirsi voglia, o promettere editi realizzati da figure che non trovano agio nei loro natii presidi, si dilettano a parlare di cose lontane di cui non hanno mai avuto misura conoscenza e rispetto.

Il centro culturale analizzato in tutte le sue componenti, consente di individuare i luoghi degli eventi e, le analisi delle parti o porzioni del centro antico partenopeo, dove il vissuto di fatti, uomini e cose, nasce non per campanilismi esasperato, ma lento avanzare, segnare e formare i luoghi come qui nel centro antico di Napoli Capitale ha sempre fatto l’acqua.

La stessa che scendendo dalle colline ha delineato nelle varie epoche percorsi di vita vissuta e condivisa, facendo in modo che la capitale diventasse luogo di semina fertile, della cultura Arbëreşë dal XIV. 

Allo scopo saranno posti in evidenza luoghi, residenze, strade vichi, palazzi, porticati, orti, fontane e monumenti, dove i segni indelebili della storia, sono stati seminati per dare germoglio fruttifero.

Segnando e valorizzando i luoghi di soggiorno e confronto di Giorgi Castriota poi della moglie e nel corso dei secoli, a tutte le attività che hanno visto attori di prima linea, figure di eccellenza del cuneo culturale degli Arbëreşë, seminando Attività che dal punto di vista culturale, di scienza esatta, dell’editoria, della musica, la politico, il sociale, di fratellanza europea e  religione, svelando e certificando i letterati che sono stati in grado della prima comparazione linguistica, la stessa che dopo le vicende del 1799 si è arenata e non ha saputo più dare agio unitario o prosperità linguistica di radice.

Sono innumerevoli i segni da seguire e interpretare, nel centro antico partenopeo, dentro e fuori le mura, le stesse che aiutano a comprendere come si sono distinti, nella capitale, un numero considerevole di eccellenze Arbëreşë, le uniche e sole, che per incompetenza di studiosi moderni hanno permesso di esaltare gli ultimi, riportando concetti finemente lucidati per apparire propri e non crusca bianca di quanti li hanno, in questi ambiti, preceduti, specie nelle cose che fanno e definiscono la storia reale, vera o dirsi indivisibile.

Il dolore si sposta, nel vedere piazze e strade segnate dal sangue versato, queste quinte fanno venire voglia di afferrare la testa con rammarico, perché potrebbe non esserci un’altra visione, che faccia in modo di essere un’altra persona e non sentire la violenza subita dalla storia.

Nonostante si cerca ancora di dare un senso a tutto questo e, ancora sentirsi escluso per cose che non sono buone, in tutto rendersi conto che il velo pietoso non è di trama tessile che pur se bianca è come farina, la stessa che fa dimenticare alla percezione del sangue li versato inutilmente da persone buone Arbëreşë.

Tutti pensano di essere al sicuro, rallentati e diretti dallo stesso veleno culturale dell’approssimazione di grano e per questo rubano agli altrui figli, le idee fatte di crusca che vale di più, cosi si illuminano innanzi alla platea distratta, pieni di vita e cultura che non gli appartiene.

Esistono luoghi nella capitale della regione storica degli Arbëreşë che nessuno conosce, tuttavia oggi è arrivato il tempo di illustrarli, onde evitare il proliferarsi di inediti inesatti imprecisi e utili solo a sopravalutare i complementari, rispetto i fondamentali.

A cosa serve al Balcano o all’Arbëreşë visitare Napoli recandosi nella via dei presepi e ingurgitare una pizza mal lievitata, quando la citta e il suo centro storico sono la patria culturale, dove sono incuneate le radici, del genio antico, di queste popolazioni che vissero la diaspora infinita.

Lo stesso che ha germogliato e reso le figure di eccellenza della regione storica e dei Balcani, il genio morale e culturale degli istituti Olivetari partenopei, lo stesso che oggi senza una ragione plausibile viene calpestato dai tacchi dei non addetti, i quali, così facendo termineranno per non alimentare o meglio annaffiare con misura le sempre fruttifere radici dell’operato Arbëreşë.

Napoli non è la citta del turismo mordi la pizza e fuggi, essa rappresenta un protocollo storico irripetibile, capace in tempi dell’isolamento, senza alcun sistema di comunicazione a realizzare con genio e intelligenza, il modello di integrazione mediterraneo che oggi la società e la politica globale non si riesce neanche ad avviare.

 In questo progetto di eccellenza inarrivabile, sia da una parte che dall’altra sono sempre presenti gli Arbëreşë, prima come pensatori, poi come dispositori e poi come attuatori; resta solo un dubbio: perché le odierne forze politiche non si recano qui a chiedere e forse trovare anche una soluzione per il malessere che oggi si lamenta come si faceva allora nella parte iniziale.

Napoli è la patria che adotta accoglie e alleva gli Arbëreşë, non sdegna questi figli adottivi, come è successo e succede in regione storica, dove non sanno e non hanno adeguato rispetto per gli illustri che qui, nella città dei partenopei hanno fatto la storia consolidando la notorietà della minoranza.

Storia per gli Arbëreşë del lessico, le discipline greche e latine, l’editoria, la religione e della scienza esatta e dei valori culturali di confronto culturale, politico e della fratellanza dei liberi pensatori, questi i più puri che la storia ricordi.

Potremmo indicare luoghi edificati o presidi dove tutto ciò è avvenuto, ma conserviamo la notizia per altro edito in allestimento.

Nonostante ciò ancora oggi si assumono gli stessi atteggiamenti verso quanti si prodigano per dare risposte, in senso mirato del consuetudinario storico di vestizione, di iunctura urbana e della toponomastica storica e, oltre a ciò come non menzionare le novelle rimate tradizionali degli odierni cultori, i quali senza formazione diffondono fatuo di candido biancore.

Gli stessi che si ostinano a enunciare e diffondere imprecisioni a dir poco elementari, privi di una minimale logica di luogo e tempo.

Come avviene per il costume tipico, l’organizzazione museale e le trame delle figure seconde diffuse dai campanili utilizzati come minareti mussulmani, per elogiare cupole delle corti persiane, ma questo è tutto inutile, perché basta uno formato a far tremare dipartimenti e capitani di ventura, li insediati per dare agio alla china identitaria ormai in fase terminale, in attesa di vegetale conviviale.

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ARBËREŞË E ALBANESI: LA SOLIDA RADICE E IL FATUO RAMO DI UNA CIVILTÀ ANTICA

ARBËREŞË E ALBANESI: LA SOLIDA RADICE E IL FATUO RAMO DI UNA CIVILTÀ ANTICA

Posted on 27 giugno 2024 by admin

Drago

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Sono in continuo affanno le istituzioni a est e ad ovest del fiume Adriatico e, ormai ogni esternazione pubblica di quanti dovrebbero aver capito cosa sono i due fronti, lasciando perplessi e basiti quanti conoscono e hanno consapevolezza della gogna allestita dal XIV secolo.

La regione Storica Diffusa Sostenuta dagli Arbëreşë, è un bacino culturale esempio di caparbia conservazione di fatti, cose e uomini, in tutto, radice linguistica, consuetudinaria, culturale, religiosa della moderna Albania che ancora non sa e non prende misura.

Quest’ultima, invece di avvicinarsi e collaborare con intellighenzia e affiancandosi alla Regione Storica, si prodiga a portare a termine il progetto, che sei secoli orsono, l’invasore non ha avuto modo di completare, estendendolo a tutto il bacino balcano.

Infatti sfuggiti gli Arbëreşë, come la storia ricorda menziona e sottolinea, secondo trama diffusa incerta degli storici moderni, confusi e imprecisi, i prodi che trovarono agio nelle terre parallele del meridione italiano, senza conoscere anche da dove siano giunti e, senza tregua tutelato, sfuggendo all’invasore e, nonostante continuino a tessere valori di terra madre, sono definiti, traditori senza rispetto o figli degeneri, da quanti furono forgiati con forme di cupole e minareti dell’arte islamica.

Tuttavia e come se nulla fosse accaduto in era moderna, per quanto attiene le forme prodotte degli Albanese verso i tutori Arbëreşë, questi ultimi, sono affiancati ad oggi con interesse mirati ed energicamente apporre memorie del nostro eroe Giorgio Castriota, solo perché fu “Scanderbeg con effigi ed elmo non certo di memoria cristiana”.

La tendenza per questo, non è certo a favore o seve a sottolineati gli emblemi per e con i quali ottenne la guida del mutuo soccorso, come è impresso nella porta bronzea Angioina Partenopea, a memoria dei suoi seguaci Arbëreşë, ma con quelli dell’esaltazione di cupole anomale sormontata da effigi improprie e, prive di ogni referenza o valore Cristiano.

Si raccontano migrazioni, senza addurre particolari storici in atto di quello specifico intervallo, si contano, otto, nove, dieci e forse di più approdi, senza considerare la reale necessità balcanica dell’epoca o cose diverse da quelle proposte per la salvaguardi del patrimonio storico, come quello perfettamente conservato, tutelato e difeso sino ad oggi dagli Arbëreşë.

Si esaltano cavalieri battaglie e sterminio di pari dignitari, per valorizzare un valore che non certo la storia ricorda con fatti uomini e cose prodotte per il bene diffuso delle genti in attrito.

Si millanta la provenienza di esaltazione grecanica dell’sud dell’Albania e poi si appellano toponimi o identificativi comuni, riferimento del centro nord, lasciando intendere che furono genti di formazione paritaria alla magna greca storica.

Si numerano migrazioni, ben diverse da quelle innescate per necessità a seguito della battaglia della Piana dei Merli, nota anche come battaglia del Cossovo, combattuta nell’omonima località il 15 giugno 1389.

È da questo atto che nasce la necessità di difesa Cristiana contro l’Invadenza e la prepotenza delle corti con cupole e minareti di esaltazione, che in quell’epoca erano veri e proprie fucine di perversione e arrembaggio di esaltazione.

Tutto questo, nasceva in modo perverso, per ricattare i principi delle terre Balcane una volta circondati e costretti a consegnare la discendenza maschile, per allevarla e piegare al loro volere, morale o fisico dirsi voglia.

Come capito a molte famiglie, delle quali, valgano di esempio quanto incuneato al Castriota Giovanni e al principe Vlad II Tepes, e molti altri ancora come loro.

A tal proposito va ricordato cosa accadde nel marzo del 1444, ad Alessio, quando Giorgio Castriota, il minore dei figli di Giovanni, fu proclamato all’unanimità, guida cristiana, e siccome tutti erano consapevoli, tutti uniti secondo il sancito del mutuo soccorso dell’Ordine del Drago, per affrontare dignitosamente e alcune volte un po’ meno alle ingerenze e soprusi Mussulmani.

Allo scopo è opportuno “rilevare, sottolineato e illustrare che la migrazione Arbëreşë, storicamente valida, è una sola”, ha inizio nel settembre del 1469 e termina nel marzo del 1533, ogni cosa che ha portato migranti prima e dopo questa data, in terra meridionale dell’o stivale mediterraneo, non è da ritenersi migrazione di esuli figli della diaspora Balcanica, perché appartengono ad altra filiera sociale politica e di bisogno culturale, delle due rive del fiume Adriatico.

Va in oltre sottolineato che un flusso latente, tra le due rive è sempre esistito senza mai terminare, per le inquietudini storiche dei Balcani, che hanno sempre innescato frotte di, mercenari contadini, nobili, faccendieri, artigiani e ogni sorta di figura in cerca di agio e tranquillità, nel vedere le rive ad ovest colme di abbracci buoni di accoglienza.

Cosa diversa sono gli Arbëreşë, che istituirono con garbo rispetto e opera di genio locale, la regione storica, secondo principi e prospettive di assenso specifiche e, se poi a questi nel corso dei secoli si sono sovrapposte altre genti proveniente dagli stessi ambiti, oggi continuano a sottolineare la diversità culturale di radice debole per i dissimili protocolli di promessa data.

Sono Arbëreşë tutte le genti che giunsero a seguito della permanenza partenopea di Donica Arianiti Commento, dopo la scomparsa del consorte Giorgio Kastriota, colui che i mussulmani appellavano impropriamente Scanderbeg.

Questa fu una pianificazione che Giorgio, realizzo con dovizia di particolari con i regnanti Aragonesi, assicurando loro che gruppi o macroaree abitate, potevano fornire oltre che valore al territorio, una più eccellente vigilanza di queste popolazioni di suoi sudditanti, garantendo la rinascita dei territori il controllo degli Arbëreşë fedeli oltre ogni misura umana in favore dei regnati, che per questo diedero agio sino al 1563.

Oggi queste attività di comune accordo sfuggono dalle diplomatiche dei comuni studiosi, i quali, perdono tempo nel realizzare elenchi di approdi, privi di senso e capacità insediativa, come se le attività di confronto, dialogo e cooperazione che hanno consentito la finalizzazione del modello irripetibile, di integrazione mediterranea, sia un caso fortuito caduto nelle braccia levate al cielo perché incompresi.

Restano alla memoria dell’era moderna gli atteggiamenti che dall’Albania hanno avuto come mira gli Arbëreşë, storicamente individuati come figli degeneri o fratelli traditori, ad iniziare dalla doppia decima del secolo scorso, con gli ecidi di quanti si esposero per rialzare la deriva che il paese delle aquile viveva quando erano terminate le guerre mondiali.

A memoria non vanno sottovalutate le azioni o atteggiamenti a seguito di questa doppia decade, che non sono mai stati benevoli o tipici di una fraternità riverberata nell’aria, ma nei fatti espressa con misura di provincia pronta ad essere occupata per poterla piegare come non si riuscì fare sei secoli orsono.

Oggi vediamo un andare dietro e avanti, di ogni sorta di figure, che appaiono come falchi millantano di essere Aquile Bicipite e, nel corso dei diversificati eventi, denotano solo due facce della falsa medaglia che vuole elevare minareti e non certo campanili di fratellanza.

È inutile elevare miti, effigi, scalfiti marmorei o scritto grafici moderni, privi dei minimali apporti storico linguistici di radice e, non approfondiamo nulla del protocollo di pronunzia linguistica, riferito al corpo umano e delle sue pertinenze.

Questo ultimo accenno avrà a breve una più ampia diplomatica, al fine di terminare questa deriva, nata con la legge che doveva essere di tutela degli Albanesi e che invece ha fatto più danno che l’invasore mussulmano agli Arbëreşë.

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ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

Posted on 26 giugno 2024 by admin

011NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.

una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.

Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.

La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran conside­razione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché co­noscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.

Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.

Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.

Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.

In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.

Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.

Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specia­listi, tuttavia altri mezzi di più fa­cile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.

In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.

Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.

Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.

Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.

Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.

In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.

Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.

Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.

E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.

Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.

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TORNANO NEI KATUNDË SENZA ARTE MA ARMATI CON LO SCUDO DI LODE OLIVETARA (Viceù Karusjtë thoj: janë profesùra mosë ju chias se bëgnènë dëme)

TORNANO NEI KATUNDË SENZA ARTE MA ARMATI CON LO SCUDO DI LODE OLIVETARA (Viceù Karusjtë thoj: janë profesùra mosë ju chias se bëgnènë dëme)

Posted on 22 giugno 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La diplomatica che delinea questo trattato di storia è il risultato di oltre un quarantennio di ricerca, eseguita con confronti e approfondimenti documentali, interpretati dal genio di numerose figure dipartimenti partenopee, oltre lo studio in Geographic Information System (G.I.S.), attraverso il quale è stato possibile produrre e proporre contenuti responsabili e certi, dei trascorsi Arbëreşë, dai tempi del regno di Napoli sino ad oggi, Meridione Italiano.

Se a questo sommiamo il saper interpretare le cose vernacolari dell’idioma, il genio locale e le nozioni ereditate dalle eccellenze locali più illustri e trainanti, sia nel loco natio che nella capitale del regno, la genuinità dei contenuti non può essere che eccellenza.

L’intento qui perseguito, senza soluzione di continuità, quindi, mira a fornire agio e solidi principi, per quanti devono esercitare il ruolo o essere funzionari della salvaguardia, le cose e i contenuti, materiali ed immateriali, dei luoghi che le figure su citate, hanno esposto per i principi di salvaguardia, promozione e tutela, delle radici incuneate nel terreno più fruttifero della storia locale.

L’auspicio quindi, mira ad innalzare l’operato dei compiti a disposizioni delle istituzioni tutte, ogni volta che dovranno adoperarsi a divulgare o promuovere cultura e cose del passato, in tutto un solido impegno diffuso, al fine di segnare ogni cosa, soprattutto nei tempi di maggior disagio, come quelli che stiamo vi­vendo da un secolo e, nel quale prevale la crisi di valori fondamentali, gli stessi che hanno intaccato l’operato di molti addetti, convinti di dover vivere un disagio storico disarmante senza alcuna nozione che possa recuperare interamente quanto già compromesso diffusamente.

Questa diplomatica, affiancata ad altre iniziati­ve “Socio-Culturali-Agili”, hanno tutte consentito di produrre atti sufficienti per la stampa di cinque volumi i cui contenuti sono qui ripostati: il primo; sulle vicende che definirono l’esodo nelle terre parallele del meridione Italiano; il secondo, riferito alle figure emblematiche che salvaguardarono il genio locale e articolarono la cultura e le credenze; il terzo, sui tipici sistemi urbani dei centri storici, facente parte la regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë; il quarto, riferito al costume tipico e del valore di sostenibilità morale della minoranza, il percorso tra casa e chiesa; il quinto, la trattazione e l’uso del canto affiancato in età moderna dalla musica secondo i temi di metrica per conservare l’originario idioma.

Il tutto cer­tamente consentirà la diffusione a tutti i nuovi e antichi parlati e, soprattutto ai giovani inesperti o acerbi cultori, senza alcuna formazione plausibile, o meglio senza titoli di maturità, in specie di tutti i generici, subito rincasati dopo essere stati coronati, di comuni strumenti con lode, mai validato con le cose antiche della storia di radice esclusivamente Arbëreşë.

Questi in particolare i più determinanti alla perdita di ogni valore antico atto a comprendere meglio e di più, le motivazioni che hanno determinato lo stato della realtà fortemente penalizzante barcolla od oggi in ogni evento prodotto.

I cinque temi citati, sono stati soprattutto realizzati con – l’auspicio, il coraggio e la volontà – di porre in essere una diversa mentalità, oltre un più fattivo modo di interagire con le multiformi dinamiche dei tempi nuovi, che non certo collimano con le cose del passato, garantendo futuri solidali di una identità parallela che ormai si va estinguendo in nome non degli arbereshe, ma della moderna Albania balcanica (?).

È convinzione che questo lavoro sminuisca l’inquietudine, lo smarrimento e le dif­ficoltà di ogni genere che si autoelegge o viene eletto in attività di oggi, o del passato breve e secolare, addebitando, a tutti i livelli istituzionali, senza alcu­na remora, la cattiva conduzione dei privilegiati, i quali privi di ogni sorta di substrato culturale adeguato, considerano la funzione pubblica, qualsiasi essa sia (politica, amministrativa, scolastica, ecc.), come uno strumento di potere e non di servizio.

Questo ha fatto sì che una nuova epoca nascesse per condurre a superare le difficolta di questo cuneo anomalo, geometricamente piatto, seminando per questo, nostro mal grado, raccolti che non possono alimentare le cose della nostra esistenza, asservendola ad interessi personalistici e spesso giunge ad utilizzare il po­sto di responsabilità per tessendo oscure e adombranti tele, il cui messaggio finale non conduce a nobili principi di fratellanza leale.

In queste contingenze, la conoscenza della storia locale potrebbe apparire un insi­gnificante artificio o vano esercizio al modello di iunctura locale, non potendo rappresentare la soluzione dei grandi temi che interessano e coinvolgono la resilienza posta in esame.

Tuttavia, premesso che tale soluzione è una questione di ricambio generazionale, nella speranza che quelli che verranno, saranno migliori di noi, a ben considerare, il contesto in cui la storia locale è inserita, costituisce uno strumento insostituibile per la presa di coscienza di taluni risvolti dei tempi prossimi e lontani che siano; l’importante è adesso, per questo serve segnare­ un percorso ben determinato a cui si dovranno organizzare i Katundë gli şeşi e i due governi locali: ovvero quello delle Donne la Gjitonia e quello degli Uomini Kuşetë.

Una presa di coscienza che, mira ad abiurare all’uso delle più nobili facoltà umane, per fare un primo passo per interagire con le contingenze attuali e, non fre­nare ulteriori riflessioni sul passato per confrontarlo col presente con mono temi o riflessioni che co­stituiscono un valido mezzo per “leggere e comprendere” le complesse dinamiche odier­ne riversate, come si fa con l’aceto quando, la speranza, è l’unica arma per far diventare buon vino l’aceto corrente.

Sono proprio le cose minime che ci permettono di comprendere meglio ogni cosa della nostra storia locale che unisce la regione storica, perché più vicine al nostro animo e al nostro quotidiano, laddove le vaste conflittualità internazionali tendono a sacrificare ciò che è ritenuto marginale.

La ricerca dei fatti, per quanto di portata limitata, che hanno interessato un qualsiasi Katundë, costituisce un mezzo formidabile per avvicinarsi alla verità, laddove i documenti ufficiali, proprio in quanto tali, testimoniano per lo più solo ciò che l’ufficialità deve dire proporre o dimostrare in favore dei poteri forti.

Per questo diventa fondamentale “tradurre per capire” le cose necessarie, oggi più che mai, dal mo­mento che gli artifici dei messaggi politici sono intesi solo ad assicurare il consen­so ma non a risolvere i problemi che un certo tipo di politica ha causato nello svolgersi delle cose.

Siamo coscienti che in questi ambiti e in queste contingenze ci vuole coraggio nel proporre di seguire la strada della conoscenza e della coscienza, anche individua­le, e a proporre di lasciare uno spazio per “pensare con solare mira”.

Tutto questo è necessario farlo, af­finché la via prescelta nella qualità di operatori culturali non sia stata percorsa in­vano.

Ecco allora una “proposta” di lettura di alcuni “temi fondamentali” della regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë, che si possono identicamente riversare in ogni Katundë.

Storia di estremo interesse che affonda le sue radici nei tempi della magna Grecia, poi dei Romani, i Longobardi, i Bizantini, i Cistercensi sino alle vicende che dal 1473 iniziarono sollecitare la diaspora balcanica, quando tramite vari insediamenti agricoli costoro occuparono il territorio ispirati dagli abbracci posti ad ovest del fiume adriatico, sino dove riposa lo Jonio; se ne ha traccia nei pochi cocci che ancora si possono rilevare nella modeste Kallive prime, inglobate nel costruito del palazzi nobiliari ottocenteschi.

La cultura agricola e pastorale venne rivitalizzata dai “mo­naci” greci i quali, sulle basi della solidarietà religiosa di  Llighjia, interagendo con l’ambiente naturale, rifondando la nuova civiltà nate lungo i “lavinai” le quali, unite attorno all’edicola religiosa prima, costituirono il nucleo dove il “Genius loci ” diede i frutti che ancora oggi sono rinvenibili. Civiltà che poi si risolse nella dismissione di ogni senso di unità per sfociare in un duro contrasto tra nobiltà e Signoria civile e religiosa.

Superati an­che i dissidi, in tale occasione venne ridotto il rito Ortodosso in favore del Latino e, nel Set­tecento visto la deriva di credenza in atto, si avviò un loco di formazione clericale moderata Bizantina, della società Arbëreşë controllata sempre dai clerici Latini di locale pertinenza una ricchezza che nell’Ottocento inoltrato finì col soggiacere alle diverse dinamiche socioeconomi­che della nuova borghesia dell’Italia unita.

Il substrato religio­so eredità di numerosi luoghi di culto rappresentò sempre un elemento trainante di alcune macro aree della Regione storica.

Terminando con la determinazione due opposte fazioni di rito latino e greco bizantino, determinando anche contingenze e vantaggio di una sempre più stretta cerchia di famiglie, il cui potere si espresse nelle forme consuete di dominio dei Katundë.

Tali aspetti della storia dei centri storici, sono stati ricostruiti dagli autori ricorrendo alle indispensabili ricerche o indagini sul territorio.

Esse rappresentano le basi per ulteriori studi che, tramite saggi monografici, potrebbero contribuire a meglio conoscerne le dinamiche storiche anche dal punto di vista della credenza locale delle diverse macro aree.

Perciò, nella coscienza va considerato un punto di partenza segnato con un edito in tale direzione che deve servire a far emergere nuove domande, e nell’auspicio che anche questo sarà da stimolo a pochi o a molti per farli riflettere sulle proprie radici locali, residenti o emigrati, ma soprattutto ai giovani, affinché, tramite una maggiore presa di coscienza, li aiuti a meglio intera­gire coi tempi nuovi in prospettiva e per costruire un futuro sostenibile con la solida radice Arbëreşë.

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GIS e Beni Culturali: beni tangibili e beni intangibili GIS and Cultural Heritage: tangible and intangible assets Caterina Gattuso a, Atanasio Pizzi b, Valentina Roviello c

Posted on 22 giugno 2024 by admin

a Professor, Dep. of Biology, Ecology and Earth Sciences, (DiBEST), Univ. of Calabria, Rende (Cosenza), Italy, caterina.gattuso@unical.it

bArchitetto ricercatore sulla storia arbëreshë, atanasio@atanasiopizzi.it

c Dep. of Chemical, Materials and Production Engineering (DICMaPI), Univ. degli studi di Napoli Federico II, Napoli, Italy, valentina.roviello@unina.it

 

Abstract

La valorizzazione dei beni culturali presenti in un determinato contesto territoriale può essere perseguita anche attraverso strumenti avanzati di catalogazione, composizione e rappresentazione delle informazioni in un dossier articolato in cui le componenti siano relazionate in modo da fare emergere ulteriori elementi caratterizzanti. Fra questi strumenti si (Sistemi Informativi Geografici). Un GIS permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione di banche dati territoriali.

In questo paper si propone un approccio metodologico, fondato sull’uso di GIS, finalizzato alla ricostruzione di scenari storici e al disegno di percorsi turistici, mettendo in risalto i beni d’interesse culturale situati in un’area.

Il lavoro propone e illustra due casi applicativi che, pur molto diversi, si prestano ad esprimere le potenzialità dell’approccio metodologico. Il primo, di tipo tangibile, consiste in  una ricerca mirata ai siti archeologici della colonia di Vulturnum, rintracciabili nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno (Campania); il secondo caso, di tipo intangibile, è relativo alla redazione di una carta della tutela della Regione Storica Arbëreshë”.

 

Abstract

The promotion of cultural heritage present in a particular local context can be pursued through advanced tools for cataloging, composition and representation of information in a dossier articulated in which the components are related in order to bring out more distinguishing features. Among these tools (Geographic Information Systems). A GIS allows you to overlay different thematic information layers or to produce new information and therefore data for the management of territorial databases.

In this paper we propose a methodological approach, based on the use of GIS, aimed at the reconstruction of historical scenarios and to design tourist routes, highlighting the cultural interest located in the area.

The paper proposes and illustrates two case studies which, though very different, are suitable to express the potential of the methodology. The first, of a tangible, consists of a targeted search of the archaeological sites of the colony Vulturnum, traceable in the river system of the lowlands of the river Volturno (Campania); the second case, an intangible one, is related to the drafting of a charter for the protection of Region Historical Arbëresh “.

 

Parole chiave: GIS, Beni culturali tangibili, Beni culturali intangibili

Keywords: GIS tangible cultural heritage, intangible cultural heritage

 

  1. Introduzione

Nel relazionare informazioni e dati reali, espressi sotto forma di simboli, riguardanti un luogo geografico riportato su mappe in scala, la cartografia offre la possibilità di operare specifiche elaborazioni a fini conoscitivi, che possono estendersi non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

È noto che un GIS (Geographic Information System) permette di sovrapporre diversi tematismi o livelli informativi per produrre nuove informazioni e quindi dati utili per la gestione del territorio.

La sovrapposizione (overlay) delle carte storiche con quelle più recenti consente di tracciare l’evoluzione fisica, ambientale e culturale di un determinato territorio.

Le informazioni in tal modo acquisite diventano quindi di riferimento sia per il patrimonio dei beni culturali di tipo tangibile costituito dal patrimonio monumentale ed archeologico, sia per il patrimonio di tipo intangibile, quale è la cultura arbëreshë solidamente radicata sul territorio dell’Italia meridionale.

I dati territoriali incrociati e posti a confronto, con l’utilizzo di un software GIS, possono fornire importanti riferimenti concernenti i beni tangibili per la gestione e la valorizzazione del patrimonio materiale esistente in una macro-area definita. Nel caso di beni intangibili invece diverranno fondamentali per la stesura dei contenuti di una “carta per la tutela” quale ad esempio quella di una determinata minoranza storica linguistica che presenta nuclei diffusi sul territorio.

  1. Beni tangibili e aree archeologiche

La colonia di Vulturnum prende il nome dal fiume che attraversa buona parte della pianura campana. L’area in esame è stata a lungo oggetto di studi multi-disciplinari, volti:

  • alla ricostruzione della stratigrafia del sottosuolo, che nel tempo è stato condizionato da frequenti variazioni eustatiche e da eventi vulcanici, con conseguenti interdigitazioni di depositi di ambiente marino, alluvionale, vulcanico, e la formazione di una circolazione idrica sotterranea superficiale (Sacchi M. et al., 2014, Amorosi A. et al., 2012);
  • allo studio dell’uso del suolo e della geo-morfologia costiera dall’antichità ad oggi, ossia lo studio dei processi di tipo naturale o antropico che hanno determinato l’evoluzione del territorio e della costa (D’Ambra G. et al., 2009, Ruberti D. et al., 2008);
  • allo studio delle popolazioni floristiche e faunistiche che popolano l’area, mirato alla conservazione del paesaggio, conferendole un’importanza non solo a livello naturalistico, ma anche ecologico (l’Oasi dei Variconi e la Pineta di Castel Volturno) (D’Ambra G. et al., 2005).

Pochi studi sono stati condotti su quest’area, per la ricerca dei siti di interesse archeologico mirati alla loro conservazione. Tuttavia, dalla ricerca bibliografica ne emerge uno molto dettagliato (Crimaco L., 1991), nel quale viene sviluppata in modo dettagliato una applicazione GIS (Roviello V. 2008). Si racconta che, dove sorge ora il centro di Castel Volturno, nell’antichità sorgeva la colonia romana di Vulturnum. Alcuni autori come Varrone, più tardi Plinio e Pomponio Mela, la definiscono come un oppidum, altri la annoverano semplicemente perché sorgeva nei pressi del mare o nei pressi del fiume Volturno, ma essa non è menzionata in alcuna fonte di età tarda. Fondata nel 194 a.C, fu sede episcopale, come sembrano confermare alcuni documenti dell’età di Papa Simaco (498-514) e anche una lettera attribuita a Papa Pelagio I (551-556). La diocesi di Vulturnum rimase ancora attiva durante il pontificato di Papa Gregorio Magno (540-604), alla fine del VI secolo. La ricerca topografica condotta a tappeto su circa 70 kmq di territorio, nelle varie località della colonia di Vulturnum, ha fornito parecchi dati utili a ricostruire le abitudini della civiltà insediatavi e alcune delle attività che producevano sviluppo nell’area.

All’interno di case coloniche, ville, villaggi, santuari e necropoli, sono state recuperate numerose ceramiche, suppellettili, frammenti di pavimento e mosaici, statue, teste votive, articoli di corredo funebre, tutti databili tra la seconda metà del IV sec. a.C. e il VI sec. d. C. (Figura 1a). L’ampio utilizzo della ceramica è testimoniato anche da un esteso scarico di anfore, ritrovato nei pressi di un ansa fluviale, che probabilmente riconduce alla presenza di un vero e proprio quartiere industriale specializzato nella produzione di ceramiche. Inoltre il ritrovamento di diverse macine da grano in lava leucitica, richiama l’attività di coltivazione cerealicola lungo le allora fertili sponde fluviali. Le religiosità erano molto sentite all’epoca, basti pensare alle numerose pratiche e luoghi di sepoltura presenti nelle necropoli (tombe a cappuccina, a cassa e a camera).  L’overlay eseguito in ambiente GIS, mediante il software Geomedia Professional, ha permesso di ampliare le conoscenze su questa colonia, sovrapponendo a tali dati, la ricostruzione storica dei meandri abbandonati del fiume Volturno (Figura 1b).

 

Probabilmente il motivo per cui i siti ricadono sulle antiche anse abbandonate è da ricondurre al ruolo di via di comunicazione che aveva il fiume, che consentiva di raggiungere più facilmente le  aree interne dal mare, ma   anche e soprattutto alle attività urbane e commerciali, in quanto le fertili sponde offrivano alle popolazioni un grande beneficio, che quindi qui vi si insediavano. Purtroppo l’area presenta oggi un notevole livello di inquinamento e degrado, con ogni sorta di rifiuti accumulati nel corso degli anni nelle acque del fiume, sulle sponde, nei suoli e perfino nella falda idrica sotterranea.

 

  1. Beni intangibili e cultura arbëreshë

Gli ambiti naturali e i sistemi urbani diffusi sulle colline dell’Italia meridionale, rappresentano l’humus ideale dove i beni tangibili e intangibili della minoranza “arbëreshë” hanno trovato dimora e vita per riverberarsi ciclicamente sino a oggi. Storicamente la minoranza è riconosciuta come una delle poche in grado di tramandare, grazie alla consuetudine, all’idioma e ai riti, utilizzando la sola forma orale (Figura 2a). Per tale motivo gli studi hanno privilegiato gli aspetti prettamente linguistici, sottovalutando per decenni il rapporto che gli esuli hanno avuto con i territori posseduti, abitati, frequentati o attraversati; in altre parole, è venuto a mancare l’attenzione verso il GENIUS LOCI (Pizzi A., 2003). Ciononostante, la storia sin dai tempi dei romani con Servio, ricorda che “nessun luogo è senza un genio” (nullus locus sine genio).

Per sopperire a tale carenza storica è possibile trarre informazioni, attraverso la sovrapposizione (overlay) e il confronto di carte storiche con quelle più recenti fornite dall’Istituto Geografico Militare (IGM) che, tenendo conto anche dei rilevamenti digitali odierni, permetteranno di tracciare un percorso storico, ambientale e culturale della minoranza e sopperire così alla mancanza di informazioni documentali.

Per delineare un quadro delle aree prese in esame, il territorio del Regno delle due Sicilie è stato suddiviso in macro-aree omogenee corrispondenti alle Regioni dell’Italia meridionale (Figura 2b) come di seguito riportate:

Abruzzo: Provincia di Pescara; (Macroarea della Strada Trionfale);

Molise: Provincia di Campobasso; (Macroarea del Biferno);

Campania: Provincia di Avellino; (Macroarea Irpina);

Lucania: Provincia di Potenza; (Macroarea del Vulture, del Castello e del Sarmento);

Puglia: Provincia di Lecce e Taranto; (Macroarea del Limitone e della Daunia);

Calabria: Province di Cosenza; (Macroarea della Cinta Sanseverinense suddivisa in sub m.c. del Pollino, delle Miniere, della Mula, della Sila Greca); Provincia di Crotone; (Macroarea del Neto); Provincia di Catanzaro; (Macroarea dei Due Mari); Provincia di Regio Calabria; (Macroarea dei Caraffa di Bruzzano);

Sicilia: Provincia di Palermo; (Macro-area del Primo Maggio).

 

         Fig. 2 – Regione Storica: aspetti caratteristici, a. Italia : carta delle regioni Arbereshe, b.

 

Va rilevato inoltre che, nel Mediterraneo, i nuclei insediativi e i loro contesti naturali ricadenti in questi macro-sistemi abitativi essendo ritenuti “preziosi frammenti dell’umanità non replicabili”, vanno considerati oggetto di studi privilegiati e necessari per garantirne una corretta tutela.

La realizzazione di un G.I.S., diventerebbe, quindi, un supporto fondamentale, in cui far convergere tutte le informazioni acquisite.        

L’implementazione di un Relational Data Base Management System (RDBMS), inoltre, fornirebbe informazioni dettagliate riferibili a momenti storici di zone ben identificate, inquadrandone l’evoluzione e gli aspetti che hanno caratterizzato l’insediamento dei minoritari albanofoni.

 

 

  • Carte storiche e disposizione dei centri urbani

 

L’analisi delle carte storiche consente già, semplicemente mediante la loro sovrapposizione, di rilevare una linea altimetrica lungo la quale sono situati gli agglomerati diffusi arbëreshë corrispondenti agli odierni centri storici.

 

 

L’interessante informazione ottenuta rafforza il principio secondo cui le scelte d’insediamento nella provincia Citeriore, come storicamente accade, non sono da ritenere casuali, ma dettate da esigenze strategiche preordinate e studiate per rilanciarne l’economia e per garantire opportune difese da incursioni alloctone.

Nel confrontare i rilievi cartografici di varie epoche relativi ad aree a rischio malarico (Figura 5), si è rilevato che l’edificato residenziale segue sempre lo stesso tracciato della linea riconducibile alla detta cinta Sanseverinense o della linea isoglossa, facilmente tracciabile mediante strumenti largamente utilizzati nella geografia linguistica, che collega tutti gli agglomerati della provincia citeriore calabrese su uno stesso livello (Figura 3 b).

Il tracciato trova conferma anche nelle abitudini storiche delle genti che vissero le terre oltre il mare Adriatico così come richiamato dal teorema del filosofo Aristotele, riportato nel libro VII° che si riferisce alla città buona.

 

Fig. 3 – Calabria: aree a rischio Malarico, a; Calabria: disposizione dei paesi Albanesi, b.                                         

Tali informazioni consentono di comprendere i criteri seguiti ed utilizzati per riconoscere e selezionare aspetti climatici, orografici e di salubrità adeguati che in terra citeriore erano garantiti nei territori posti a 400m sul livello del mare; si tratta delle isoipse sulle quali sono posizionate le residenze albanofone. I presidi di residenza, furono trasformati dagli abitanti, abituati da secoli al rispetto del territorio, stabilendo un rapporto di mutua e rispettosa convivenza con i parametri morfologici, orografici, climatici, vegetali e faunistici delle aree. (Mazziotti I., 2004, Giura V, 1984) In queste macro-aree, assicurata la salubrità dei luoghi di residenza, confermate le costanti dei sistemi urbani, si è costruito utilizzando tipologie abitative ancora presenti su tutto il territorio della RsdA (Regione storica diffusa Arbëreshë), adoperando esclusivamente materiali reperibili in loco senza troppo incidere sul territorio, composte da tre componenti:

  • il recinto delimita il territorio ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto;
  • la casa, anch’essa circoscritta dal cortile, costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti;
  • il giardino, luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

La presenza di tali elementi segna il territorio occupato dagli albanofoni, dando vita nel corso della storia ai rioni che ne caratterizzano i paesi con i toponimi storici.

Per quanto attiene agli aspetti sociali, nel periodo che va dal XV secolo, data di arrivo degli albanofoni, sino al XXI secolo, gli esuli lentamente si dissociano dal modello familiare allargato, per quello urbano e in seguito, in tempi più recenti, si afferma il modello della multi-medialità (Mandalà M. 2007).

 

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la connotazione di famiglia urbana, si realizzano i primi isolati (manxane), seguendo schemi indissolubili sociali, dando inizio allo sviluppo degli agglomerati diffusi albanofoni, tendenzialmente accolgono le direttive dell’urbanistica grecanica, ciò è identificabile nella regola che allocava prevalentemente gli accessi delle abitazioni sulle strette vie secondarie, ruhat e con molta diffidenza nel tardo periodo in quelle principali hudat (Capasso  B. 1905). Un’ attenta disamina comunque non può sorvolare su un aspetto fondamentale: il significato di “rione” e di “quartiere”, due momenti storici che identificano ambiti prettamente urbanistici e quindi elastici, da quelli delle disposizioni rigide dei presidi militari; il rione, diviene elemento fondamentale degli assetti urbanistici diffusi, dei modelli caratteristica arbëreshë. Per confermare quanto detto è stato eseguito un confronto su aero-foto e planimetrie dei Comuni di Cavallerizzo, Santa Sofia De Leo P. (1988) e Civita Cirelli F. (2006), da cui emergono schemi tipologici di sviluppo urbano diffuso, riferibile al concetto di famiglia allargata Dodaj P. (1941), lo stesso che accomuna gli ambiti minoritari del Regno di Napoli dal XV secolo abitati da albanofoni. (Figura 4 a, b). Lo schema di sviluppo segue due parametri fondamentali: “articolato”, quello più antico, mentre in tempi più recenti riconducibili a quello “lineare”; essi vengono generati da presupposti sociali che poi sono riconducibili all’antico concetto di Gjitonia (Pizzi op. cit) .

 

Fig. 4 – Insediamenti rupestri in Albania, a. Insediamento di Cavallerizzo in Calabria, b.

 

Quest’ultima è riconducibile alla frase “dove vedo e dove sento”, che tradotta letteralmente dall’albanese antico, vuole individuare il luogo in cui gli arbëreshë riescono a convergere i cinque sensi; infatti la Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, per certi versi è persino palpabile, senza poter essere tracciata fisicamente (Pizzi op. cit).

Nello specifico è stato esaminato in maniera più dettagliata il borgo di Civita, in quanto conserva intatto il suo antico assetto planimetrico, infatti il suo centro storico ha subito solo lievi ammodernamenti e la periferia si presenta pur essa intatta poiché non sono state realizzate aree periferiche di espunzione (Figura 5).

La costruzione di un GIS in cui inserire i dati, consentirebbe di gestire informazioni utili per creare un percorso storico-culturale riferibile ai beni tangibili e intangibili albanofoni e quindi di avviare opportune azioni di tutela del patrimonio. Ciò anche in considerazione del dibattito relativo ai centri storici minori tendenti ad avere più parsimonia nell’utilizzo del territorio e maggiore sensibilità nei confronti della tutela dell’immagine del paesaggio.

Poiché l’architettura può essere considerata una traccia sul territorio, simbolo del carattere distintivo    degli agglomerati albanofoni, le informazioni raccolte nel sistema geografico d’indagine possono essere di ausilio non solo per sostenere le azioni di recupero dell’antico edificato ma anche per tracciare in modo più approfondito la storia degli ultimi sei secoli. Determinati caratteri costruttivi rilevabili nelle architetture appartenenti ai sistemi (Pizzi op. cit) urbani arbëreshë apparentemente privi di significato, possono infatti, con l’ausilio di un sistema geo-referenziato, rivelarsi utili elementi (Pizzi op. cit) ai fini della ricostruzione delle modalità di crescita e delle trasformazioni urbane di una cultura caratterizzata soprattutto da un patrimonio di conoscenze che si tramanda solo oralmente.

L’intangibilità dei valori arbëreshë si può quindi cogliere anche attraverso segni chiaramente tangibili riscontrabili sul territorio quale ad esempio le tipiche rotondità che caratterizzano i vicoli e rappresentano i confini dei lotti (Gonzalès R. A. 2005).

Il recupero dei beni tangibili e intangibili dei centri storici albanofoni attraverso un RDBMS avrà come riferimento le cartografie riferite alle tappe della storia, i concetti della famiglia allargata e la sua ascesa, dati legati all’economia, i concetti dell’urbanistica e degli agglomerati diffusi, le arti edificatorie, l’analisi delle metodiche e l’utilizzo dei materiali, dati che, opportunamente intrecciati, forniranno un itinerario storico per interpretare e comprendere l’evoluzione delle singole macro-aree urbane. La conoscenza del GENIUS LOCI albanofono sarà fondamentale per un recupero funzionale più attendibile e corrispondente all’immagine architettonica arbëreshë, secondo un protocollo sancito dalla Carta della Regione Storica, la cui finalità è la tutela delle peculiarità del tessuto edificato storico. In quest’ottica le informazioni contenute nel GIS diventano basilari per il recupero e la valorizzazione di spazi, edifici e ambiti che rappresentano la vera risorsa dell’economia minoritaria, secondo consuetudini uniche; essi possono permettere inoltre di individuare tipologie, tecnologie pigmentazioni e materiali tipici che hanno tenuto vive le costanti dei minoritari albanofoni; lingua, consuetudine e religione, tramandate esclusivamente in forma orale.

 

Conclusioni

Informazioni e dati intangibili diversamente per quel che accade per quelli tangibili non possono essere facilmente trasferiti su mappe geo-referenziate; ne deriva la necessità di individuare elementi sul territorio che assumano funzione di supporto sulla base di opportune correlazioni.

Nello studio proposto vengono esaminate due tipologie di patrimonio, una di tipo tangibile ed una di tipo intangibile che hanno un comune forte riferimento rappresentato dal territorio in cui si trovano.

Il primo è costituito dai siti archeologici della colonia di Vulturnum, presenti nel sistema fluviale della bassa pianura del fiume Volturno in Campania; il secondo riguarda la cultura “Arbëreshë” che trova le proprie connessioni nel linguaggio tipologico-costruttivo e nella peculiare conformazione urbana dei centri albanofoni.

In ambedue i casi appare di notevole rilievo l’utilizzo delle potenzialità offerte dai sistemi GIS, essi attraverso la raccolta geo-referenziata di dati ed informazioni, consentono di acquisire un  importante bagaglio di conoscenze utili per valorizzare il patrimonio di beni tangibili di una comunità ed anche quelli apparentemente meno evidenti rappresentati dai beni intangibili la cui esistenza si esprime attraverso forme espressive singolari leggibili sul territorio a cui sono associati aspetti culturali.

Le informazioni contenute in un sistema geo-referenziato dovrebbero fornire dati attraverso i quali sviluppare attività e progetti di valorizzazione come la redazione della carta per la tutela della Regione Storica Arbëreshë” prevede.

 

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Ruberti D., Strumia S., Vigliotti M., D’Ambra G., D’Angelo C., Verde R., Palumbo L. (2008). La gestione integrata della fascia costiera: un’applicazione al litorale Domitio, in provincia di Caserta, Atti del Convegno Nazionale “Coste Prevenire, Programmare, Pianificare”. Maratea, 15-17/05/2008, Studi e ricerche della collana dell’Autorità di Bacino della Basilicata n. 9, 309-319.

Sacchi M., Molisso F., Pacifico A., Ruberti D., Vigliotti M. (2014). Evoluzione olocenica del Lago di Patria, Campania: un esempio Mediterraneo di laguna costiera associata a un sistema deltizio, Global and Planetary Change. 

De Leo P. (1988). Minoranze etniche in Calabria e in Basilicata, Di Mauro Editore

 

 

 

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DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

Posted on 15 giugno 2024 by admin

Aglomerati primariaaaa

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Uno dei più dolorosi episodi delle umane miserie, può definirsi la pena più antica del genere umano, in altre parole, mettere a disposizione dell’offerente tutte le intime cose del pagante; e ogni cosa si consolida in prostrazione fisico/morale.

I protagonisti sono sempre due, una meno illustre, alla spasmodica ricerca di viandanti o “faccendieri mercatali senza scrupolo” e, l’offerente disposto ad ogni cosa pur di ricevere compenso.

Entrambi lottano, per la propria sopravvivenza, fisica o morale dirsi voglia e, i vestimenti hanno sempre come scenario angoli di strade, piazze, lavinai e palazzi, dove non vi è mai nata erba buona, perché luogo buio e usurante, che riconduce e sottane usate come lenzuolo coprente.

Tutto davanti la casa dei clerici che chiedono, preghiera alla clientela, generando fedeli con mira del sacrificio in sole dieci paternostri, dopo aver avuto quanto richiesto, con poca spesa.

Questo atto antico pur se bandito da ogni credenza, con prescrizioni, ricompare sempre primeggiante, balda, sfrontata ed impudica, perché il bisogno di donazioni, premiata con l’olio concimato dalla pelle in decomposizione, di memorie antiche.

Sono note le vicissitudini dalle sue fioriture nella Gjitonia bizantina, fino ai giorni nostri e, i ricavi, prima di essere frantoiati sono depositati per arroganza lì dove è sepolto l’antico fonte battesimale.

Noi studiosi e divulgatori di questo lavoro di ricerca, poniamo ogni pena dove tutto ha origine, sia nel bene che si può ottenere conoscendo le cose e quindi, per il male prodotto, in tutto, una memoria che restituisca decoro e pudibondo all’involucro che si addice al buon costume e, alla pubblica onestà di questo luogo.

I quadri appariscenti e senza vergogna saranno coperti, ed apposite note serviranno a evidenziare il degrado umano, a cui hanno portato all’avvilimento di coloro che frequentano gli antri, ove infelicissime creature trafficano del loro onore senza avere mai un momento di vergogna o ripensamento pudico.

L’esposizione del cattivo gusto a buon vedere degli artisti, rappresenta il più efficace rimedio all’apparire come venditori di sé stessi, pronti ad infettarsi con sereno e gioioso animo di unione falsa per danaro.

Tuttavia nonostante le tante apparizioni pubbliche e private, i prodi addetti, non hanno avuto interesse verso niente e nessuno se non lasciare impronta con il loro godimento ai posteri, non con immagini benevole ma il tanfo del degradarsi della loro radice infetta, oltremodo ornata di femminei acconciamenti in pose di vilissimo, stesi a riposo, nel pieno delle proprie attività utili a ricondurli negli orti ornati con feci e cose deteriorate.

Noi sveliamo turpezze e brutture, ma speriamo che da queste abbiano beneficio, in rifugio tutti coloro che vi porteranno lo sguardo per rimanere sconcertati o offesi.

Se un tale orrore dovesse ancora oggi invade gli animi, i tristi fondaci rimarranno deserti, con l’infamia certa del commercio, di chi vende anima e corpo, ai compratori a buon mercato, gli stessi che non sanno fare famiglia, Gjitonia, Shëşë e Katundë.

Resta solo chi si occupa di storia, naturalmente quella vera, a partire dalla parlata, con argomento i trascorsi del governo delle donne, quello degli uomini e, solo quanti hanno segnato con attività benevole, le cose che hanno reso la minoranza l’esempio europeo di famiglia e integrazione.

Certamente sentir parlare di Gjitonia locale nominando l’addolorata madre “Clementina”, che morì sofferente in attesa del figlio che non rincasò mai, ad opera di una discendenza ignorante, blasfema e scostumata, che di quel nome inopportuno ne faceva bandiera.

Non da meno sono le tante storie diffuse in maniera inopportuna, in diverse occasioni e tutte nate da quella generazione di generi maschili e femminili in perenne competizione, le stesse che da oltre quattro decenni fanno danni e disperdono al vento quel matrimonio tra canto vecchio e musica nuova, in attesa che nasca la famiglia culturale, in questo secolo appena iniziato.

Scrivo de mio paese di costumi storia uomini architettura e i cunei agrari e della trasformazione, ma vengono preferiti infanti sena arte, siccome sanno rompere le cose, si sentono fabbri che sanno ferrare gli asini, che come loro per la poca manualità, diventano zoppi e ciechi non riconoscono neanche gli odori che emana il ferro caldo quando si aletta sull’unghia del quadrupede.

Arrivare ad udire che per la crescita demografica locale, si lasci nelle disponibilità e nella direttiva culturale di chi è nato da rapporti pagati a buon mercato o con semplici amuleti di mercatele produzione, rappresenta il termine storico dove sprofonda il buon gusto la cultura, valorizzando quanti vogliono apparire e non hanno un minimo di energia per retro illuminarsi.

L’acqua scorre è noto segua il tempo e, mentre il tempo non si ferma, l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, nei luoghi ameni; qui l’uomo che osserva dalle prospettive desertiche e vuote, prende spunto da quelle scalfitture di acqua lenta e saggia, costruendo bisogni dettati dal tempo che passa.

Questa è una metafora che potrebbe aiutare molti addetti acerbi, ma purtroppo la media culturale risulta essere molto bassa o più volte labile dirsi voglia, qui fa da mediatore il vento che miete le cose deboli, deformando quelle più solide, risparmiando solo la saggezza, quella fatta di materia che ne tempo, ne acqua e ne vento, possono mutare.

Questa è una prospettiva che parte e trovano largo spazio in quest’opera pronta per le stampe, in cui l’autore – in anticipo su altri piccoli celebranti – fornisce certezze e, non parla di mondi paralleli di alcun che, in alcun dove avuto luogo.

Qui si inizia a trattare le Metodologie di radice mai utilizzata di tempi post industriali secondo le metodiche di “Percorsi di finalità Agili”, specie in campo di ricerca storica, sviluppo e indagine arbëreşë.

Un atto che se opportunamente, reso solidale, tra gli addetti potrebbe rappresenta l’atto o immagine atta a riaprire il portone dei liberi pensatori, del monte Echia, chiuso per disprezzo verso i regnanti di cultura anomala.

Nello specifico i “Percorsi di finalità Agili”, largamente diffusi nella ricerca a fini di progetti condivisi, specie se approvata da un numero di addetti, che per capacita professionali, progettuali, ricerca e conferma, delle attività, in  protocolli, restituiscono come atto finale un progetto/indagine, frutto di un confronto a cui non serve il timbro del dipartimento falsamente illuminato  o, blasonati attori non parlanti, perché il risultato ottenuto  è il nettare di una armata culturale che verifica e approva ogni fatto contemplato nel progetto, trattato dall’inizio alla fine dello studio condotto non da poveri e disarmanti singoli praticanti senza lumi.

Storicamente le cose tramandate dagli Arbëreşë sono definite o riportate da singole figure, le quali, per quanto possano essere precise, dopo il 1799 riportano elementi di caratura non, riconoscibili a discorso pregressi e presentati nel 1807 come novità e, non può essere farina di elementi capaci delle misure di fraterna fedeltà o di promessa data.

Oggi l’agio di sedere innalzato su una cattedra non può o non deve consentire libertà di arbitrio, o libera interpretazione per i frequentatori “solitari di archivi, biblioteche o vutti” per fare lavine che non fanno strade e ne segnano memoria.

Un tale disse un di: venite a me, non come maestri o professori, ma semplici scolaretti senza futuro e, così, potrete ambire un giorno a divenire genere colto senza peccato di prostrazione.

Privati, Gjitonie, Sheshi, Istituti, Istituzioni, sociali e di credenza, da troppo tempo realizzano editi, garantendo la loro genuinità storica, secondo la regola del riversamento di aceto di vino altrui, o meglio, in favore di quanti non hanno mai avuto modo di confrontarsi ed osservare, ragion per la quale le cose della storia degli arbëreşë sono opera di variegate garanzie editoria ripescate nel torbido incompreso di archivio biblioteche senza un futuro.

Sono innumerevoli le attività, le pubblicazioni e gli appuntamenti mai il frutto di gruppi di lavoro multidisciplinari, ma solo opera di liberi attivisti che non trovando altro agio si dilettano a definire i trascorsi arbëreşë come mera espressione linguistica in attività di consuetudine a memoria di battaglie epiche o di scritto tradotti all’incontrario.

Questo spinge a ritenere indispensabile sottoporre con adeguatezza all’attenzione le eccellenze certificate, oltre modo senza alcuna verifica o confronto pubblico, che ne definisca mai la genuinità, di cose non proprio in linea con i trascorsi di un ben identificato intervallo storico, sia in terra madre che in quella parallela del fiume Adriatico, sino allo Jonio.

A i tanti attivisti che hanno scambiato un buon maestro con un pessimo padrone ve tutto il nostro augurio di cose buone, ma non certo faranno mai storia o sveleranno cose che la storia della minoranza attende da secoli e non trova ancora agio e pace.

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NEI CASTELLI NORMANNI FANNO MESSA IN LINGUA ALTRA SENZA PRETE E ALTARE

NEI CASTELLI NORMANNI FANNO MESSA IN LINGUA ALTRA SENZA PRETE E ALTARE

Posted on 04 giugno 2024 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – L’incoscienza del Collegio Olivetaro citeriore che promuove la storia della cultura Arbëreşë, nel cementarsi per sostenere le cose della storia, come: consuetudini, parlata, figure storiche, l’idioma con la frase da noi parliamo così, ponendosi al cospetto delle cose avvenute e prodotte, non trova diplomatica sufficiente, atta a fermare questa implacabile deriva chiacchierata, senza vergogna alcuna.

Ad oggi si parla, si espongono cose, fatti uomini, paesi, costumi, rimanendo nascosti sotto la zògha materna, a cui gli si impediscono sin anche ad accudire al fuoco domestico che riscalda e sostiene e illumina davanti al camino gli arbëreşë.

Ormai non sono i maestri di bottega o gli anziani a formare le menti locali, ma sono giovani studenti, che appena intascato un titolo dirsi voglia radice, tornano nei luoghi natii a esporre Genio senza forma culturale, civile e sin anche clericale.

Nessuno ha più misura delle cose che dice, che che traduce o che fissa con immagini oscure, a favole del proprio gruppo familiare, allargando e spianando strade come se fossero meriti, millantando tuttavia, ogni genere di profitto per la comunità, la stessa che si guarda attorno e si vede povera abbandonata, privata di ogni risorsa di vita possibile, per questo pronta a svendersi al migliore offerente una o più monete.

Si considerano tutti discendenti di cavalieri e di nobili principi, per questo in grado di aver scritto la storia delle cose utili alla minoranza, al punto tale da sentirsi in dovere di seminare storia, parlate e pubblicare editi carpiti e presentati come propri a quanti credono che di poter raggirare e, qui rimangono delusi e scottati di calore.

Oggi si esaltano i neri a cui si dedicano Biblioteche, Strade o s’innalzando busti nei vutti storici, di contro il mercato non è fatto di cose commestibili genuine da portare a casa, ma luogo di pensiero e misura senza “menzà kgurì”,l’unità di misura frumentaria che un tempo faceva economia e benessere di confronto leale, pagando il giusto a garanzia di non essere raggirati pubblicamente davanti la chiesa.

Ormai la deriva che va sempre allargandosi è fatta di aceto riversato non più irrecuperabile, in quando riverso delle generazioni antiche, che titolano e garantiscono una genuinità che non serve a niente e a nessuno se non sminuire il calore del prodotto locale che intanto si sperde.

Un tempo avevamo un luogo di confronto e di economia povera dove chi non aveva risorse riusciva a campare, oggi nel tempo di un ventennio questo luogo è diventato la vergogna locale, dove si espongono le eccellenze storiche di appartenenza a parti invertite nei vutti di cloaca pubblica e privata, senza avere un attimo di vergogna per quello che si espone e dove viene allestito.

Pietre dove un tempo si spegnevano per fare calce, la memoria del letterato primo lontano da casa sue e proprio lì dove era il cantaro pubblico, l’eroe con effigi mussulmane nel vuttò nobile, sono il componimento storico che racconta una pena locale che dura dagli anni ottanta del secolo scorso.

Queste figure oggi, per chi ha la mente lucida e pronta, sono individuati come il risultato perverso di quanti manovrati e se un tempo conoscevano bene il valore del perdono, diversamente da altri che apparendo nobili e fraterni, non palesano orizzonti di miglioramento, in quanto, dal purgatorio perseguono gli anelli più profondi dell’inferno.

Il risultato viene allestito con una sfera semi pietrificata, il busto del letteratura locale lasciato morire con pena e, l’eroico valicatore sormontato dalle effigi del diavolo, in tutto tre cose che riportano la mente a un antico grido di dolore rivolto a chi gestiva Terrae lavorava la terra senza ne frutti e ne prospettive di mercato.

Lo stesso ripetuto in pubblica piazza e per gli sheshi del Katundë, da un indimenticabile personaggio locale, il quale per redarguire l’incauto di turno malevolo e perverso, lo invitava senza fare nome, a tornare nel pascolo acquitrinoso familiare a rotolarsi in quel loco putrido e melmoso, assieme alle sue maleodoranti pecore, con la frase: all’işki, all’işki, all’işki, perché il luogo natio del quel gruppo llhitirë.

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DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

Posted on 30 maggio 2024 by admin

Ina Casa 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La deriva culturale da cui sfuggimmo e, per la quale siamo diventati esuli integrati in queste terre parallele, è racchiuso nel concetto di non aver voluto soccombere e quello che oggi si palesa a casa nostra e, ormai divenuto più sopportabile.

Nonostante la volontà di fare bene e meglio esprimendo e affermando tutto il patrimonio ereditato per discendenza diretta, ha ritrovato nuovamente pena identica qui in terra parallela di quanto i nostri antenati sfuggirono sei secoli orsono.

Due cose sono certe; la prima è lo sfaldamento culturale avuto inizio nel XVII secolo con il vertice di pena nel sessantotto del secolo scorso; la seconda è la caparbietà turcheggiante che non ha mai smesso di inseguirci per piegarci e, oggi dopo il sessantotto hanno riprese le manovre di sottomissione, di consuetudinari, linguistica i costumi e la credenza.

Oggi la deriva, senza confini ci insegue e ci insegna a ballare secondo le anche islamiche senza pudore, siamo invasi secondo le credenze dei loro miti, vendendo sgretolarsi la credenza portata oltre adriatico con non poca pena e sacrifici dai nostri avi.

Vanno dicendo che bisogna rinnovarsi e le parlate devono essere rinnovate, perché le cose antiche non hanno più senso in questo mondo globalizzato e chi volesse studiare o entra nei canali riconosciuta da quella corte ambigua senza credenza, fa meglio a rimane isolate a fare il contadino che ciba lo stomaco e lascia deserto il cuore la mente e l’animo nobile, quello che  abbiamo ereditato dai nostri umili ma sapienti genitori.

Che si cibavano di crusca di grano e non di veli o nebbie generate, dalla “farina fatua” lasciata incautamente nell’aia a prendere sole degenere, non è certo il meglio della cultura che fa la regione storica.

Noi siamo Arbëreşë, voi non so cosa; tuttavia se si esalta l’opera del mugnaio matto, che espone le macine senza l’acqua che le fa ruotare; rappresenta la deriva di un figlio degenere, come chi prestava il grano per entrare nelle famiglie e manomettere le risorse del sudore altrui.

Gli esempi sono molteplici ed oggi, pochi ne conoscono il senso o il valore storico e, se questo accade non viene per caso, visti i temi in fermento, con i quali si trattano integrazione, ponti e, credenze, senza avere misura, di quanto apporto fornì nella storia d’Europa il genio arbëreşë.

La storia degli Arbëreşë è fatta di lavoro sudore, studio, credenza, legalità, genio e diffusione editoriale senza confini o generi da sottomettere o distruggere i popoli di cui erano parte.

A tal fine e per comprendere meglio la misura delle cose, chi si reca negli ambiti, in specie i Katundë della “Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë”, da oggi in avanti, provvedesse prima di tutto a confrontarsi con quanti studiano, analizzano e promuovono il territorio senza soluzione di continuità da molti decenni e, non con le istituzioni che essendo volontà popolare a scadenza di mandato, mancano di quella formazione storica continuata dalla radice indivisibile.

Venite in “Regione storica Arbëreşë”, ma mi raccomando, onorate i condottieri dell’ordine del drago quando non erano più ricattati per la propria famiglia in ostaggio e il suo popolo che con sacrifico allevava e sosteneva le proprie radici.

Le vostre fatue ragnatele, sono il motivo per il quale, le nostre discendenze preferirono migrare e disegnare paralleli ambientali di genio e di cuore, con credenza antica, la stessa che voi viandanti non dedicate tempo di confronto, con i veri saggi locali, quelli eletti dal tempo e dalla saggezza locale, nel più riservato silenzio ovvero i: nemo propheta acceptus est in patria sua; perchè: Jaku jonë i shëprishur sù harrua!

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L’ACQUA CHE SCORREVA NEI CENTRI STORICI HA SUGGERITO DOVE FARE SHËPI, RRUHA E GJITONI  (chi studia tutela confronta conosce e valorizza cosa tramandare)

L’ACQUA CHE SCORREVA NEI CENTRI STORICI HA SUGGERITO DOVE FARE SHËPI, RRUHA E GJITONI (chi studia tutela confronta conosce e valorizza cosa tramandare)

Posted on 26 maggio 2024 by admin

Sila GrecaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Terra di Bisignano (oggi, Santa Sofia d’Epiro) in origine fu un casale di frontiera, occhieggiante alle vele che approdavano nei naturali abbracci calabresi, della sibaritide.

Il casale nasce nell’entroterra, che fu mira, come tutta la corona di colline che perimetra la valle del Crati, dalla soldataglia longobarda, scossa dai passi cadenzati delle milizie bizantine, punteggiata dagli agrari delle grange francofone, mira dei desideri normanni.

Tutti pronti a disporre del laborioso cuneo produttivo, che da Bisignano conduce sino al promontorio denominato, Sana Vote di Castello.

Un ter­ritorio fertilissimo, circoscritto dai laboriosi torrenti del Duca e del Galatrella, che con le proprie gemme d’acque sostenevano cunei agrari, da cui fiorivano alimenti genuini dalla croce di bosco verso valle e, poi dai porti dello Jonio, lungo il Mediterraneo davano agio alimentare in ogni dove.

Confermato sono le vicende dalla storia che dal VII secolo, poneva il territorio dell’odierna Italia, termine e non più continuo, di pertinenza geo­politica romana, dove, il confine a sud era segnato lungo il corso dei fiumi Crati e Savuto, che dalle coste del Tirre­no di Amantea conducevano sino a quelle Joniche dalla Sibaritide.

Per la difesa di questi lime, nato, dopo la dismissione della diocesi di Turio, trovò dimora una famiglia indigena: i Berlingieri, che per la via e le convenienze Vernacolari offerte dall’acqua, edificarono l’originario nucleo denominato Karkarellët.   

Il tutto nella connessione delle acque limpide e genuine di Morrjitj e le ferrose che scorrevano nel Vallone del Duca, un affluente del Galatrella

In questa storica connessione di Acque buone trovarono dimora, numerosi distaccamenti di soldati Longobardi nel versante nord, a sud si contrapponevano i Bizantini, li lungo la strada di costa che da Rossano conduceva verso Bisignano e Cosenza.

I soldati preposti al controllo, in sicurezza, si disponevano lungo il camminamento storico ispezionando i greti degli affluenti storici del Crati verso la collina.

L’acqua è noto che scorre e segue il tempo, ma il tempo non si ferma, mentre l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, segna i luoghi e, l’umo che osservano dalle prospettive ancora vuote, prende spunto dai quelle vie scalfite dallo scorrere dell’acqua, e costruisce seguendo il tempo che scorre senza sosta. 

A tale scopo si vuole dare memoria dei Katundë Arbëreşë, i luoghi dove le vie, i vicoli sono onomastica viva e riverberano senza pausa il tempo che fa scorrere l’acqua: Lavinë, Parerë, Trapesë, Stangò, Vallj, Shëşë, Cangellë, Sentjnë, Morrj hìutë, Kopëshët, ecc., ecc., ecc.

Quindi a Ovest, nella connessione dei due torrenti Nasce il primo nucleo ai tempi della nascente diocesi di Bisignano e, a ovest nel tempo dei longobardi fermati dai Bizantini, è sempre la salubrità delle acque e il loro operato a dare un nuovo spunto abitativo.

Valga, il Lavinaio, refluo torrentizio, che scorreva da monte a valle, in quello che poi sarebbe divenuto il centro antico, del casale Terra di Sofia, dove lo scorrere naturale lascia sabbia candida, dando così avvio all’assemblare dell’edificato originario primo di piazze vichi, case e la chiesa.

Nascono così numerosi Katundë arbëreşë, in tutto, il risultato di eventi che uniscono uomo, ambiente naturale; ovvero, acqua che si ferma e segna ogni cosa per il tempo che scorre.

Tutto questo a iniziare dal XIV secolo secondo i patti dell’Ordine del Drago che vide giungere nelle rive dello jonio i laboriosi Arbëreşë, con la sola aspettativa di poter vivere queste terre parallele simili o equipollenti alla loro terra natia.

Dove lo scorrere dell’acqua da senso e scandisce il tempo che non ha mai soste e, tutto si trasforma in risorsa, come la sabbia e le sue infinite grammature, in tutto suggerimenti, dalla natura e del tempo per l’uomo.

Prova di questo è l’edificato del XI secolo di radice cistercense, ripreso dagli albanofoni a seguito della peste del 1638, viene eretto quale chiesa padronale, modificati il corso di questa risorsa naturale, in favore di una credenza Alessandrina leggendaria che in altro capitolo sveleremo.

Poi le strategie locali indirizzarono l’acqua, che qui si fermava a depositare sabbia, a dispetto del tempo e, venne fata scorrere, verso altri rioni, che videro innalzate le case dai Baffa, Becci, Rizzuti e sin anche il nuovo monte del grano ad opera in risorsa dei Masci.

Per chiarezza di intenti, qui si useranno toponimi e identificativi, del Katundë di Terra di Sofia, della diocesi di Bisognato, ma per tutti gli altri centri abitati di simile periodo, cambiando i toponimi o l’identificativo famigliare, mentre la trama unifica per tutte il protocollo di sviluppo di centro antico che si va formando in origine, secondo le epoche, in tutto il tempo.

È grazie allo scorrere dell’operosa e instancabile acqua, era rifiniva la sabbia, in quelle aree di iunctura urbana, dove a forza di rotolare, si depositava finemente in diverse grammature, prima che l’acqua prendesse la via dei torrenti per giungere a mare. 

In tutto, acque che scendono da monte, segnando i lavinai, poi divenuti progressivamente cunei stradali, vichi e in alcuni casi ripide scalinate, determinando per questo, il progetto del centro antico, come oggi appare, eseguito dagli uomini nello scorrere del tempo.

Sicuramente il costruito è da attribuire all’opera dell’uomo, ma la traccia dei percorsi, cunei espressione dell’erosione dell’acqua, conducono nei rioni in crescita, divenute, Vie, Vichi o luogo di Piazze, suggeriti dall’acqua esposta al sole e alla luna senza sosta.

Come la storia, il tempo alimenta e talvolta tace o tiene velate cose; l’acqua rimane in vigile attesa per avere forza per incunearsi, scorreva o cadere per segnare luoghi e storia.

L’acqua basta lasciarla libera ed essa prima o poi trova una via per scorrere, e comporre, quei percorsi avvolte comodi, che l’uomo pratica e vive, perché espressione di trame naturali, che l’ambiente concede e, l’acqua mai le abbandona.

Il centro antico qui preso in esame, ma potrebbe esse uno degli infiniti di radice collinare si sviluppa a ridosso di tre percorsi storici, perché per natura erosiva l’acqua trascina sabbia, sminuendo la pietra e quindi i detriti per diversi secoli macinati, tutti poi giungevano nel parerò naturale dove le acque prima di precipitare nel torrente Galatrella e poi Cangellë, lasciavano in questo naturale “cuneo campanaro”, la candida sabbia color oro, per edificare;

  • Il Primo come già accennato è il più naturale e segue la odierna via detta Şigjona, germogliando nella corona, che cinge il paese in tempo denominata Kiubicë (verso la via di cresta), per poi insinuarsi nel paese dove furono erette, le stalle e il palazzo Bugliari di sopra, sempre più vorticosamente affianca le case dei che furono prima dei Baffa e in epoca francese dei Toscano, scalfisce il posto di osservazione ricordato come degli eroi da Bregù, e dopo un breve pendio si distende nella odierna Piazza Sant’Attanasio, per continuare: un tempo per via Şigàtà, da dove si riversava nel più a valle torrente del Galatrella, poi a fine del XVII secolo, con l’edificazione della chiesa del Santo Patrono, dedicata a Sant’Atanasio, venne deviato verso palazzo Tallarico e, passato il lato corto di questo edificato, precipitava nel cuneo dove depositava la sabbia e,  si univano poi al corso delle acque del torrente Cancellj più a valle.
  • Il Secondo Lavinaio è una conseguente biforcazione del primo, nasce dal continuo di Palazzo Bugliari di sopra, l’esenzione prospettica dell’ingresso che guarda a nord, qui raccoglieva i reflui piovani del continuo su citato e, della strada che piegava per Bisignano, affiancato residenza dei Bugliari di sotto, si riversava nel tratto di via Epiro, per piegare su via F. Bugliari e giunta su Piazzale dei Vescovi seguiva la via di fianco al Palazzo dei Fasanella, un tempo il monte del grano, per unirsi al primo e quindi nel pareo della sabbia.
  • Il Terzo è il più interessante, in quanto da origine allo storico toponimo di Trapesa, generato dalle acque reflue e piovane delle residenze a sud ovest, o meglio a monte dell’odierno palazzo Bugliari, oggi sede del Museo e del Comune, si dipartiva per essere il Vutto del palazzo Bugliari e del palazzo degli Elmo, (il palazzotto ad impronta di masseria barcellonese); il braccio che segnava lo spazio di reflui, oggi Trapesa, tagliava la proprietà dei Bugliari per passare davanti la casa di questi in forma più limpida e controllato refluo, anche se il toponimo dà la misura dell’inesistenza purificata del lavinaio, mentre l’altro braccio serviva da refluo naturale di questo e di palazzo Elmo e dei Calvano, per poi riversarsi nello Sheshi Ka Arvomi verso il torrente Cancellj.

Il refluo di meditazione delle Acque, ovvero dove si fermava e non seguiva il tempo, prende il toponimo storico di Trapesa, Vutto della mensa Arcivescovile o, misura di cose preziose, in senso di piccole dosi, o meglio scarti alimentari della mensa arcivescovile lì, in affaccio e, certamente posta più a monte della connessione di reflui corporali che segnavano la discesa verso il torrente più a valle.

Sono questi gli elementi primari che hanno tracciato i percorsi che conservano la memoria, dei Berlingieri Bisignanesi, i Soldati Bizantini, della Grangia Cistercense e degli Albanofoni prima e degli Arbëreşë per chiudere definitivamente questo “recinto antico” che lasciava tutti liberi e, nel contempo difendeva i suoi abitanti indigeni e della diaspora, da ogni ingerenza, maturale o di genere in aguato.

Per lavare igienizzare o sanificare cose, un tempo i Katundarj si recavano nel denominato (Ronzj i Ghëròghëtë), lungo il corso dell’instancabile torrente storico, sempre fedele e presente; mentre per abbeverarsi erano le fonti, i due termini di approvvigionamento, germogliate a seguito di due depressioni, o smottamenti storici.

Gli stessi che dividevano il Katundë, e qui non edificabili, e sino alla fine degli anni sessanta, mai nessuno ebbe fiducia di elevarvi case, stalle o altro tipo di rifugio, se non orti e produrre eccellenza ortofrutticola, ricercata sin anche dalle genti che vivevano nei cunei agrari.

Note erano, Patate, Zucchine, Pomodori per insalata, Fiori di Zucca, Fagioli, Ceci, Piselli, Taccole, Cipolle e come non ricordare, l’inconfondibile basilico e l’ornamentale prezzemolo.

La novità storica per una nuova acqua, giunse nel 1935, quando venne inaugurato il “Civico Acquedotto” il quale doveva dare agio e comodità a tutto il Katundë, anche se in poco più di un decennio, questa bolla di acqua, andò sempre più ad esaurissi e, con essa si è anche accodata la storia del paese, quella che avrebbe dovuto studiare per dissetare la mente per capire, preservare, tramandare cose buone e, non povertà di memoria, questo almeno sino ad oggi.

 

Altro elemento fondamentale erano i Butti o Vutti secondo le epoche di rotacismo linguistico; cavità naturali o artificiali attigue alle abitazioni sino al Rinascimento e, servivano per lo sversamento di rifiuti e deiezioni, umane.

Per evitare la diffusione dell’orribile puzzo che si alzava da esso, si copriva il butto oli si realizzava nelle zone ventilate al fine di deviare i miasmi, evitando altresì anche che divenissero fucine di gravi infezioni si versava all’interno cenere.

Essi servivano anche come latrine per lo sversamento delle acque nere.

Erano collegate agli orti o direttamente nelle strade, dove vi erano lasciati liberi maiali che fungevano da spazzini.

Nei butti o vutti si deponeva di tutto ivi comprese le suppellettili di casa ed i corredi da cucina e vasellame pregiato nei periodi di pestilenza.

Questi a non avevano regole precise nei piccoli centri ma tutti si stabiliva che tutti dovevano essere attigui, le officine o le periferie del centro.

Per le minime lavorazioni sporche quali il risciacquo degli animali macellati e il lavaggio dei prodotti grezzi dell’artigianato tessile, furono costruite i “guaççatorium” che rappresentavano la parte più bassa delle fontane pubbliche, istituendo la carica di maestro pubblico addetto alla risoluzione del problema dello smaltimento degli scarti

E se la toponomastica non è un’opinione, catastale o bibliotecaria, la memoria va al toponimo: Ka Sanë, che ambiva a indicare un Luogo sanificato o santificato dalla Natura e per incanto ascensionale.

Commenti disabilitati su L’ACQUA CHE SCORREVA NEI CENTRI STORICI HA SUGGERITO DOVE FARE SHËPI, RRUHA E GJITONI (chi studia tutela confronta conosce e valorizza cosa tramandare)

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