Archive | In Evidenza

I SEI GIORNI DI SANTA SOFIA D’EPIRO

I SEI GIORNI DI SANTA SOFIA D’EPIRO

Posted on 13 agosto 2024 by admin

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Era la mattina del 18 agosto del 1806 e all’improvviso si odono il crepitare di fucili e, il ter­rore invase l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei simpatizzanti ispanici; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli.

Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti, e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato adibito a granaio.

Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gian Marcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi e di eguale stirpe, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, Gian Marcello, solo, egli solo, furibondo lo trafigge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».

Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcel­lo Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del ve­scovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero ve­gliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).

Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini

La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).

Nella trattazione storica che hanno avuto come protagonisti gli Albanofoni nel Regno delle due Sicilie si ricorda per tradizione i giorni dal 12 e sino il 18 Agosto del 1806.

Fu allora che i briganti (?) scheggiarono Santa Sofia, terminando la vita del Vescovo Bugliari, del medico suo fratelli, il notaio, la guarnigione intera e un numero imprecisato di Sofioti/e, la vicenda, vide soccombere dal 13 a 19 agosto il piccolo Katundë, al punto tale che ogni generazione che seguì a quell’evento, è stata allevata in memoria e ricordo del momento più buio della storia locale e di tutto il regno, un lutto o senza soluzione di continuità dal 18 Agosto del 1806, ciclicamente ricordato da chi è saggio e conosce tutte le pieghe di quella vile vicenda di potere occulto.

La terribile pagina ebbe inizio con il brutale assassinio di Giorgio Ferriolo insieme al suo piccolo stato maggiore, composto dal fratello e da alcuni uomini fidati, continuò con la devastazione del paese intero e si concluse con il vile assassinio del Vescovo Francesco Bugliari, vero e unico bersaglio poco più in basso di dove era allocato il Monte del grano.

L’accento dell’eccidio è stato sempre posto sulla domestica Bertina, ma la complicità di indegni personaggi della stessa comunità Albanofona, fu determinante per portare a buon fine la volontà dei mandanti; alcuni presenti e ripagati con misere suppellettili, mentre i registi assenti, grazie all’eliminazione del prelato, poterono godere e rivestire diversi ruoli di rilievo all’interno del regno, grazie a Dio, solo durante il decennio francese per poi trovare fine, per ironia della sorte “dietro “a un granaio.

Va premesso che il Bugliari aveva avuto solidi contatti con Pasquale Baffi, i due oltre a essere stati gli unici artefici del trasferimento del collegio in Sant’Adriano, si scambiavano ogni tipo di notizia relativa agli eventi che sfociarono con la rivolta del 99.

Una fitta corrispondenza intercorse tra lo studio legale del Baffi, allocato nel centro storico di Napoli e l’abitazione paterna del Bugliari posta a monte del centro abitato di Santa Sofia d’Epiro.

Analizzando con perizia storica gli avvenimenti, apparisce molto strano che negli accadimenti napoletani a pagare sia stato solo il Baffi e che a essere devastata, sia stata sola la sua abitazione nei pressi dell’allora Biblioteca Nazionale e non il suo studio dove si conservavano preziosi manoscritti inediti e lettere di corrispondenza privata.

Il collegio guidato dal Bugliari oltre ad una vandalica devastazione, dopo il 99, riprese la sua missione culturale, religiosa e politica senza particolari patimenti.

Nonostante l’indiscutibile legame d’ideali con il Baffi, il Vescovo F. Bugliari, non fu particolarmente perseguitato dal governo centrale, eppure, una volta tornati a gestire il regno, i Borbone, diedero avvio ad una violentissima e capillare pulizia su tutto il territorio, che durò per più di quattro anni.

Un elemento di non scarsa rilevanza è il dato di fatto che i Borbone saliti nuovamente al trono si sentirono in dovere di ringraziare tutti coloro che aveva lavorato a difesa il loro regno, come ad esempio il reggimento della Reale Macedone che nel 99 fu determinante a placare gli animi degli insorti.

Quando dovettero scegliere della sorte del nipote e del parente di Don Peppino preferirono colui che si era reso disponibile e si mise a disposizione con gli organi inquirenti, avendo come punizione solamente l’esonero da ogni privilegio.

Il di che Napoleone si affacciò alle porte di Napoli, l’occasione di poter tornare agli antichi splendori veniva servita su un piatto d’argento a coloro che con i Borbone non avrebbero mai avuto gloria.

Antiche ruggini per pochi metri di terreno tra il presidente del collegio e il Lopez andavano oleate con i fumi dell’ignoranza, a quel punto armare la mano per assicurarsi ulteriore impunità fu di facile attuazione.

Apparisce strano che trascorsi appena cinque mesi dall’ingresso trionfale nella capitale partenopea di Napoleone e avviato il rinnovamento francese una pagina così nera abbia un senso, se non per garantirsi ulteriore impunità per il tradimento che a quel punto incominciava pericolosamente a vacillare.

Napoleone il 13 marzo de 1806 sedeva nel trono di palazzo reale a Napoli e pochi mesi dopo, una banda di briganti si scontrava, in contrada Pagliaspito di Santa Sofia d’Epiro, con G. Ferriolo e i suoi valorosi uomini dando avvio all’orrenda strage.

Sin troppe volte quelle sei giornate assunsero i contorni di leggenda o propinata a modo di favola.

Gli accadimenti di quel mercoledì 13 sino al martedì 19 successivo, letti in un’ottica di volgare vandalismo e brigantaggio non pongono l’attenzione sui traguardi acquisiti in poco tempo da coloro che si distinsero esclusivamente nell’intervallo storico del decennio francese; iniziando la loro ascesa proprio dopo quelle orrende giornate.

La tesi è suffragata anche dal fatto che se nel versante destro della valle del Crati, vi era un obbiettivo alla portata delle scorribande dei briganti, quello era il collegio di Sant’Adriano, quale bottino materiale sarebbe stato più consistente e facile da strappare. Stranamente, per le loro scorribande i briganti scelgono un centro abitato, pur se era noto a tutti che in quei contesti si viveva dei fumi della povertà diffusa.

Dopo pochi mesi dalla morte del vescovo Bugliari, coloro che avevano vissuto nell’ombra ebbero su di essi i riflettori della notorietà e nel contempo si diedero alle stampe trattazioni sulla questione meridionale oltre alle ricette, soluzione possibile a quella endemica piaga.

Come racconta la storia del ricco contadino che invece di frequentare la bottega di Michelangelo e apprendere umilmente un mestiere, preferì acquistare i suoi attrezzi per ritenersi al pari del grande maestro.

Allo stesso modo da coloro che non ti saresti mai aspettato, addirittura vengono pubblicati studi linguistici senza che le ombre di questa disciplina li avessero mai avvolti.

Questi erano i temi con i quali Pasquale Baffi aveva incantato, con le sue irripetibili disquisizioni, tutta l’Europa e per essi fu la persona più ambita e ricercata negli affollati salotti intellettuali della capitale partenopea.

Chi all’indomani dei fatti di Santa Sofia ha inviato alle stampe gli scritti su cui porre solamente la parola “fine”, ignorava che fare propri quei documenti, fatti di sudore, patimenti, umiliazioni e sangue, sarebbe stato come tradire coloro che in quelle giornate sofiote diedero la vita.

Crea sgomento la pubblicazione di trattati che furono tradotti in diverse lingue, non immaginando, che fare propri gli attrezzi del maestro è possibile, altro è produrre arte e cultura.

Comparando questi gioielli di inestimabile valore letterario con altri scritti degli autori è palese la differenza nell’argomentare quelle indebitamente pubblicate, a tal proposito oserei dire che grecisti di elevato spessore si nasce, non si diventa con l’appoggio dei napoleonidi per poi tornare nell’oblio alla fine del decennio.

Commenti disabilitati su I SEI GIORNI DI SANTA SOFIA D’EPIRO

I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

Posted on 12 agosto 2024 by admin

Regno1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La filologia è un insieme di discipline che studia i testi di varia natura, inizia con quelli antichi confrontandoli via via con quelli più contemporanei e, ripercorre la forma originaria con analisi critiche o comparativa delle vicende trascorse.

Sono i Filologi che dovevano essere protagonisti nel corso della compilazione della legge 482 del 1999 e, dare merito e misura del giustificare di chi e cosa poteva accedere di diritto, nella lista che avrebbero usufruito dei benefici di legge, assegnando un titolo e valore agli Arbëreşë che non sono citati.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Indo Europea possa vantare.

Comunemente traducendo Gjitonia simile al “Vicinato”, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato di scambio, quale mercato o monte del prestito e, nel contempo vedeva e sentiva in arbëreşë, in poche parole un luogo nebuloso o impolverato dove s’imprestavano cose.

Tra le più inopportune citazioni ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada, a cui fanno seguito un’innumerevole quantità di temi di concetti, copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, lo stesso che ancora vaga senza pace.

Non ultimo il riferire del concetto di vicinato, estrapolato dai documenti della vergogna sociale che avvolgeva i Sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il tema di vicinato sviluppato in una delle nove relazioni prodotte per indagare, questa piega sociale, rielaborato furbescamente in forma arbëreşë, da quanti della minoranza non conoscevano idioma, consuetudini secondo i minimali e rudimentali protocolli di storia moderna, per dare senso al circoscritto immateriale.

Che la Gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo, è un dato di fatto che non finirà mai di stupire e, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini, la storia, il tempo e i luoghi della minoranza arbëreşë, che ha saputo svilupparla.

Essa è un’esigenza vernacolare locale, tipica di un corridoio tracciato dai paralleli diciannovesimo e quarantaduesimo, estendendosi dall’estremo piò ad este della Grecia, sino a quello più ad ovest del Portogallo

Quando si nomina, Gjitonia, essa risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione o metrica possibile; essa s’insinua con le sue radici nel protocollo di iunctura familiare, per questo solo chi ha avuto la fortuna di viverla, può avvertire e riconoscere, quelle sensazioni di consuetudine antica post moderna o globale.

In altre parole, i principi etici o prescrizioni, la cui compilazione tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile diretta dalle donne e sostenuta senza apparire dagli uomini.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, in altre parole, la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri, imposti da regnanti stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreşë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per dimorarvi, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati liberi di esprimere questi valori di antica radice sociale mediterranea, organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti assegnati ai generi umani, diviene la parte materiale di regole conservate nell’immateriale memoria e nell’amore del cuore.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni di Iunctura familiare mediterranea.

La famiglia allargata infatti, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive discendenze, in tutto si formavano gruppi, non minore di una dozzina, tra maschi e femmine, dove ognuno dei quali/delle quali, erano o meglio venivano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità e in parallela autonomia.

Questi erano in forza allo sviluppo dei noti Sheshi, che pulsavano positivamente e senza sosta nel formare i centri antichi tipici dell’urbanistica, che sosteneva la integrazione e la fratellanza tra popoli nel mediterraneo.

Il modus operandi andò sempre più regredendo, integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, per questo il modello di “famiglia allargata” dovette cedere il passo al modello di “famiglia urbana”.

Il passaggio epocale di questa iunctura familiare dura sino agli anni sessanta del XX secolo, quando inizia o sgretolarsi in forma numerica, per la necessita di nuovi esodi economici migratori verso il nord Italia ed Europa, ed ecco che si restringe la consuetudine locale, all’interno dei propri spazi abitativi e, adesso con la porta dell’ingresso non più aperta.

Quando la famiglia allargata diventa gruppo urbano resta isolata, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare, l’elemento che garantisce il riconoscimento di antichi legami di fratellanza sin anche generica.

Notoriamente esso è intercettata nelle armonie condivise dei cinque sensi, di unica memoria, ed è così che si avverte ancora il senso di Gjitonia; tatto, odori, sapori, suoni, una ideale dimensione senza un confine circoscritto, in tutto avvertire nel cuore nell’animo e nella mente intime, il riverbero di quelle note antiche.

A tal proposito trova agio restrittivo l’enunciato: la Gjitonia è dove arriva la vista e la voce; riferito come ultimo arazzo in Arbëreşë da una anziana donna sandemetrese, registrato da un non parlante ricercatore, il quale lo fece tradurre agli allievi ascoltatori di un corso accademico nella Calabria citeriore, senza alcuna formazione lessicale, per poter essere poi dato alle stampe, con tema compilato secondo protocollo filologico.

Ed è per questo che oggi comunemente la si paragona a modelli impronunciabili, con fondamenti di natura puramente materiale.

In tutto, avendo ed essendo, le nuove generazioni, smarrito il senso di quei patti antichi immateriali, gli stessi che la società di oggi non può conoscere, in quanto, non le ha mai vissute e non averle avvertite, le stesse che germogliarono misure dell’identica naturalezza sociale della terra di origine.

Queste non potevano essere intercettate in luoghi vuoti ripopolati in estate dai figli delle generazioni, ormai più in vita che nei paesi venivano a villeggiare d’estate e, venivano intervistati d’estate nel mentre con i vecchi amici giocavano a scopa, briscola e tresette nel bar della piazza.

Metri e metri di registrazione che non possono e ne potevano imbrigliare un governo di cose immateriali che, sfuggiva dai limiti della loro mente; ed ecco che arriva il suggerimento antropologico di un ricercatore, che consiglia di andare per luoghi estrattivi a trovare agio di studio nel vicinato di un altro parallelo terrestre.

Questa ricerca è il risultato di un decennio di indagine dove i diretti interessati e divulgatori nonostante gli scritti comprovanti negavano di aver mai preso parte alla crociata della Gjitonia come il Vicinato.

Gli interessi groppi dipartimentali allargati poi davanti all’evidenza si restringevano all’interno delle proprie stanze e quando il ricercatore con discendenza e memoria di Gjitonia, trovava porte e finestre chiuse dove si udiva discutere animatamente, all’esterno la conferma di essere nel giusto mie si potevano diffondere le nuove ricerche che nel 2014, salvarono l’agglomerato da me difeso in giudizio per non essere demolito, almeno sino al 2039.

Quando si aprono le porte tutti sorridono, ma in cuore loro tutti sanno che quell’antico governo che sosteneva la scuola dei sensi è terminata e, non tornerà più in vita, e oggi per sopperire a questa storica mancanza locale si chiamano gli indigeni più estroversi a imprimere messaggi figurativi di un passato senza alcun sentimento o senso di luogo.

Commenti disabilitati su I FILOLOGI CHE COMPROMISERO IL SENSO DI GJITONIA (Gjitonia lljtìrëve)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

Commenti disabilitati su LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

Posted on 10 agosto 2024 by admin

112388676NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per raccontare raffigurare o tracciare momenti epici di un determinato luogo, bisogna averli vissuto o almeno, partecipare o essere parte attiva nei momenti topici, di un ben determinato ambito, altrimenti si compromette definitivamente la memoria, oggi condotta in malo modo in quella identificata Terra a termine.

Cosi come depositare effigi di ironica memoria moderna, senza senso, e privi dei minimali principi di educazione, la stessa che finisce per violentare pesantemente quei luoghi dove la storia, più sanguinaria ha avuto luogo, facendo cosi piangere lacrime di sangue, alle madri lì in preghiera perenne.

La memoria storica locale, come sempre avviene quando ad essere coinvolte sono le alte sfere, riporta sempre alla insignificante domestica Bertina, ma tutti noi che conosciamo la storia sappiamo bene che essa fu solo un capo espiatore, della plebe a cui addossare la violenta piega storica.

Purtroppo, al giorno d’oggi essere “Bertinë” è diventata un adempimento di quanti siedono negli scanni decisionali, al maschile e al femminile, definendo così da qualche anno a questa parte, anche percorsi di termine storico senza precedenti.

In tutto una raffigurazione trasversale, alle ironie coerenti di Banksy e, purtroppo, in questa foresta di incoscienza storica, violentano prospettive, offendono personaggi e devastano figure locali, le stesse che dettero la vita, per una giusta e idonea dignità locale, mai allo stato delle cose raggiunta.

Oggi per vedere “Bertina” con i suoi panni o stracci dirsi vogli basta attendere una qualsiasi manifestazione ed essa appare sottoforma di sposa senza marito, Cattedratico senza un palco, banditore senza offerte, viandante senza meta e tutto questo accade perché le istituzioni della nostra Terra, siccome poco attente o maliziosamente hanno taciuto le cose della storia, hanno dato luogo a mendaci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri, provenienti dalle ische.

Questi ultimi da diversi anzi troppi decenni, fuggendo le nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade umide, non han potuto altrove trovare agio, sanità, quiete e, sotto il nostro amenissimo clima con la protezione di neri locali, che non sono fra le migliori che onorano il loco Terra.

Sono tutti pronti a compromettere il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria e, allo stato delle cose si rende necessario un libro che in forma di manuale ne metta con chiara parsimonia in vedute e trattazioni, lo stato fisico e morale, di questi gloriosi ambiti della nostra storia.

Il fine vuole che anche uno svagato lettore che voglia solo deliziarsi di materia, prospettive e curiosità, sia costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale e trovare nello stesso tempo quelle notizie che in una terra, come quella di Sofia, rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole.

Se tale scopo giunge a conseguirsi col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che sino ad oggi non sa ancora leggere e collocare le cose della propria storia, nel più idoneo e giusto solco per germogliare storia vera e non racconto o tradimento come era uso fare “Bertina”.

Oggi quante vestono bambine con la prova di gravidanza appesa al collo in abiti da sposa, ballano sostenendo la ruota o la coda, ancheggiano, ruotano in non rispetto del consorte, tengono il giacchino clerico lontano dal seno, sollevano le braccia al cielo, traducono tutto con l’essere, diventare e fare la “Bertina”.

In tutto la rappresentazione più degenere possibile mai in nessuna epoca immaginata, infatti se lei “Bertina” tradì il Vescovo in quel vicolo prima del granaio, aveva a suo favore l’attenuante che non conoscesse le cose, chi va con stoglie per tradire se stessa e la sua discendenza tutta, non ha attenuanti perché da decenni sono redarguite e invitate alla ragione, nell’indossare quel protocollo di vestizione.

A tal fine va ribadito un principio sacro che fa parte del protocollo del progettare, specie nei luoghi antichi e colmi di storia come lo sono le strade, i vichi le porte gli archi i vicoli ciechi e le pertinenze botaniche in Terra di Sofia, se a questo associamo il dato che l’arte vive dove difende da sola e, non certo esponendola alle intemperie di levante e quelle di ponente le più infime.

Ma se si dovesse, per ovvi motivi, ignorare questa norma di protocollo e di buon gusto, sarebbe prima il caso di fare approfondita ricerca storica, di quel luogo specifico, definendo cosa rappresenta per le genti di quel luogo e poi operare con sentimenti di rispetto, tenendo di quali coloriture possano maritarsi con le prospettive impegnate, con messaggio nel pieno rispetto di centro antico.

Se non si fa questa fondamentale attività di ricerca in anteprima e, come svegliarsi la mattina ignorare i propri genitori, che si avviano e rendono possibile la tua esistenza di civile convivenza locale.

Le apparizioni figurative all’interno del centro antico, devono essere discrete e rivolte sempre verso un emblema di credenza, altrimenti finiscono di essere deriva culturale senza alcuna attinenza locale sia verso le consuetudini e sia verso la credenza, per questo destinate ad essere terminate, dal tempo e dalla natura, specie se allocate nei centri antichi di Iunctura familiare Arbëreşë.

Commenti disabilitati su LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

Posted on 06 agosto 2024 by admin

1943NAPOLI di (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – È notte, le strade sono deserte, un personaggio irrequieto del paese, irrompe nella piazza vuota, gridando: “La piazza è mia”; questa è una delle scene più belle del film “Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore”.

Il film che ha come oggetto la piazza, riferimento storico primo dei suoi abitanti, purtroppo è una bugia diffusa, in quanto essa rappresenta l’occupazione irresponsabile, di estranei e di figure senza alcuna forma di rispetto per quel luogo, rappresentativo dei locali in continua pena.

E siccome, quasi sempre, la piazza è circoscritto o vetrina di politici, tecnici, burocrati, imprenditori e, ogni sorta di figura che vuole mettersi in mostra, sin anche riferibile a occulti e diffusi poteri, tutti apparendo in veste buone finiscono quasi sempre lì a insediarsi.

Il libro a titolo, racconta la storia urbanistica di un paese, allocato alle porte di Palermo, il di cui male in affari, tenta di impossessarsi e per questo, viene elogiato quanto impegno viene profuso da quanti si adoperano ancora, per sostenere la piazza libera da ombre oscure.

In tutto è il racconto di un’esperienza emblematica di azione urbanistica di contesti malavitosi, dai quali noi siamo completamente estranei i piccoli centri urbani in povertà.

Tuttavia è forse possibile trarre qualche riflessione o spunti utili dal rapporto che scaturisce tra, straordinarietà e ordinarietà nella gestione del territorio e dei suoi elevati.

L’interesse per la Piazza nasce, in quanto luogo di promesse e falsità consegnate per essere condotte a buon fine e, per questo si dispone il figurante locale sempre presente, nel corso di eventi.

In tutto fatti e cose delle generazioni dagli anni cinquanta del secolo scorso sempre attiva e presente, il cui obiettivo mira a  è denunciare, riflettere e disporre in modo ideale, su come sia possibile fare le cose con parsimonia, finalizzata al bene della comunità, escludendo ogni ambizione personale di gruppi organizzati, atti a disturbare sotto false vesti il buon nome di luogo.

Ognuno di noi ha una piazza che considera e sente propria, per i trascorsi che lo hanno visto protagonista incontrastato o elevato con la crusca locale per le capacità innate, palesemente dimostrate in quella piazza, con riti di cadenza confermate dagli astanti, segnando episodi qualitativi e quantitativi salienti, del vivere civile, specie se di crusca Arbëreşë.

In specie, la piazza storia del centro antico di Terra di Sofia, è stata la prima prospettiva larga, oltre la recinzione dove sono cresciuto sino a cinque anni, diventando parlante di loco senza dubbio di pronuncia locale, per poi attraversarla e, andare all’asilo prima, poi frequentare la prima elementare, in quella stanza con camino, lavagna banchi e cattedra, posta nell’angolo opposto del quadrilatero in pianoro.

Qui in questo spazio ameno, ricevette sin anche la prima bocciatura, perché il professore distratto, lo credeva muto, ed è sempre qui che da giovinetti la Bugliari, mis Italia, redarguiva perché il figlio si scatenava sudava troppo e, dava agli onnipresenti Atanasio e Marcello ogni colpa.

Va in oltre sottolineato che su questa piazza nota come “Trappesà himè”, ovvero la “Piazza Mia”, lo studioso e poi architetto venne incoronato a intraprendere gli studi; per tornare un giorno non remoto a, illustrare quale significato avessero gli edificati che la perimetravano, assieme a quelli apposti in secondo piano, sino alla parte più estrema del centro antico di memoria Arbëreşë.

Compito che del natio di loco, ebbe modi di attuare con titolo secondo accademico, dato che il primo, quello della crusca locale lo aveva già acquisito nelle Terre di Sofia, in giovane età con i migliori educatori dell’epoca, poi estinti e non più parimente disponibili.

È in questo pianoro che amici parenti e la futura moglie, si disposero guardando il sole che sorgeva la mattina prima di andare in chiesa e fare nozze.

È qui che gli furono negati aiuti e risorse, per poter dare seguito alla nascita in una nuova stella, che dovette spegnere prima che prendesse forma riconosciuta.

È da oltre due decenni che attende di dare agio e luce a questo anfratto storico locale, come a tutti gli altri che compongono il centro antico e l’agro di pertinenza.

Mentre qui sono continuamente invitate persone meno adatte da ogni dove  indigeno, per parlare di cose scomposte e senza senso locale, addirittura di architettura storica o vernacolare, la stessa, che ha reso il Trappesò unico, irripetibile e, non da sottoporre alla pubblica Furcillense degli Arbëreşë, ammesso che ne esistono capaci di sottrarli a questa antica gogna, fatta di comuni viandanti, o frequentatori seriali di archivi e biblioteche, gli stesso di sovente facenti uso basare le proprie ricerche non su progetto, come in genere fanno i maestri, ma abbarbicandosi a documenti singoli dei quali non sanno interpretare e tradurre neanche i tempi della punteggiatura.

Tuttavia un dato rimane ineccepibile o incontrastato, ovvero il non essere mai stato interpellato dai comuni conduttori locali, se non per appunti o pareri trascritti in fortuna frammentaria, gli stessi che una volta riletti, sono stati diffusi per conto e studio dei liberi e inadatti liberi pensatori locali.

In quella piazza fu stretto un patto di studio, tra l’eccellenza della lingua storica Arbëreşë e, un futuro architetto, a cui fu chiesto di rileggere e svelare, la storia del costruito, o meglio il genio di minoranza Arbëreşë, è qui che fu stipulato con una promessa data con una stretta di mano il primo impegni di studio che non fosse radice di albanese parlato, ma compositivo materiale.

Patto che ancora oggi attende di essere definito secondo la richiesta dell’eccellenza locale in campo idiomatico che ancora nessuno propone o mette alla prova perché concetto inarrivabili, e mentre il tempo scorre e cancella le cose, mentre chi di dovere si esibisce in cose senza platea, perché il fine primo rimane, salire sul palco disadorno, per apparire, senza alcuna finalità informativa, per la comunità; la stessa che intanto si rifugia nell’ombra o nel buio culturale senza un domani.

Nasce come luogo lacustre che sfiorava i il vuttò della mensa vescovile, frequentato di poveri che qui si recavano raccogliere il prezioso trappesò alimentare e, cibarsi alla stregua degli animali con resti di mensa intrisi dal lavinaio.

Sviluppatosi come spazio inedificato nella schermata aerea eseguito dalle truppe alleate l’undici agosto del mille novecento e quarantatré, alle sette e cinquanta cinque, il circoscritto, secondo una storica addetta dell’istituto geografico di Firenze, era appellato il paese con la piazza grande.

Storicamente esso è stato un luogo acquitrinoso o Vutto diffuso, disposto tra le spalle della parte bassa del paese e, la più inferiore della alta, recuperato e rifinito nel corso del secolo scorso da quanti li avevano pertinenze prospicienti.

Alla metà degli anni cinquanta, quando il circoscritto Trappesò, venne migliorato nel suo aspetto e, vi furono elevati l’ina casa, l’edificio delle suore basiliane, l’asilo e la residenza parrocchiale, e allocato nelle pertinenze del palazzo Bugliari la sede Comunale di Terre di Sofia e, il quadrangolare che fungeva da piazza, venne definitivamente valorizzato, reso fruibile con caratteristiche strutturali e architettoniche dell’epoca in forte ascesa, carrabile.

Il luogo inizia la sua funzione di unione, con l’istallazione del frantoio e del mulino, che qui portavano continuamente i paesani a trasformare ulivi in olio, grano in farina e crusca, in tutto, due stabilimenti moderni ed elettrificati, che innestarono un più agile sistema di trasformazione, non più disperso nell’agro, trainato dal torrentizio Galatrella o Vote, ma nel centro più intimo e antico dell’abitato, dove la memoria rimane, nessuno la legge con educazione, garbo e buon senso.

Commenti disabilitati su LA PIAZZA È MIA (Trappezà hëştë himja)

STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

Posted on 04 agosto 2024 by admin

main-qimg-99abd66f0513b5a4a2fb61ad89268d4b-lqNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando le scelte di convivenza comune, non hanno forza e radici per segnare lo svolgersi della vita, in armonia con i tempi del vivere civile, questi, sono contraddistinti con appellativo di Gjitonë irrequieto.

Il senso di questo sostantivo in lingua Arbëreşë noto per la crusca letterale in: Sbèndë, se poi a fare il disturbatore di riverberi continuati e progressivi, nella quiete e i tempi del vivere civile che alimentano studio, sapienza e buon gusto, si antepone l’appellativo Yllj, ovvero Stella.

L’insieme così viene composto in “Stella inquieta”, (ylljsbendë), in tutto, discolo senza educazione, rispetto e regole, verso il prossimo, i saggi, e quanti si prodigano per lo studio al fine di tracciare storia vera.

A ben vedere e dopo aver ascoltato in diversi appuntamenti in presenza e documenti le esternazioni che da diversi decenni sono poste in essere dal dilagare di queste “Stelle inquiete”, (ylljsbendë), le stesse che, invece di fermarli, trovano agio, dalle istituzioni che godono con il moltiplicarsi di questi inopportune stelle disturbatrici.

Allo stato delle cose si può rilevare ch,e un numero consistente di progetti utili solo a deturpare i centri antichi, sono divenuti la deriva più  crescente, dopo quella degli anni settanta che sostituiva orizzontamenti varchi, porte e finestre, nella totale assenza delle istituzioni o dipartimenti preposti, i quali, invece di correre ai ripari, voltavano le spalle al violare questi luoghi e addirittura elogiando gli operatori, che in qualche caso di incoscienza estrema rimasero sepolti.

Ormai la dispersione culturale ha raggiunto e superato ogni limite di decenza, in tutto vengono citati e ricordati, fatti secondari e sin anche i protagonisti primi, sono preferiti ai comuni viandanti, che per la loro natura lasciva si facevano trascinare dalle correnti in atto, nei frangenti storici più significativi, per la tutela e la salvaguardia della memoria locale.

Esistono momenti storici, che superano lo scorrere modesto di un Katundë Arbëreşë, sono questi intervalli fortemente pregnanti, che vanno ricordati come memoria storica e, assieme ad assi le figure che li determinano, li alimentano con ragione, sentimenti e garbo.

Si potrebbero citare tanti episodi, relativi alla continuità storica di radice locale, del centro antico denominato “Terre di Sofia” e, sicuramente non mancheranno episodi, in continua produzione di buoni propositi con senso di radice locale.

Qui saranno rievocati luoghi fatti e figure locali, che hanno dato avvio alla Primavera Italo Albanese, nota come ottava di Sant’Atanasio, il gruppo in vestizione da sposa e da festa, e la nascita delle sonorità Belliniane che dalle processioni di “Terre” le stesse che sono diventate melodie diffuse in tutto il meridione italiano.

Progetti immaginati e posti in essere dall’operato del trittico culturale locale, noto con l’acronimo di: T.A.G., storiche figure che dagli anni cinquanta del secolo scorso, alimentarono o meglio fornirono i mezzi necessarie e complessi per valorizzare e sostenere lo scorrere del tempo in continuità di ragione, con consuetudini e atti di ragione sociale insostituibili.

Tuttavia, siamo in pochi a ricordare, come si svolsero i fatti che portarono il piccolo Katundë a non perdere i valori della retta a impronta di storica rievocazione, con rispetto dei nostri avi.

Come possiamo no ricordare Temisto, Angelo e Giovanni, i costituenti che trasformarono, tre suonatori storici, in trentatré maestri di melodie irripetibili, senza dimenticare, il dato che, ispirati dalle melodie canore, di Adelina, Ginevra e Maria, affiancate dalle storiche assonanze di genere maschili di Celestino, Orlando e Antonio, realizzarono con senso genio locale, il primo gruppo folcloristico in Terre di Sofia, del quale nessuno riconosce, luoghi cose e nascita.

Non da meno sempre gli stessi T.A.G. in collaborazione con il Fondo Ambiente Italia, inghisarono le reali radici delle Valljie, riportate nei discorsi storici di Pasquale Baffi, nella famosa ottava di Sant’Atanasio, notoriamente diffusa come “Verà Arbëreşë”.

Sono numerose le cose e le figure che hanno reso il piccolo centro Arbëreşë, famoso in tutte le macroaree di simili radici, tuttavia gli eletti locali di turno da troppo tempo ignorano questi fatti e tutte le cose prodotte nella più solida continuità storica locale, preferendo fatti secondari che non portano o forniscono alcun episodio della forte identità locale che da tropo tempo viene lasciata poltrire nell’ombra anche se degli antichi gelsi, ormai non restano che pochi rami cadenti che non fanno più ombra, alle figure moderne locali che sono Nemo Propheta in Patria.

Quando queste “Stelle inquiete”, la smetteranno di fare danno e spariranno dalla portata della vista, la voce, gli odori e daranno spazio ai prediletti Nemo Propheta in Patria, che finalmente siederanno dove gli compete e, potranno diffonderanno la più idonea crusca Arbëreşë, che ormai è indispensabile al nuovo tempo che scorre e non si è mai fermato con l’essenza storica del genio locale, quello buono naturalmente.

Commenti disabilitati su STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

Posted on 02 agosto 2024 by admin

mandorle-albero-convicinum-1024x681NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto BASILE) – Nel corso e la durata degli excursus turistici locali nei “Katundë Arbëreşë”, in genere sono evidenziati, i principali manufatti architettonici civili e religiosi e, alcune sottigliezze figurative moderne, invece di elevare i trascorsi di questi luoghi, e mi riferisco a tutte le cose che potrebbero essere esempio e vanto di coesione sociale, preferendo illustrare cose comuni di secondo ordine.

Si ignorano così, lasciando in secondo ordine le prospettive storiche, fatte di elevati in diversa forma e misura, vichi, archi, orti, il tutto secondo l’antica consuetudine di Iunctura familiare, le magiche Gjitonie senza confini, di generi e natura.

La storia dell’architettura o genio dell’uomo, è articolata in base a episodi significativi, tuttavia e nonostante tutto si preferiscono espedienti secondari al fine di orientarsi e confondere gli stili, che in questi luoghi sono vanto e primato di evoluzione fraterna

Il dato che prevale del protocollo storico, sono le vicende marginali, inutili e dispregiative, in tutto, coloritura moderna senza rispetto del luogo dove sono apposte, incoscientemente dall’infante che saluta strillando a voce alta “MIrë Mëbrëma” che è un inno di Albanistica moderna.

Tutto il figurativo deve avere un attestato di riconoscimento storico a monte e certificato dalla crusca locale, al fine secondo cui, quanti si accingono o vogliono fare da guida per illustrare, o far emergere tutti i tasselli della storia che conta di un luogo, sano consapevoli che sia vera radice del genio consuetudinario Arbëreşë e non di altra stirpe alloctona o di “Stellare Operato”.

Questo breve, mira a sottolineare le principali tendenze dell’architettura, prima estrattiva poi additive e in seguito intercettandone la sintesi più intima e accessibile (la più esaustiva) degli stili e di cosa abbia sostenuto e accompagnato le famiglie Arbëreşë, in quel percorso di Iunctura sociale.

Lo stesso che rende questi luoghi, percorso dell’integrazione in terra parallela ritrovata, di popoli antichi che diedero linfa al germoglio delle società moderne in allestimento nelle terre di origine.

Qui tratteremo del “mandorlo storico”, ovvero, la memoria dell’orto botanico della famiglia Bugliari di sopra, in Terre di Sofia, dal del XVII secolo, gli stessi ambiti dove si elevarono le case nobiliari del casato, oggi note come Museo del Costume.

Un mandorlo che nasce inclinato si un terreno instabile e poi l’uomo e la natura lo resero pianta nobile che mira orgogliosa da secoli verso l’alto a respirare aria ed essere rifocillata dalla luce del sole.

In tutto un esempio dell’uomo che nasce piccolo e deforme e poi si eleva orgoglioso ad essere guida e agio per imeno fortunati di genio storico, educazione e rispetto verso le cose e del prossimo.

Una estensione Botanica a servizio del manufatto edilizio di rappresentanza nobiliare, alimentato da tra reflui o lavinai storici naturali, due posti alle estremità del rettangolo arboreo e, il terzo fungeva da divisorio idrico della parte floreale, più rappresentativa, posto ad Ovest, da quella botanica, medicale più essenziale e meno appariscente, posto ad Est.

Di queste essenze arboree e floreali ad oggi restano solo il mandorlo dell’ina casa e un ulivo bianco riproposto selvatico di memoria, tutto il resto per necessità edilizia abitativa e di rappresentanza, ormai dismesso rumane traccia solo il mandorlo storico e l’ulivo di memoria ripiantato.

Questi due esempi di memoria, aprono uno scenario di Iunctura familiare, che riporta la memoria agli orti storici del centro antico, che a buon ricordo, non erano pochi o episodici spartani senza utilità specifica.

Vero è che consultando antiche planimetrie del percorso e dello sviluppo del centro antico nel corso dei secoli, si evincono un numero consistente di orti, più propriamente botanici che ortofrutticoli, infatti, erbe e attività medicinali avevano la priorità rispetto ad altre piantumazioni.

A tal fine corre in nostro supporto sin anche la toponomastica manomessa, relativa alla detta “Via degli Orti”, che un tempo, delimitava, con una murazione le pertinenze familiari dei gruppi indigeni, con quelli che si associarono agli epiroti di primo arrivo e disposti lungo la via Morea e Albania.

Conferma, di quanto sino ad ora accennato, sono l’organizzazione sociale de tipici Sheshi, ovvero i rioni che compongono questo centro storico di antichi sistemi di confronto e movimento lento, che si difende non dall’esterno con cinte murarie, porte controllate, ponti levatoi e ogni sorta di impedimento circoscritto.

Vero resta il dato che questo modello di Iunctura sociale si difende dall’interno, evitando che quanti non appartenenti alla fratria sociale nota, non trovano agio nel recarsi attraverso le articolate viuzze, vicoli senza sbocco, archi di misura, orti botanici, il tutto a servizio delle piccole dimore disposte per rendere controllate le vie su cui affacciano i tipici accessi/finestra, sempre aperte e quando non lo sono, un piccolo occhio vigile, controlla la cadenza dei passi, dalla apertura di ventilazione gemellata alla porta di accesso.

Un sistema metrico di percorrenza lenta, sempre controllato e mai lasciato al caso, dove le grida dei ragazzi intenti a giocare, il suono della campana della chiesa, associato ai battiti che segnano le ore e i tempi della preghiera, associato agli odori della lavorazione casalinga giornaliera e stagionale della proto industria.

Tutto questo associato al vociferare del governo delle donne, la cadenza del parlato delle giovani generazioni, ogni passo del vicino di casa, quando torna dal duro lavoro dei campi, rende magico questi abbracci materni dell’architettura, nati dal genio e la consuetudine; un matrimonio ideale, germoglio indelebile del divulgare con garbo, il sapere e il vivere sociale Arbëreşë.

Storicamente è notoriamente diffuso il dato che la disposizione degli Sheshi Arbëreşë, unisce un numero considerevole di orti botanici nell’articolato sistema urbano.

La finalità mirava ad avere un ventaglio completo di erbe medicamentarie per la sostenibilità della medicina empirica, quella che utilizzava intrugli naturali.

Il protocollo ha una radice antica è nasce dal genio di un pellegrino greco di nome Pontus, che fermato nella città di Salerno, nel corso della notte scoppiò un temporale e un viandante malandato si riparò si trattava del latino Salernus; quest’ultimo era ferito e il greco, si avvicinò per osservare da vicino le medicazioni che il latino praticava alla sua ferita.

Nel frattempo erano giunti altri due viandanti, l’ebreo Elinus e l’arabo Abdela, tutti assieme si dimostrarono interessati alla ferita e alla fine si scoprì che tutti e quattro si occupavano di medicina.

Decisero allora di creare un sodalizio e di dare vita a una scuola dove le loro conoscenze potessero essere raccolte e divulgate. L’incontro tra i viandanti sotto le volte della via che dal Monastero di S. Sofia conduce al Monastero di S. Lorenzo siano I leggendari fondatori, della scuola di medicina empirica; identificati in Garioponto (Pontus), Alfano di Salerno (Salernus), Isacco l’Ebreo (Elinus) e Costantino l’Africano (Abdela).

Questo è un breve accenno sull’origine degli orti che caratterizzavano ogni Katundë arbëreşë, gli stessi che nel corso dell’amministrato inopportuni degli ultimi decenni ha dismesso e cancellato ogni sorta di orientamento, medicale, storico consuetudinario e religioso della memoria.

Di questi spazi medicali e delle regole di utilizzo, valga di esempio l’aneddoto che qui mi appresto a raccontare, con protagonisti, mia Madre Adelina, Francesco e Achille i suoi due confinanti: lei una donna minuta ed energicamente puntigliosa mentre i die confinati espressione di primati di sopruso continuato nei confronti di tutta la comunità sofiota in misure olearie e di confini.

I tre confinanti con i reciproci orti botanici, avevano una stradina comune, un vicolo cieco, che serviva i tre possedimenti del centro antico, e quel vicoletto a percorrenza pedonale era esclusiva dei tre.

Francesco ed Achille, pretendevano: siccome i loro appezzamenti erano posti ai lati della strada e quello di mia madre Adelina a termine, era possibile per loro attraversare il giardino di Adelina a loro piacimento.

Premesso che anche se questa discussione avveniva alla fine degli anni settanta del secolo scorso e tale regola è riportata sin anche nel Kanun di Leke Dukagjini; non certo mai letto da nessuno dei tre discutenti e, a quel tempo anche me compreso.

Ma la risposta di mia Madre, Adelina Basile la Figlia di Antonio prima zitti i due faccendieri di gratuita percorrenza e, poi li fece voltare e andare verso casa loro con la testa china.

La frase fu questa: Hoj Franghì; Hoj Akj, voi conoscete bene la regola del vicolo cieco, ma se nel caso l’avete dimenticata, la porta del cimitero è sempre aperta, andiamo tutti assieme nelle tombe dei vostri cari genitori e, ripetetemi quando qui affermato se avete onore.

La regola dell’antichità Iunctura familiare, si riverberava qual giorno, come da secoli negli ambiti del centro antico, in Terra di Sofia.

Commenti disabilitati su MENDULÀ THË LINACÀSA (Il mandorlo di Ina Casa)

ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI  (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

Posted on 28 luglio 2024 by admin

ImmagineNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La cultura dei popoli si manifesta nel corso del tempo e, poi diventa storia, attraverso l’ausilio di due strumenti fondamentali, l’uno relativo all’ascolto orale e, poi seguito in epoche più recenti da quello scritto.

Due modalità espressive o tec­niche memorative, il cui apporto consente l’ampliamento e la conservazione della me­moria, for­nendo e permettendo all’esperienza individuale e collettiva, un nuovo supporto per un nuovo vivere, in tutto, lo spiccato ruolo propulsivo del processo che porta al migliorarsi della collettività.

Da ciò quanti sanno parlare e scrivere diventano veicolo di un potere comunica­tivo maggiore rispetto agli altri e, godono anche di un potere sociale e politico verso la collettività che li segue.

Infatti, poiché l’organizzazione civile è codificata in norme tramandate e scritte, i governanti hanno avuto bisogno di chi fosse in grado di utilizzarle, per poi tramandare ai sudditi per leggerle leggerle e riportarle.

Questo è allo stato un processo negativo che conduce la collettività a dividersi e produrre pensiero di confronto, che allo stato moderno delle cose non conducono a nulla di propositivo o di beni uniformemente distribuiti.

Anche i sacri granai sono basati sulla rivelazione delle scritture dette sacre e le consuetudini pubbliche, hanno avuto agio e si sostengono degli stessi espedienti o esigenze dirsi voglia.

Quanto maggiore è la capacità di raccontare, ascoltare, scrivere e leggere, altrettanto profondo è il gradiente per coinvolgere la collettività verso il sole il sole che sorge o verso dove tramonta.

La diffusione della scrittura attenua le differenze sociali e garantisce la genuinità delle cose perché dette o scritte da altri tempo prima per questo è un susseguirsi di attestazione o riverso di equipollenza mai attestata in duplice miracolo.

Da ciò deriva l’importanza dell’apprendimento della scrittura in ogni società che miri ad incuneare l’armonia più opportuna al sociale in crescita.

Il grado con cui viene diffusa la scrittura in età storica mira a diventare in epoca più recente un sicuro indice di cose fatti e uomini, che ha solo la verifica del riportato, abbarbicato nell’assoluto protagonismo dello scrittore che riporta fiero la certezza delle cose, dette o scritte da altri senza verificarne i contenuti.

Un tempo quando i riportati scritti alteravano il senso delle cose, si ricorreva alle diplomatiche, ma queste essendo motivo di approfondimento di fatti e cose, furono espulse dai canali forti della politica e della cultura alla fine del XVIII secolo.

Il cammino della collettività verso una consapevole coscienza della propria civiltà, nei fatti diventa dominio degli strumenti e dei prodotti del­la scrittura.

Nei fatti un processo graduale, non necessariamente e progressivamente lineare, in quanto gli unici ad averne agio e profitto sono le sfere alte del potere della società, quest’ultima inevitabilmente coinvolta per sostenere e valorizzare le pieghe della politica forte, o di quanti costruiscono piramidi senza contenuti e agio collettivo.

Lo sforzo se poi è rivolto verso una minoranza storica bisogna dedicarsi con molta passione e appropriarsi degli strumenti della cultura raccontata e scritta, della propria appartenenza evitando di cadere nel carsico invaso dei comunemente evitando di rendere l’invaso culturale, penoso acquitrino della sua storia.

E questo accade quando si utilizzano senza ragione sostantivi, pronomi, aggettivi e verbi non si fa altro che depositare nelle distese naturali pronte a dare germogli buoni, forme estreme che inquinano e fermano il naturale progredire dele cose utili all’uomo.

L’esempio più dannoso in campo culturale lo si può riassumere nell’utilizzare caparbiamente Arberia per indicare una regione storica come quella sostenuta dagli arbëreşë, che come un lago carsico, depositandovi eresie diventa palude non più atta a fare emergere germogli di cultura, ma frenare e non far emergere frutti buoni di quelle terre, che a quel punto ha degenerato in lago carsico, privo di ogni defluenza futura possibile.

A ben vedere anche l’equipollenza risulta essere storicamente un culto spontaneo e largamente diffuso in questi ambiti carsici, che sono colmi di elementi senza indagini specifiche e senza attendere il verificarsi di prova miracolare.

Tutto il prodotto culturale termina con le beatificazioni e canonizzazione del trapassato, per il quale non si esegue un regolare processo per individuare l’esistenza di un dato riconosciuto, quindi, credenza senza prova alcuna.

Questi sono gli elementi che senza soluzione di continuità servono a sostenere e valorizzare il patrimonio fatto di sacrifici senza eguali portati a buon fine da fondamentali figure, oggi sostituite da comunemente o viandanti locali, quali essendo i rappresentanti di istituti o istituzione dirsi voglia seminano fatuo.

Sono questi ultimi che non fanno altro che mirare alla Iunctura sperimentale, riversando nel carsico contenitore, cose e fatti mai avvenuti o che abbiano un barlume di consuetudine Arbëreşë.

Il concentrare senza soluzione di continuità i questo invaso, detriti culturali in forma di editi, dicerie e costumanze senza alcuna regola, ha frenato il normale deflusso o movimento culturale, quello indispensabile che portava eresie e ogni cosa dannosa verso il mare, grazie al quale per la sua salinità rendeva i ristagni concime per la semina buona.

Arrivare a questa deriva di equipollenza carsica, così estrema, denota un danno prodotto irrecuperabile, e come se i genitori che vivono in una casa con i propri figli e parenti, vendano furbescamente per fare commercio, le parti costituenti le fondamenta della propria casa, senza avere misura del dato che in ogni momento, gli innalzati o orizzontamenti facente parte del fabbricato, dove vive e opera la comunità, trasformarsi e fare tragedia di loro stessi.

Altra marea di affluenza carsica sono le attività poste in essere o messe in atto, con risorse pubbliche e, senza alcun tema o diplomatica assegnata per finalizzare con senso le cose, a cui fanno seguito risultati di genere alloctono; gli stessi che non contribuiscono alla conoscenza della formazione generazionale future di questi luoghi, notoriamente diretti e certificati senza controllo e se avete dubbi in tal senso fate nota e visare illuminato ogni scenario ormai a termine.

Commenti disabilitati su ARBERIA: EQUIPOLLENZA CARSICA DI GRATUITE CREDENZE CULTURALI (ghë ghèrë ischinë zimbunàt sot nà kindruanë lavinatë me balljëtë)

L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE  (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Protetto: L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

Posted on 21 luglio 2024 by admin

Il contenuto è protetto da password. Per visualizzarlo inserisci di seguito la password:

Commenti disabilitati su Protetto: L’ACQUA S’INSINUA NEI CENTRI ANTICHI ALIMENTA ORTI E DISEGNA, CASE, VIE, VICHI, PIAZZE (Chi resta Dimentica; Chi parte, Studia Ricorda Valorizza e Tutela da remoto)

LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE OGGI IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Bashëkia thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE OGGI IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Bashëkia thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

Posted on 20 luglio 2024 by admin

Senza titoloNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ho vissuto gli ambiti natii, secondo le consuetudini familiari degli anni cinquanta sino agli anni settanta, del secolo scorso, in armonia con le cose i fatti e i luoghi secondo i parametri giovanili di una memoria piena di interesse e, l’entusiasmo di un ragazzo arbëreşë che vuole apprendere, senza mai disdegnare o trascurare alcun particolare o regola dello statuto familiare di qui tempi.

Quindi una memoria vigile attenta e sempre pronta a confrontare le cose di ieri con quanto è posto in essere in questa nuova era globale che appiattisce cose, in favore di prospettive, allevate senza le fondamentali granuli di crusca locale, la stessa che faceva il buon pane, secondo gradienti o lievito madre passato di generazione in generazione senza mai violare quel pane benedetto.

Della mia giovinezza ricordo pietre, alberi. strade, case, palazzi, orti, vicoli, forni, archi, alberi o anfratto naturale che resisteva, caparbiamente, all’interno del centro antico, sin anche i dislivelli naturali dove si riunivano i noti governi delle donne, Gjitonie, contornati da fanciulli e fanciulle, in tempo per essere formati.

Gli stessi luoghi, dei cinque sensi, dove scuole, promesse, novelle e ogni sorta di avvenimento, materiale e immateriale, con energica passione, trovavano sostegno, sviluppo agio e sin anche patire.

Era in questi ambiti senza confini che le nostre famiglie, sino alla fine degli anni settanta del secolo scorso, esprimevano l’essere caparbia, unica e irripetibile minoranza storica arbëreşë.

Se a questo associo il dato che ho vissuto a fianco stretto di mia madre e mio padre, i quali, mi rivolgevano particolari attenzioni per la mia ereditata natura e, preoccupati che potesse degenerasse e diventare non più autosufficiente mi tenevano impegnato a partecipare alla vita di casa come loro discepolo prediletto.

Mi ha permesso di memorizzare tutte le considerazioni e ricostruzioni che usavano fare genericamente per ogni persona, notizia o cosa che, grazie al mestiere di mio padre, ovvero, vigile urbano e responsabile del civico acquedotto locale, giornalmente al rientro a casa, a mezzo di e, la sera, riferiva per informare noi familiari.

Questo associato alla particolare attenzione che mi volgeva, volendomi sempre al suo fianco di fatto mi rendeva testimone di ogni cosa avvenuta o compiuta in paese per il primo un decennio e mezzo della mia vita.

La conferma la ebbi quando un mio vicino di casa, che mi aiutava ad ordinare le mie manchevolezze scolastiche dell’italiano scritto, ai tempi delle scuole medie, mi disse; perché tu stai sempre a casa e non scendi in piazza a incontrare i tuoi coetanei?

O come negli anni settanta del secolo scorso, con mio padre sofferente per malattia, mia madre affrontò nel pubblico Trapeso locale, due confinanti che volevano il passaggio nel suo podere, alle parole: andiamo al cimitero davanti la tomba dei vostri estinti e giuratemi di avere ragione di questa regola, vidi i due bellimbusti voltare i tacchi e passare in ritirata.

Quel giorno mia madre forse non lo sapeva, ma io che avevo letto Il Kanun si; quella mattinata mia madre ebbe ragione nell’applicare applicato senza alcuna difficoltà, la regola del passaggio pedonale tra confinanti Arbëreşë.

Come questi episodi, potrei raccontare tutte le cose di cui discutevano per valutare gli avvenimenti o i legami conseguenti al vivere in quel centro antico di radice minoritaria, riferite da mio padre e dedotte poi assieme ai miei familiari tutti, non solo del centro abitato ma anche di quanti vivevano e operava nell’agro di terra di Sofia.

Come l’essere redarguito da Carmela e Temisto, i quali mi invitavano a sedere al loro fianco e ripetere piano le parole da me diffuse a squarcia gola in lingua locale, consigliandomi prima di verificarle piano, specie in loro presenza, cosi avrei evitato, crescendo, di essere scambiato per un bambino disperso e portato a San Demetrio dove tutti facevano le mie grida e gesta.

Non mancavano i momenti in cui seguivo mio padre nella sua officina, per rendere efficiente la sua moto Ducati 125 degli anni sessanta.

Rimangono ancora impressi nella mia memoria i battiti della macchina da cucire Singer, serie Sfinge, matricolata, febbraio1926, mentre intento a giocare, sognavo di essere il costruttore Genj, a quei temi esperto nell’assemblare abitazioni agresti, mentre, mia madre, si ingegnava a riparare e rendere efficienti i costumi tipici locali.

Lei era una delle poche donne, in grado di realizzare il pezzo più complesso di quel protocollo di vestizione, oltre a riparare e fare ogni pezzo del costume, che se non era perfettamente ordine celato delle anatomie della prescelta.

Era lei stessa molte volte a rifiutare il protocollo di vestizioni di giovinette che i genitori emigrati sognavano di esporre con quelle vesti e, molte volte rifiutava per il messaggio che sarebbe stato formalizzato negativamente con la frase: la ragazza non ha glutei, fianchi e seni adeguati, per la vestizione secondo il protocollo storico.

E se oggi vedo chi camminava a capo chino, per non farsi riconoscere la fascia nera al collo con pendaglio orafo, esporre, disporre, disquisire delle cose del passato, dire che rimango basito è poco, perché se un giornale è stato sempre scritto nella storia in Terra di Sofia, quello di casa mia era il più titolato e leale, a cui ho assistito dai tempi della mia infanzia e oggi sono la storia.

Se a questo aggiungo il posto in cui sono nato, le madri di scorta che ho avuto nella mia infanzia e, poi i maestri qui a Napoli per elaborare e trovare conferma di tutte le cose vissute e provenienti da mio loco natio, oserei paragonare la mia conoscenza al pari di chi si è formato all’interno di una redazione giornalistica senza mai perdere una delle notizie diffuse.

Quando si è vissuto l’epoca in cui i percorsi pedonali interni al centro storico, furono cementate rimuovendo i vecchi paramenti in pietra o scalinate, rimodellando, e soprapponendovi cemento nei luoghi per secoli identificati di comune convivenza e promessa data.

Ho visto asfaltare la strada provinciale nel centro antico e lungo le strade a salire al bivio e scendere a Bisignano, sostituire solai e varchi di accesso di vecchie case, violandone gli equilibri strutturali, e delle coperture storiche in armonia con l’ambiente naturale, ho assistito alla rimozione di orinatoi pubblici e stabilizzare la corretta fornitura di acqua potabile nel centro storico intro.

Assistito alla crescita edilizia e urbana lungo tutto la Via Roma e la stessa crescita dal Prato, sino al colle dei Gallo, che oggi non esiste più.

Lo stesso colle sotto il quale la strettoia del piccolo ponticello fermava la corsa di moto e autovetture, nota come “Ka Tirata”, dove si cercava incoscientemente con lo scopo di raggiungere e toccare i cento km/h, con la seconda marcia, di mezzi tra i più moderni della vantata economia locale di quel tempo.

Ma non solo luoghi, cose e costumi fanno la storia del mio luogo natio, in quanto lo sviluppo urbano, che ha avuto inizio, dal dopo guerra, ha violato il senso, consuetudinario che il Katundë aveva avuto dalla sua prima pietra in senso generale.

Iniziava così ad avere rilevanza la resilienza, forse non adeguatamente prevista dalle valide figure di un tempo, le quali, per il troppo rispetto e fiducia che volgevano, alle generazioni a venire, poi trasformatisi in mescitori di intonaco e non lasciavano al vento neanche più la polvere, anche essa scomparsa, o magari venduta per pochi danari

Il valore culturale risulta essere così degenerato, che non contempla o proferisce, alcun agio genuino, alle cose sino ai nostri tempi di giovinezza egualmente tutelati come pervenuti.

Sono spesso contattato ripetutamente per ricevere conforto culturale dalla mia professionalità per riferire cose inedite, dalle stesse persone che poi negano di conoscermi o ricambiare almeno con una minimale forma di rispetto la novità ricca di particolari trasferita al loro misero sapere.

Se a tutto questo associamo l’dea spontanea di un noto professore di Albanistica, il quale mi invitava il pomeriggio del 17 gennaio del 1977 a ingegnarmi secondo un nuovo stato di fatto indispensabile agli studi arbëreşë e, indagare di urbanistica, architettura e territorio, chiedendo di tornare, per svelare il valore di uno specifico numero di edifici, gli stessi che ancora oggi non hanno collocazione storica e di memoria, raccontata senza alcuna consapevolezza di secoli, di luogo e appartenenza.

Tutto quanto raccolto, memorizzato e studiato, allo stato dei fatti, resta a disposizione di tutte le amministrazioni locali arbëreşë, le quali più volte invitate a uniformare la storia di questi luoghi, pubblicizzati per” Borghi, Civitas” e chissà quante altre apparizioni storiche inopportune, rimandano l’appuntamento a un settembre che forse non vedrà mai agio storico o memoria da individuare.

Un dato e certo: hanno preferito fare altre cose o disporre inutili rievocazioni senza fondamento e distribuire attestati, onorificenze, ruoli e agio di notorietà a figure inopportune.

È stato proposto di formare giovani figure locali, le quali, invece di espatriare all’estero, desertificando il Katundë, potevano valorizzare il centro storico e i relativi cunei agrari e della credenza.

Tuttavia si è preferito are agio a liberi interpretatori di cose mai esistite, che accolgono turisti per raccontare il luogo di movimento secondo adempimenti alloctoni o interpretazione carpite a veri cultori, per poter apparire esperti di arbëreşë, senza alcun fondamento storico se non il comune campanilismo locale che tritura ogni cosa.

A tal scopo sono valorizzati cose, fatti e uomini della Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, con episodi estranei alla storia dell’architettura, che non può essere argomento di liberi pensatori locali, i quali, confondono sin anche campanili con minareti, borghi con Katundë, Gjitonie con Vicinato e Sheshi con Piazzette e in ultimi mattoni in laterizio con moduli di adobe essiccata al sole.

Dal canto mio, oltre la laurea in architettura dal lungo tirocinio, intesa dai comunemente locali come abbandono di studio, scambiando la frequenza assidua delle botteghe storiche dell’architettura partenopea in collaborazione non dipartimenti, la stessa che non ha eguali e ti rende unico e completo professionista il giorno della laurea, un giorno precedente i prima cinquanta anni.

Tutto questo ha reso possibile acquisire dati per una formazione a trecento e sessanta gradi, che va dalla storia, l’architettura, l’urbanistica, la cartografia storica oltre a saper ascoltare ed interpretare e leggere tutti i lamenti strutturali ed estetici di ogni edificio storico, posto in esame, sino archivi, cattedrali o luoghi abbandonati ormai allo stremo delle forze come il Quisisana di Castellammare di stabia, la casa rossa di Anacapri e molto altro ancora.

Questo grazie a tante discipline che consentono di dialogare e trovare spunto per tutto quanto serve alla ragione storica degli arbëreşë che non è; non è; non è, esclusivo esperimento linguistico con giullari e vocabolari che procedono all’incontrario o meglio a modo di Caposotto.

Il mio Grido di dolore è rivolto a tutte le istituzioni, civili e religiose che contano, esso mira a formare gruppi di “giovani guide” che con il garbo e i modi tipici dell’accoglienza storica Arbëreşë, possano informare viandanti distratti e turisti della breve sosta annoiati, facendoli sentire ospiti privilegiati a cui trasferire nozioni antiche in campo delle consuetudini, della vestizione e del genio locale che ha sostenuto con sudore e patimento, negli Shëşë articolati di Iunctura familiare Kanuniana, la dieta mediterranea, qui  ancora pronta ad essere apprezzata nella ristorazione locale.

In tutto una ospitalità unica che nessuno potrà scambiare e definire mero turismo di massa, perché respirare, avvertire, ascoltare, vedere  ed assaporare, l’essere un arbëreşë è un modo, una sensazione, un privilegio per vivere fraternamente e senza prevaricazioni, luoghi, fatti, credenze, cose e sentimenti irripetibili, che non siano regione storica diffusa e sostenuta in arbëreşë.

Commenti disabilitati su LIRICHE DI PROMESSA DATA IN ARBËREŞË COMPILATE OGGI IN PENA GRAMMATICALE ALBANESE (Bashëkia thë lljumi me ùjthë i lavinvètë mè ghëneş e pa dielë)

Advertise Here
Advertise Here

NOI ARBËRESHË




ARBËRESHË E FACEBOOK




ARBËRESHË




error: Content is protected !!