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GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 07 febbraio 2025 by admin

photo_2025-02-06_21-28-11NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèù cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immagino che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande per accoglie sposi;

Eseguito per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa poi molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, perché voleva cantare volando e gridare:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

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“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE”  (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

“MEDITERRANEO BACINO D’ACCOGLIENZA E ITEGRAZIONE SOSTENIBILE” (le Radici antiche, nella Terra di oggi, per solidi germogli di Accoglienza e buoni proposti dei domani)

Posted on 05 febbraio 2025 by admin

DA STATO A MANXANAa

PROGETTO PRELIMINARE DI RICERCA E COMPILAZIONE DEI PAESI CHE SONO

LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA DAGLI ARBËREŞË

(il modello completo di solida integrazione mediterranea)

 

Introduzione

 

Questa nota di progetto vuole essere una proposta per tutte le amministrazioni che mirano ad allestire o disporre attività di resilienza, nel rispetto e suggerendo le leggi che tutelano le minoranze storiche, in specie l’Arbëreşë, secondo le direttive qui di seguito elencate:

– Convenzione – Quadro tutela delle minoranze, Consiglio d’Europa 10/11/1994;

– Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Articolo 21), che vieta la discriminazione, dell’Unione Europea che privilegia il principio di non discriminazione in tutte le sue forme.

Costituzione della Repubblica Italiana:

 – Articolo 6 tutela le minoranze che vivono sul territorio nazionale;

–  Articolo 9 tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico;

– La Legge del 15 Dicembre 1999, n. 482, Art. 2. Comma 1, in attuazione dell’articolo agli articoli 3 e 6 della Costituzione Italiana a tutela cultura il parlato di minoranza storica:

– Decreto del Presidente Repubblica del 2 maggio 2001, n. 345 Art. 1 Comma 3;

– Decreto Legislativo del 22 gennaio 2004 n. 42 recante il “Codici dei Beni Culturali e del Paesaggio”;

– Legge della Regione di Abruzzo, Molise, Calabria, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria.

– Decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63,

le attività di seguito elencate formulano atti, attività e direttive, non intese come “divieto alla non uguaglianza”, ma, “sollecito ad acquisire atteggiamenti, misure, progetti e dispositivi il cui fine vuole concertare la più solida continuità culturale”.

Se a questo associamo le direttive che i PNRR, ovvero i Piani Nazionali di ripresa e Resilienza, come non adoperarsi a delineare, percorsi di salvaguardia delle regioni storiche sostenute dalle minoranze, che in Italia rappresentano i modelli di integrazione tra i più solidi, longevi e meno invasivi di tutto il Mediterraneo.

 

Premessa

Chi possiede una lingua materna, la storia con protagonisti i padri in campo a seminare bene,  i riti religiosi in Chiesa , le tradizioni e costumi come solido patrimonio, la Gjitonia che si concretizzano nello studio di generi e prodotti e dell’artigianato, la iunctura tra famigli che descrive architettura e ambiente, per il fine di continuare a essere patrimonio insostituibile, soprattutto in quest’epoca dove sono messe, seriamente, a dura prova per l’invasione commerciali e di nuovi simboli, espressi da grafiti indigeni non paralleli, restituisce  e fa una forza culturale irremovibile.

Il progetto qui i compimento in forma preliminare, si prefigge il fine di coinvolgere figure alte per accorare, un gruppo di lavoro, multidisciplinare, sulla base o la fonte di esperienze specifiche in campo, Antropologico, Linguistico, Psicologico, Storico, Sociologico, Psichiatrico, Architettonico, Urbanistico, Credenza Religiosa e Consuetudini diffuse dagli Arbëreşë, includendo anche altre discipline, per il fine di raggiugere il buon esito dell’operato di tutela e resilienza, seguendo protocolli di ricerca, relazioni, grafici e studi specifici di mire fondamentali di luogo naturale, tempo, epoche e uomini.

 

 

 

Temi di tutela per sostenere la resilienza di questo esempio di integrazione mediterraneo

 Ripristinare la parlata arbëreshë di macro area o di Katundë, avendo mira i lascito più antichi per le nuove generazioni, utilizzando in prima analisi i presidi scolastici con “un tempo breve” di avvicinamento e in seguito “ tempi più articolati ” per porre in essere corsi specifici come l’antico governo delle donne realizzava per la trasmettere la lingua, secondo direttive locali, con preferenza del parlato e del canto rimato, senza l’ausilio di musica, vocabolari e forme scrittografiche di alcun genere, come si usa fare con le lingue più forti, ovvero quelle sostenute dalla poesia e la forma scritta, qui mai utilizzata da tutto i buoni parlati e pronti per l’ascolto;

Recupero dei sistemi urbani di approdo e di sviluppo oltre i percorsi dell’economia tipici di necessità vernacolare, in tutto componimenti di iunctura familiare solidale intrecciata nei: Vicoli (Rruhat), Suporti (Sottoportici), Vicoli Ciechi Rruhat i mëbuliturë), Vallj (Spazi circoscritti senza Uscita) e Orti Botanici (Kopshëti) storicamente allestiti nel centro antico,  l’insieme poi finalizzato a compilare progetti di resilienza del centro antico, dove innestare e far rifiorire i valori sociali del Governo delle donne o luogo dei cinque sensi;

 

Allestire manifestazioni culturali e, convegni rivolti alla cultura, per la definizione di temi che troveranno allocamento in mostre evidenziando i percorsi storici di integrazione degli arbëreşë in generale e, quella di ogni Katundë e la sua macro area, nei dettagli più intimi; il tutto da apporre in una struttura di museo antropologico o in appositi spazi di libero accesso all’interno del centro antico e le attività proto industriali, innanzi il camino;

Studio e ricerca storica dello sviluppo urbano del centro antico, seguendo i ricorsi storici, sociale e dell’economia nel corso dei secoli, con apposizione di sistema planimetrico G.I.S. indispensabili a definire epoca e sviluppo e sistemi rionali secondo cui era composto a ha seguito il percorso di crescita il Katundë dall’essere centro antico e diventare centro storico;

 

Realizzare un’analisi toponomastica che possa definire l’ampliamento del centro antico seguendo la realizzazione dei quattro rioni tipici (Sheshi) e le pertinenze di origine come il cortile la casa e l’orto botanico, a cui seguirono i modelli più complessi di “Iunctura familiare”, articolata in quelli antichi e lineari per i più moderni.

Progetto dei pannelli toponomastici viari numerici, dei civici in caratteri Romani e Arabi, per la toponomastica di memoria locale, sia del centro antico, sia dei cunei agrari, silvicoli e pastorizia; in oltre eseguire la puntigliosa ricercare degli storici itinerari della transumanza di macro are e di radice di ogni Katundë, all’interno del suo agro di pertinenza;

 

Tracciare i percorsi di credenze del centro antico e, valorizzare le antiche icone del centro storico, oltre quelle dei cunei della sostenibilità agraria, cercando di cogliere l’orientamento a associarle agli accadimenti storici, datandone la realizzazione con gli elementi che solidarizzano e compongono gli levati.

Definizione dei cunei agrari della produzione, della trasformazione e conservazione del bisogno sostenibile proto industriale eseguiti davanti al camino o al forno del modulo abitativo del bisogno vernacolare.

 

Ampliare i musei monotematici del costume, volgendo l’interesse non a temi specifici ma di largo interesse antropologico locale, con sezioni a tema di costumi e momenti di vita domestica giovanile e di rappresentanza, o delle attività e lavorazione, dei prodotti Solanizzati, in tutto l’arte del genio locale sostenuto e diretto dal governo delle donne;

 

Comporre una postazione video e audio, del parlato per l’ascolto di macro area, al fine di fornire alle generazioni più adulte di tramandare i valori originali per la discendenza del parlato e dell’ascolto secondo antiche consuetudini;

 

Formare un gruppo di giovani/e residenti locali, al fine di rispondere con cognizione storica locale e generale con coerenza, alle richieste di turisti della lunga o della breve sosta e, rendere interessante l’accoglienza, riverberando informazione specifica della minoranza, sia del centro antico, che del territorio agreste, della macro area di pertinenza, accompagnano i turisti lungo le trame viarie del centro antico e, avvertire i valori dei cinque sensi qui depositati tra gli elevati di iunctura familiare, in tutto i valori solidi che fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë;

Formulare un elenco vernacolare del perlato primo in Arbëreşë, ovvero identificare il corpo umano di genere e le necessità naturali del bisogno di vivere, oltre a tutte le movenze e le cantilene di ironia, per fare memoria di vicinanza allerta sociale da tramandare alle nuove generazioni e come il senso Gjitonia, anche del parlato e dell’ascolto non scritto;

 

Realizzare percorsi pedonali con l’utilizzo di materiali autoctoni di antica necessità, creando le prospettive secondo l’uso dell’epoca, si serviva di prodotti naturali o estrattive, realizzando forme e pianori aditivi del bisogno o della necessità dell’epoca in continuo progredire;

Gli stessi che segnarono i percorsi dell’operato di credenza locale, per i tanti scampati pericoli naturali, come carestie terremoti e pandemie, in tutto momenti di isolamento e pena che misero in dubbio la continuità sociale e produttiva dei cunei agrari e sin anche dei centri abitati, in forma proto industriale.

 

Intercettare i lavinai storici, che resero possibile il sostenersi all’interno dei sistemi articolati, in quanto unica risorsa naturale per igienizzare e rendere vivibili quegli ambiti.

Analisi di ricerca e studio degli effetti della legge 482/99, nazionale e quelle regionali estrapolandone i benefici e le manchevolezze di tutela non contemplate rispetto a quelle troppo esaltate; annotazioni da sottoporre a politici e istituzioni, per le mire non raggiunte per il ventaglio ristretto estrapolato dalla lettura, per meglio dire, i processi involutivi non previsti e ancora non meglio contemplati;

Studio del costume tipico, di: giovane donna; sposa; regina della casa; giornaliero; lutto e, vedova incerta; attestandone sin anche le varianti e le inesattezze nel corso dei secoli, che oggi sono attesti in editi, convegni e tesi dipartimentali;

Studio dei processi di organizzazione urbana, tipica e articolata secondo i rioni tipici che fissano le varie e poche e le genti che qui trovarono agio di vivere, secondo la riorganizzazione Prima greca, poi bizantina, in seguito longobarda poi cistercense, arbereshe dominate da francofoni, austriaci e ispanici.

 

Definizione dei sostantivi che identificano il centro abitato, i Rioni, le Piazze, le Vie, gli Orti Botanici e i Valori di convivenza sociale largamente utilizzati senza alcuna Radicanza Arbëreşë;

Progettare il percorso ideale del costume all’interno di musei ed eventi, secondo disposizione e temi, predisposti da titolati, fornendo la più giusta e idonea linfa espositiva, che molto spesso non trova ragione di essere tema di memoria;

 

Ricerca storica delle figure di eccellenza Arbëreşë, nelle discipline: di Credenza Economiche; Politiche, Scienza Esatta e del patire storico, sino all’unità d’Italia e ancora oggi nel confronto con la terra madre;

Le Credenze locale e Sociali, oltre fenomeni paralleli laici, la terminazione del rito Ortodosso, per il Latino e, gli atti che determinarono l’esigenza del Greco Bizantino;

 

Valorizzare la giornata del Termine per gli Arbëreşë, il Carnevale gli appuntamenti storici della stagione lunga; l’Estate e di quella corta; l’Inverno.

La festa patronale e il significato storico locale dei Santi, tracciando le vie della devozione di ogni Katundë;

 

Definizione solidale e condivisa di Katundë, Borgo, Paese, Contrada, Rione, Quartiere, Gjitonia, Sheshë, Drjtësora, Ruitoj oltre i toponimi indigeni da non contemplare perché appartenuti alla storia prima che approdassero gli, arbëreşë;

Analisi dei processi costruttivi, primari estrattivi, quelli vernacolari del bisogno, per dare forma alle residenze prima e dopo il terremoto del 1783, intercettando i palazzotti o palazzati nobiliari, di crescita sociale ricostruiti secondo le imposizioni regie imposti dal governo centrale di Napoli

 

Vanno anche analizzati gli spazi temporali dei terremoti che hanno messo alla prova, territorio, uomini e i processi di sviluppo edilizio nei Katundë Arbëreşë attraverso i quali definire le tessiture petrografiche e degli elementi di laterizio in uso nei modelli architettonici utilizzati, a seguito dei numerosi eventi tellurici che interessarono la regione storica dal XIV secolo a venire.

Le Vallje: la festa dell’integrazione,

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KANDJLORA ARBËREŞË

KANDJLORA ARBËREŞË

Posted on 03 febbraio 2025 by admin

CandeloraNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Ricorrenza che si celebra il 2 di febbraio, in tutto, la memoria che segna la presentazione di Gesù al Tempio e la purificazione di Maria, secondo la tradizione cristiana.

Il nome “Candelora” deriva dal latino “candelorum”, che significa “candele”, in arbëreşë ” Kandjlorë”, che ha come espressione diffusa il benedire le candele, simbolo di luce che rappresenta Gesù come “luce che illumina le genti” almeno questo è l’auguri che ogni credente cerca di mettere a regime specie dal punto di vista religioso etico e culturale.

In Italia, la Candelora è anche legata a diversi detti popolari e tradizioni e, in alcune regioni, è considerata un momento di passaggio tra l’inverno e la primavera, e si dice che se il giorno della Candelora è soleggiato, l’inverno durerà ancora sei settimane, mentre se è nuvoloso, la primavera è già vicina.

Tra queste regioni le più significative sono quelle che si dispongono nel meridione italiano e fanno la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë.

Come si ricorda per quanti conoscono il parlato arbëreşë la Candelora è associata a previsioni meteo e l’eliminazione delle cose o le persone negative, in senso di tempo buono e figure formate idoneamente.

Un detto recita: “Se alla Candelora piove o tira vento, l’inverno è ormai al mezzo e comincia il suo declino” e se il tempo è sereno, invece, si dice che l’inverno durerà ancora a lungo.

La festa è anche legata alla purificazione della Madonna, che secondo la legge ebraica doveva presentarsi al Tempio dopo 40 giorni dalla nascita di un bambino maschio, per ricevere in dono la purificazione e simboleggia la sua consacrazione e la sua partecipazione al piano divino.

Dal punto divista sociale e della partecipazione dei generi, essa rappresenta anche il passaggio dall’oscurità alla luce, e in molte culture, questo è un momento simbolico per lasciare alle spalle le difficoltà dell’inverno e guardare con speranza alla primavera che arriva e libera la mente.

In alcune regioni, la Candelora è anche vista come un’opportunità per compiere atti innovativi o di rinnovamento rispetto all’inverno e, le pene esposte in pubblico dominio dalle istituzioni, sino al primo di Febbraio e, promuovendo limpide  forme di solidarietà culturale, di fratellanza e solidarietà.

La tradizione delle candele benedette, rappresenta dunque, sia la luce spirituale che quella fisica, facendo riferimento al rinnovamento e alla speranza, che il nuovo anno solare, a breve darà inizio, al fine che possa rendere ogni luogo espressione di un passato costruttivo e solidale.

Una regione storica dove chi vale va elogiato e chi non sa, deve sedersi e, ascoltare o apprendere le gesta e le ritualità degli uomini sani, tutti quelli che conoscono e sano fare, senza distinzione alcuna,  come è stato fatto nel modello di integrazione mediterranea dagli Arbëreşë, con Napoli capitale, mente e luogo storico di integrazione.

In tutto, la candelora è anche il giorno del termine di rappresentazioni a dir poco volgari, se non addirittura offensive verso quanti dedicano tempo danaro e impegno fisico e mentale, per illuminare di nuovo la regione storica diffusa degli arbëreşë e sin anche le menti rigide e chine, di quanti oggi fanno Albania , le terre  da dove un tempo si costrinsero a  migrare gli arbëreşë per non essere sottomessi culturalmente o mutare quella credenza antica, che parificava il sole e la luna.

Quello che avviene al giorno d’oggi è inconcepibile blasfemo e ineducato, non da forestieri senza scrupoli, ma dagli attivisti locali, che preferiscono estranei a casa nostra per approdarvi e spiegare come si terminano i quadrupedi, come si allevano e si rappresentano le consuetudini più antiche del vecchio continente europeo.

Questa candelora è il tempo adeguato a cambiare e, quanti non lo faranno dovranno a breve dare spiegazioni per non ardere con la luce che fanno le fiamme dell’inferno e magari scambiandole con la luce del sole e della luna della stagione che fa germogli, fioritura e frutti genuini per tutti i generi e senza distinzione alcuna.

Il Sole e la Luna sono spesso considerati simboli potenti con significati profondi, che variano leggermente tra le diverse tradizioni e culture dei Balcani. Tuttavia, ci sono alcuni temi comuni che emergono.

Il Sole è generalmente visto come un simbolo di vita, energia e vitalità, associato alla luce, al calore e alla crescita, elementi necessari per il benessere e la prosperità.

In molte tradizioni è anche visto come una divinità o una forza divina che protegge le persone e rappresenta anche il ciclo della vita, poiché, con la sua ascesa e il suo tramonto, simboleggia la nascita, la crescita, la maturità e la morte.

Esso è spesso legato alla fertilità, sia quella agricola che quella umana, e viene invocato per portare buon raccolto e prosperità nelle famiglie.

La Luna, al contrario, è un simbolo di cambiamento e mistero, legata alle fasi della vita, incarna la dualità, rappresentando l’oscurità, la morte.

E spesso associata al femminile, alla fertilità e alla spiritualità, vista come una figura che governa l’emotività, l’intuizione e i sogni, legata alle divinità o figure femminili che proteggevano la casa e la famiglia.

Connessa con il soprannaturale e il misterioso, spesso legata a leggende di creature mitologiche, come le streghe o i lupi mannari, che si attivano durante la sua piena fase.

Il Sole e la Luna rappresentano un equilibrio di forze complementari, una dualità che permea la natura e la vita quotidiana, con il Sole che porta forza e chiarezza e la Luna che governa il cambiamento e la dimensione spirituale.

Sì, nel contesto delle tradizioni sono interpretati come simboli che si riflettono nelle differenze tra cristianità (in particolare il cristianesimo occidentale) e ortodossia (che prevale nei domini orientali).

Sebbene il simbolismo del Sole e della Luna non sia direttamente legato a queste due religioni in modo esplicito, esistono delle interpretazioni simboliche che possono essere collegate a queste tradizioni religiose.

Il Sole comunque viene associato alla luce divina e alla Verità di Cristo, che “illumina” il cammino dei credenti e, rappresenta la rivelazione divina o la presenza di Dio nel mondo.

Nella cristianità occidentale, può essere inteso come simbolo di Cristo stesso, con il suo potere di illuminare l’umanità e di purificare attraverso la luce, connesso con l’Eucaristia e la Pasqua, che celebrano la resurrezione e la vittoria sulla morte, portando “luce” nelle tenebre della morte e del peccato.

Di contro la Luna, con il suo ciclo di fasi, va intesa secondo la relazione con la fede ortodossa e alla liturgia, celebrando molte festività secondo il calendario lunare, che segue il ciclo di questa, come nel caso della Pasqua ortodossa, che viene celebrata in una data diversa rispetto a quella cattolica a causa della differenza nei calcoli basati sul ciclo lunare.

Rappresentando per questo la misteriosità e la spiritualità del mondo visibile, può simboleggiare il legame tra l’umanità e il divino nella tradizione ortodossa, che è spesso più mistica e sottile rispetto alla cristianità occidentale.

La spiritualità ortodossa tende ad essere percepita come più legata al mistero, al silenzio, alla preghiera interiore, e alla venerazione dei santi e delle icone, che possono essere in qualche modo legati a questa simbologia lunare di ciclo e trasformazione.

Quindi, in un contesto metaforico, il Sole potrebbe rappresentare la chiara e radiosa presenza di Cristo nel cristianesimo cattolico, mentre la Luna, con le sue fasi e il suo cambiamento, potrebbe essere vista come un simbolo della profondità mistica e rituale della tradizione ortodossa. Naturalmente, queste sono letture simboliche che si sovrappongono a concetti più ampi di fede e spiritualità.

Sì, il concetto di dualismo tra il sole e la luna può essere interpretato come un simbolo che rappresenta opposti complementari in diverse tradizioni, comprese quelle cristiana e musulmana, anche se il loro significato specifico varia nelle due religioni.

Nel cristianesimo, il dualismo spesso si manifesta attraverso concetti come la luce e le tenebre, dove il sole può simboleggiare la presenza di Dio, la verità e la salvezza, mentre la luna può essere vista come simbolo di riflessione, rivelazione e mistero. La luce solare potrebbe rappresentare la manifestazione divina, mentre la luna, che riflette la luce del sole, potrebbe essere un simbolo di rivelazione indiretta o della Chiesa che porta la luce di Cristo nel mondo.

Nel mondo musulmano, la luna ha un ruolo simbolico molto forte. La luna nuova segna l’inizio del mese nel calendario islamico, e la luna crescente è spesso associata con l’Islam stesso. Il sole e la luna possono rappresentare anche la divisione tra il mondo materiale e quello spirituale. In alcuni commentari coranici, la luna e il sole sono visti come segni della grandezza di Dio, con il sole che rappresenta la Sua luce diretta e la luna che funge da guida riflessa.

In entrambe le religioni, quindi, questi corpi celesti, pur non essendo simboli esclusivi di un dualismo assoluto, giocano un ruolo importante nel descrivere la relazione tra il divino e l’umano, tra la luce e le tenebre, tra la verità e la riflessione.

La luna crescente è un simbolo comunemente associato all’Islam, anche se non è direttamente presente nel Corano, anche se il simbolo è stato adottato da molte nazioni musulmane e usato come emblema durante l’Impero Ottomano, e da lì si è diffuso in molte culture.

Tuttavia, è importante notare che la luna crescente non ha un valore religioso come lo potrebbe avere, per esempio, la croce per i cristiani.

Infatti essa è più un simbolo culturale, che rappresenta l’Islam in un contesto storico e politico, adottato in bandiere di paesi musulmani, come la Turchia, la Tunisia, e il Pakistan, la luna crescente appare accanto a una stella, ma il suo significato è spesso interpretato come un simbolo di rinnovamento, di speranza, o di orientamento.

Dal punto di vista religioso, la luna ha un’importanza pratica, poiché il calendario islamico è lunare, con i mesi che iniziano con la nuova luna, e anche il Ramadan e altre festività sono basati sul ciclo lunare.

Ma il simbolo della luna crescente comunemente non è strettamente una rappresentazione della divinità di Allah o di un concetto teologico specifico; piuttosto, è un simbolo che ha acquisito significato attraverso la tradizione e la storia.

In sintesi, sì, la luna crescente è un simbolo fortemente associato all’Islam, ma la sua connessione è più culturale e storica che teologica.

Tuttavia e in ragione di ciò resta un dato, ovvero, in alcune altre regioni storiche, esistano tradizioni di patti giurati “al cospetto del sole e della luna” e affonda le sue radici in pratiche ancestrali che mescolano elementi di religioni pre-islamiche, come quelle pagane, con influenze delle tradizioni monoteistiche successive.

Infatti sono numerose le etnie che usano sigillare, il giuramento davanti al sole e alla luna, divenendo così atto simbolico che richiamava la sacralità di questi corpi celesti.

L’idea di giurare “al cospetto” di elementi naturali così potenti come il sole e la luna assume un significato profondo, poiché questi erano visti come testimoni divini o forze naturali incontestabili, in grado di garantire la veridicità del giuramento.

Questa pratica affonda le radici in antiche credenze politeistiche, in cui il sole e la luna erano divinità o entità di grande importanza. Anche in alcune tradizioni islamiche popolari nei Balcani, l’idea di giurare davanti a simboli come il sole e la luna potrebbe essere stata mantenuta come parte del folklore, pur non avendo una base teologica ufficiale nell’Islam. È un caso in cui la religione e le tradizioni locali si mescolano, e le pratiche pre-esistenti vengono adattate a nuove credenze religiose.

Questi patti giurati al sole e alla luna potrebbero essere interpretati come simboli di un impegno forte e irreversibile, in cui la forza universale di questi corpi celesti diventa una sorta di garante del patto stesso.

Quindi, anche se non fanno parte delle tradizioni formali dell’Islam o del cristianesimo, sono un esempio di come credenze popolari e simboli naturali vengano utilizzati per conferire valore e sacralità agli impegni e alle promesse.

È una pratica che si inserisce in una lunga tradizione di “giuramenti naturali”, nei quali elementi come la terra, il cielo, l’acqua, il fuoco e altri aspetti della natura venivano invocati come testimoni di impegni solenni.

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ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

ALL’IŞKI, ALL’IŞKI, ALL’IŞKI (ezëni e mbëjidani thë Isketë)

Posted on 02 febbraio 2025 by admin

Leopardi

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Questo era il grido di minoranza rivolto a quanti gestivano maggioranza in “Terre di Sofia” e, spesso sentivo inneggiarlo a gran voce, la mattina quando andavo a scuola, nei Bar di pomeriggio, la sera nelle Cantine e quando andavo a tagliare i capelli dal Barbiere, ai tempi in cui, vivevo studiavo e ascoltavo il parlato arbëreşë in rispettoso e costruttivo progredire.

Questo era un grido che voleva sottolineare, l’appartenenza indigena di una parte del sistema Katundë, la stessa che non prediligeva l’integrazione, perché provenienti da terre limitrofe e ben distinte dall’agro genuino, che aveva nonostante tutto contribuito non da poco e reso praticabile un terreno umido impraticabile e desolante, colmo di reflui fluviali da bonificare.

E per ottenere riconoscenza di gli abitanti di Terra, dovettero rivolgersi a cassa sacra, per averne merito di proprietà, diversamente da quanti li vivevano e, non si erano mai dati da fare per essere parte attiva del sociale del centro abitato a loro limitrofo nel temine lungo lo scorrere del torrente denominato “votetë”.

Quindi ultimi senza alcun sentimento pronto a fare fratellanza e integrazione con gli Arbëreşë, che li avevano sempre aiutati a migliorare sé stessi e le pertinenze dell’ISKI, storicamente malsana, oggi come allora.

Tuttavia quello che più prevale sono le falsità di quanti affermano pubblicamente che l’essere riuscito ad emergere dalla massa, solo per tagli e titoli di, “bocconcini”, ottenuti non si sa come e , questo risveglia, memorie e sentimenti di quell’epoca incancellabile per la formazione di non poche generazioni.

Specie se questa frase viene elevata dai piccoli discendenti, oggi diventata adulti, ma rimasta sempre avvolti in quella nebbia antica che caratterizzava quel pianoro dove palesare presenza, usavano battere i piedi o far sentire il riecheggiare sull’incudine dei djganë da stagnare, unica risorsa di genio del fabbro o artigiano mancato.

Gli stessi discendenti che oggi boicottano ogni iniziativa, che potrebbe fornire strumenti o teoremi fondamentali per la crescita in ogni fronte del vituperato Katundë, che per loro e grazie a loro vive in pena irrecuperabile.

Tuttavia se a queste affermazioni, elevati dove i quadrupedi venivano terminati, sono emozione di ignari, che si esaltano per aver conosciuto “l’antropologo menzognero”, che non sapeva né parlare e né ascoltare in Arbëreşë, è una pena che denota lo stato in cui si vorrebbe valorizzare la regione storica diffusa e sostenuta da chi parla e sa ascoltare questo idioma.

Certo che salire sulla madia dove si terminano i maiali tra gennaio e febbraio affermando che la riuscita di un progetto locale è avvenuto per esclusiva solidarietà e delle capacità paterna, lì in quel luogo nata per dare pena a suini bovini e ovini è un controsenso, specie dove i neri erano scartati per la qualità della carne, considerata infetta, lurida e di aroma insano.

Tutto quanto il dire, diventa un’offesa verso quanti si adoperano con metodo e confronto per la valorizzazione delle cose Arbëreşë, dato lo stato e la capacità di istituti, istituzioni e libere figure che si alternano nei palcoscenici di insani mattatoi culturali, in tutto un insieme di attori incoscienti; i diretti discendenti che vollero quel “genere sparso prematuramente insanguinato”, la giornata del termine storico: ovvero il 28 febbraio del 1985.

Ciò che si vuole sottolineare in questo breve contributo di memoria locale, è la miscellanea di conoscenza che nello stesso individuo possono attivarsi nei processi involutivi, tipici dell’età giovanile e, coesistere la mutazione, dello sviluppo.

In altre parole, la plasticità negativa a ogni età, senza mai raggiungere la più idonea o passibile maturazione celebrale in verso, agio o direzione costruttiva.

Oggi, nel momento in cui si è compreso, con stati di fatto, che il cervello potrebbe offrire potenziali opportunità di cambiamento a qualsiasi età, assume significativo valore l’immaginare progetti per interventi mirati a favore cognitivo dei su citati generi, che allo stato vagano le foreste della cultura come pirati pronti all’arrembaggio.

Allo scopo serve uno strutturato per produrre Modificabilità Cognitiva Strutturale, specie nell’età di sviluppo e, per queste figure servirebbe avvicinarle come si fa con il gregge e, sottoporli senza rimando alcuno alle prove di ’”Arricchimento Strumentale specie chi non ha la fortuna di nasce strutturato di ascolto e parlato Arbëreşë “.

Allo stato delle cose tutto si potrebbe configurare come percorso di recupero per ogni frammento cognitivo, specie quando si diventa adulto e si vuole dimostrare di esserlo.

Questa estensione del Programma di Arricchimento Strumentale (PAS) è strutturato come un training specifico è finalizzato al recupero delle funzioni cognitive e, di tutto quello che circonda un individuo nel corso del suo sviluppo dall’età infantile sino a quella adulta.

Dimostrando che la plasticità cerebrale è presente anche nelle figure meno inclini, che non si devono mai abbandonare al libero pascolo, in tutto, il ciclo di vita dei generi, specie, quelli meno dotati di tutto.

Questo comunque implica la responsabilità di progettare e realizzare interventi significativi ed efficaci, gli stessi che oggi restano o meglio sono, realtà documentata da una forte letteratura e capacità organizzativa.

A tal fine valgano i numerosi giardini botanici, presenti sino agli anni settanta del secolo scorso e ancora presenti in altra forma, ma disanimati di essenze, i quali andrebbero, rigenerati per poter aprire una nuova stagione curativa della nota medicina empirica Salernitana, rivolta a quanti avanzano evidente Modificabilità Strutturale e Cognitiva, la più diffusa nei circuiti della minoranza Arbëreşë.

Il giardino assume così una duplice funzione: ovvero essere un luogo dove iniziare a sviluppare sensibilità celebrale e in oltre radicare i semi di erbe curative antiche, le stesse che nel mondo greco radicato in quello persiano e quello egiziano e arabo iniziarono a fare Farmacia Naturale.

Il giardino ricostruiva l’immagine dell’Universo, motivo per il quale questi spazi erano anche definiti «Giardini paradiso».

Essi infatti dall’agro e sino al centro antico, fornivano alla mente un immaginario di folti boschi, popolati da una fauna diversificata, come se sorgessero nel deserto, ma irrigati da acqua portata li dai noti lavinai naturali, appositamente addomesticati o indirizzati.

Il giardino o hortus diversificavano le coltivate arare con spazio decorativo e, accogliere quanti avevano urgenza di Modificabilità Strutturale e Cognitiva, indicati al plurale col termine di Orti proprio per la quantità di addetti da sostenere.

In essi la fauna era creata per mezzo dell’elemento decorativo, con l’ausilio di piante tagliate ad arte e dalle forme degli animali, sino a disegnare scene di caccia e, risvegliare antichi istinti a quel genere che cerebralmente e fisicamente oziava.

Le principali caratteristiche dell’assetto architettonico del giardino botanico non contemplava alcuna murazione se non Gardj, (Recinto in elementi naturali intrecciati) che non impedivano in alcun modo, il variare o delimitare la prospettiva di bosco libero ed esenziale.

Internamente, lo spazio era riempito da arbusti posizionati a distanza dagli alberi da frutta, mentre la risorsa di acqua era disposta fuori da recinto.

L’arte figurativa assumeva così un valore pedagogico dei sottoposti a cura ambientale un tramite anche per l’arte negli spazi a ridosso di edifici, che non dovevano impedire in alcun modo la prospettiva profonda anzi contribuendo a sostenerla.

Gli spazi verdi erano e, rivestivano un tempo il valore simbolico: e iniziarono ad essere modellati per risvegliare le capacità cognitive degli infermi, grazie alla similitudine che si riuscivano a estrapolare dalle più svariate figure zoologiche.

La scelta di trasformare uno spazio aperto in un’area verde deve sempre ricadere sulla posizione panoramica di cui era investito lo stesso giardino.

Suddiviso in un’area razionale, tramite terrazze era arricchito con l’inserimento dei pergolati e orti stagionali i cui concimi derivavano dai cibi delle tavole quando si terminava di pranzare.

Le piante utilizzate per l’abbellimento dei giardini, miravano a rappresentare ambienti con verdure e piante botaniche e non, diviso in aree omogenee introducendo nello spazio circoscritto i valori sociali, arborei e medicali.

La presenza degli elementi naturalistici diverrà forma allegorica, nelle decorazioni dei prodotti delle arti minori, ma questa è un’altra storia, quello che qui si vuole sottolineare è lo stato in cui si sostiene la Iunctura familiare odierna, fatta di esaltazione, protagonismo e filiere a dir poco inopportune.

Specie per quanto attinenti ai valori di sostenibilità storica, di idioma consuetudinari e i legami che reggevano la credenza e la via breve e stretta tra casa e chiesa.

Questi elementi primari erano poi la conseguenza della credenza che reggeva il percorso di crescita, sociale; la stessa che univa indissolubilmente, il Camino della casa, ovvero, dove iniziava ogni favola; Gjitonia dove avevano sviluppo e luogo i cinque sensi governati dalle donne e l’agro produttivo condotto e diretto dal senato degli uomini, che chiudevano e solidarizzavano il giardino delle meraviglie Arbëreşë.

Tuttavia vale il principio secondo cui: partecipare non è tutto, ma essere esclusi a priori in ogni manifestazione non è certo un gesto di nubilato culturale; anche se proviene dalla categoria degli “iskitati”.

In questi giorni, si festeggia “Candelora” un evento di rinnovamento dell’estate, che avanza per sovrastare il buio dell’inverno, questo è anche un invito per quanti si ostinano a promuovere eventi culturali immaneggiabili.

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RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO  INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

RADICANZA ARBËREŞË DI CONFINO INCHIESTA DI FORMAZIONE PER TUTTI GLI ADULTI RIMASTI E DIMENTICANO IL LOCALISTA (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) (l’Olivetaro Arbëreşë)

Posted on 28 gennaio 2025 by admin

ARberia

Dal diciotto di gennai del 1977 la distanza che ha visto espandere la “Radicanza di cuore tra Terra di Sofia e Napoli”, mantenendo solide pulsazioni di luogo nel confino a 228 chilometro, pari a 141 miglia, esponendosi nel tempo sino a 230 chilometri paria a144 miglia, nel circoscritto della città di Napoli.

Da quel giorno senza mai smettere di studiare e fare memoria di tutelare, nel prodigarsi per diventare portatore sano di fatti della storia avuto luogo in Terra di Sofia equiparati, in seguito ai cento e più centri antichi di simili origini e diventata la missione della Radicanza senza soluzione di continuità.

Il luogo emblematico dove tutto ebbe inizio, è il Giardino che un tempo fu Orto Botanico dei Bugliari di sotto, quando Vescovo era il figlio di Anna Maria Pizzi.

A Napoli cosi ogni cosa lasciata nella Radicanza in Terra di Sofia, divenne misura e studio in: Sedil Capuano, poi dopo il terremoto del 1980, in Via Leopardi e, dopo il termine di febbrai del 1985 lungo la Via del Sole e della Luna, per poi approdare nella storica Salita della Sapienza, li dive era il noto giardino botanico civile, dell’antica Capo Napoli; e in fine oggi, accanto alla fratria un tempo frequentata da Pasquale Baffi.

Tornare oggi nel luogo natio, si dovrebbero allestire, per lungo tempo, fuochi di candelora per fare cenere di tutti gli editi, favole e ogni sorta di compilazione, esclusi il “Discorso degli Arbëreşë del 1776 di Baffi e le vicende che rinforzarono i valori Arbëreşë con i fratelli Giura e il Torelli”.

Tutto il resto andrebbe distrutto e , reso cenere, cosi come i riversi allestiti e riverberati, dalle pecore al pascolo, nel promontorio tra il Surdo e il Settimo dagli anni settanta del secolo scorso, da un pastore senza titolo.

Allo scopo, non bisogna distrarsi e perdere misura, degli errori e le malefatte nel corso dei trascorsi del Corsini, quando era in Sant’Adriano, a iniziare dalla pena inflitta al primo Vescovo Francesco, alle lacrime del secondo Bugliari, che lo dismise per pena infinita.

Una delle prime azioni posta in essere una volta a Napoli è stato di reperire tutti gli atti che del centro di Sofia che risultavano essere conservati nell’archivio di Napoli e, poi nel corso dell’esperienza universitaria, confrontare e lette con l’ausilio di docenti eccelsi, ed ecco che carte, fotografate e amaramente pagate divennero la guida, o meglio la cometa da seguire.

Nel corso del 1983, la ormai certezza del titolo accademico, quasi acquisito, diede spazio alla volontà di tornare nel luogo natio e fare famiglia, ma le istituzioni tutte, pubbliche clericali e germaniche, dirsi voglia, fecero tanto male di termine il 28 febbraio del 1985, che nell’aprile dello stesso anno, rifiorì la volontà di “Radicanza senza più termine”.

Inizia adesso un solido percorso di formazione nel loco di Napoli noto come la Salita della Sapienza, e non a caso, dopo numerose esperienze lavorative con istituti, istituzioni e docenti che hanno preteso che dovessi ritenermi un loro pari con titolo.

La Radicanza nel frattempo aveva germogliato e dato frutti molto genuini, con misura Solanizzata e, quel titolo accademico che sino ad allora era stato lasciato nel cassetto, perché ritenevo non più utile da conseguire, risveglio la promessa data che non poteva avere patto chiuso.

Ma i continui spasmi di quanti non immaginavano senza titolo “l’Olivetaro Arbëreşë”, fecero tanto per far ritornare sui suoi passi e, sostenere quell’esame mancante, nella primavera del 1984, per conseguire il titolo di laurea, il giorno prima dei suoi primi cinque decenni di memoria storica, studio compilativo e, di analisi inarrivabile per ogni pascolante o pascolatore, nel promontorio che circoscritto dal Surdo e dal Settimo.

Se sino al giorno del titolo di laurea, la Calabria, la Campania, l’Abruzzo il Molise e la Puglia erano stati luoghi di rilievo, ricerca e progetto, dopo la data, del venti di ottobre del 2004, la Radicanza ebbe a dare frutti a dismisura, a  Potenza, Roma Firenze, Valentia e in numerose Università d’Europa dove l’esperienza applicata alla valorizzazione della Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, trovò nuovi solchi dove germogliare frutti sino ad alloro sconosciuti o comunemente trattati.

Nascono così le Inchieste di Servizio e Formazione per gli Adulti, questi ultimi rimasti attaccati ancora alle antiche derive culturali poste in essere da non formati senza alcuna preparazione dell’ascolto e del parlare Arbëreşë scambiato per Albanese moderno.

Sono da ciò indagati centri i antichi e come essi si siano sviluppati, quali sono gli adeguati sostantivi per identificarli e quale percorso storico vernacolare abbiano seguito per restituirci gli storici odierni.

È stata identificata la valenza storica di che unisce Casa, Gjitonie e Cunei della produzione della trasformazione, Agro Silvicola e Pastorale, mai posta in analisi sino agli studi posti in essere dall’Olivetaro Arbëreşë, se non per fenomeni marginali che non potevano suggerire la leva del sostentamento.

Sono stati descritti i costumi e il valore sociale di tutti i costumi delle Oltre venti macro aree che compongono la Regione Storica, Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë.

Lo studio poi è stato interamente riversato nelle vicende delocativa del 2009, ottenendo attenzione da alte istituzioni e politici oltre della reggenza del sistema che si occupa della prevenzione, gestione a situazioni di emergenza.

Questa ultima in particolare dal 2014, a fine delle udienze si è astenuta dal proporre ancora modelli di ricostruzione per quanti subiscono calamità o sono colpiti da eventi sismici.

Va in oltre sottolineato che si aggiungono a tutto questo, studi mirati di numerose macro aree che sino ad oggi non conoscevano il senso della Iunctura urbana, fatta di elementi ripetitivi, costruiti e sociali, che solo chi ha studiato al fianco di eccellenze della storia, della geologia, della psichiatria e valorizzazione del territorio in quanto ambiente naturale, dell’antropologia saggia, senza dimenticare i grandi maestri dell’architettura, dell’urbanistica, della storia e del buon vicinato giovanile, che hanno saputo seminare bene.

Il rilievo, ricerca e progetto di edifici storici tutelati da rendere funzionali, ha fatto sì che la formazione venisse a consolidarsi al punto tale che sin anche la presa visione dell’analisi grano metrica, di murature o elevati crollati e spogliati delle intonacature, comparati in loco con eventi tellurici della storia, comparati al vernacolare del bisogno, diano certezza storica, di temo luogo e uomini.

Gli studi condotti a Napoli nel loco denominato Salita della Sapienza con la perfetta pronunzia dei vocaboli fondamentali, di una Lingua che non ha poesie o forme scritto grafiche, come definita dai fratelli Grimm.

In tutto una lingua che fonda il suo essenziale e ristretto uso orale, secondo una grammatica di pronunzia fondamentale, che non vanno oltre la definizione del corpo umano dei due generi e, gli elementi naturali ad esso prossimi o stellari, gli stessi che contribuiscono al suo progredire e rigenerarsi.

In tutto una Lingua razionale, che per essere tramandata, fa uso della canzone e delle movenze del corpo, al fine di fissare memoria da tramandare.

La lingua Arbëreşë non conosce la scrittura, non conosce libri né lavagne o terreno verticale dove disegnare o tracciare alfabeti.

Nessuno di noi ha preso fratria con questa lingua, studiando, leggendo o traducendo vocaboli in arbëreşë, a cui è affiancata una parola italiana, questa lingua prima diventa pensiero e poi diventa pronunzia e, mai succederà in alcun luogo che un pensiero italiano possa essere pronunziato in Arbëreşë, in quanto non avrebbe né senso e né valore.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Come la lunga essenziale, anche per l’Olivetaro Arbëreşë valgono le stagioni: la Lunga, l’Estate; e la Corta, l’Inverno.

Entrambe distribuite secondo il teorema che vuole la lunga espressione di semina, fioritura e frutto, che confina con la corta in casa, davanti al camino, a tramandare consuetudini e formare generazioni e maturare cose per sostenersi.

L’arbëreşë non si ricorda nel giorno o nei tempi corti della pena, ma per tutto l’anno e per sempre, perché questa è una libertà che non va imprigionata per poi essere liberata dopo concentramenti che non trovano agio e accoglienza.

Sino a quando gli organi decisionali dirsi voglia, si orienteranno nel non accogliere l’Olivetaro Arbëreşë o figura in grado di rispondere sulla secolare tradizione, indispensabile a dare resilienza a, “un Katundë o Contrada”, si continuerà a riverberare ricerca storica, con le numerose figure mitiche degli scribi e, siccome gli arbëreshë, sono una minoranza radicata nella sola forma orale a voi la conclusione del tema in analisi.

È indubbio che si possano innescare, scelte progettuali inadeguate, come ad esempio, scambiare la Gjitonia, con il vicinato o addirittura con un Quartiere, e ancor peggio un Katundë rinascimentale per un Borgo medioevale

A tal Fine è spontaneo chiedersi a questo punto, se si esegue prima il rilievo e l’indagine storica dello stato dei luoghi e dei moduli abitativi, ovvero gli Sheshi denominati, Kishia, Bregu Kaliva, e dell’insieme toponomastico ereditato oralmente dei sistemi aggregativi sia articolate e di quello più recenti lineari.

Così anche per i sistemi viari, riportati con patire storico  circolare riferito in forma e costume d’inferno Dantesco.

Questi esempi, assieme ad altri secondari, per questo non meno rilevanti, confermano quanto sia sottovalutato il modello arbëreshë.

Tuttavia un’analisi conoscitiva e di confronto di quanto messo a dimora in località Katun o Kontrada specifica, indicherebbe che studi mirati sino ad oggi, alcun istituto ha condotto escludendo l’Olivetaro Arbëreşë in ambiti mediterranei, scambiando le dinamiche urbanistiche e architettoniche arbëreshë, stravolgendone completamente lo scenario delle volumetrie rinascimentali e dei tempi che seguirono.

È bene rilevare che un paese minoritario non è soltanto affare meramente politico, ma è anche affare volto al patrimonio immateriale radicato nell’idioma degli arbëreshë che non sono mai stati il vero obiettivo da salvaguardia nelle discipline dei dieci comandamenti; Architettonica, Urbanistica, Antropologica, Geologica, Psichiatrica, Storca, Idiomatica, Sociale, Religiosa e della solida Consuetudine, rimaste tutte e sempre ignote.

 

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COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

Posted on 26 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La gestione dei centri storici Arbëreşë, come quello di tutti i piccoli agglomerati urbani collinari, non identificabili come borghi, secondo le analisi di antropologi, linguisti, urbanisti, e istituzioni variegate, sono la non saggia espressione significativa dello stato attuale in cui vaga, la cultura degli adulti, ma è anche un esempio di come non si debba agire in tutte quelle nicchie culturali, che non sono allocate nei pressi di industrie, dove nulla di sostenibile hanno avuto alcun germoglio.

Con questo studio si vuole evidenziare previ esami specifici, uno dei problemi meridionali e, in dettaglio, cosa abbia spento i cunei agrari della produzione crescita e trasformazione, raramente tema dai su citati analisti che ritenevano fosse mero urgenza abitativa.

E i su indicati argomenti ogni volta che sono stati temi, di congressi o pubblicazioni, i contributi più interessanti sono venuti generalmente da organismi, con mira sociale di un ben identificato luogo abitativo da valorizzare.

Le massime istituzioni preposte di luogo, hanno finora praticamente ignorato l’argomento, salvo che per studi come quanto qui trattato sulla distribuzione della popolazione della regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë; valgano di esempio le eccellenze dei cunei agro silvo pastorale dell’antichità seicentesca, dove restano stese al sole le pene incompiute, in forma radicale, specie dalle istituzioni che hanno sempre sperato di edulcorare l’argomento, con il semplice diktat “Fare Katundë con le Gjitonie tralasciando le cose relative all’agro”.

Siamo perennemente, di fronte a scritti e contributi di studiosi che possono essere qualificati solo in senso estremamente lato, senza mai unire le risorse umane dei luoghi dal punto di vista del bisogno vernacolare più ampio e, le risorse messe in campo dalla natura.

Viene allora spontaneo chiedersi: di che cosa si occupano i professionisti delegati dalle istituzioni, dal momento che non gli interessi il maggiore dei nostri problemi, quello che condiziona tutta la vita sociale, economica e politica, a partire dal cento antico e, poi riverberandosi lungo i cunei agrari della produzione, germogliando economia e produzione sostenibile.

È senz’altro un sintomo assai interessante, è racchiuso nella più semplice risposta, infatti, mentre il trittico di specialisti coadiuvati da istituti locali, che non sentono l’esigenza di una questione che dia unità, scambiata come un piede deforme al posto di un organico e omogeneo sviluppo del Katundë, mentre, i cui sopra, non ne hanno ancora afferrato l’importanza, e soprattutto la drammaticità nel momento attuale, rimanendo imperterriti a formalismi ambientali o linguistici, visto che trattano l’argomento di minoranze, con forti dubbi di autentica analisi economica e sociale.

Il tutto viene inteso come problema marginale, visti secondo gli schemi astratti di una indiscriminata applicazione di uno “standard” culturalmente prefabbricato per altri luoghi e, sempre meno radicato alla dipendenza del territorio, più incline all’industria moderna, che spera nel sole e nel vento, quale risorsa energetica e non di indirizzamento dell’agio agro, silvico e pastorale.

Gran parte delle attenzioni, infatti, sembrano concentrate sul piano regolatore urbano e, la pianificazione regionale; vista esclusivamente da una ampia prospettiva di una maglia di accreditamento, sia come espansione del territorio (decentramento urbano) sia come espansione di rapporti comuni(zona unitarie di ambientali equipollenti).

Prevalgono così, nei piani regolatori esigenze di una civiltà industrializzata, anche in questi ambiti l’industria ha evitato di transitare o fare sosta per fatica inutile, neanche con minimali misure, creando  ulteriori accadimenti senza controllo e, formalmente, il malinteso entusiasmo fa aprire il Mezzogiorno una inesauribile “architettura solitaria che imita, senza speranza, le prospettive naturali” e con essa ogni speranza di insediare attività o filiere corte e specifiche di un determinato ambiente naturale, con specifiche produttive irripetibili.

E così nei vari Katundë, villaggi o centri storici recentemente manomessi o svuotati, possiamo trovare, accanto all’influenza di ricreare un “ambiente” che formalmente assomigli all’ambiente delle città metropolitane, ma che inizia e termina nel circoscritto fatto per dormire vegetando.

Da qui nascono le entusiastiche prose elogiative del colore, le rappresentazioni schematiche di vita, le prospettive equipollenti, la cancellazione dei veicolare anfratti, dove si svolgeva la vita all’aperto, e la scuola della consuetudine antica, non trova luogo per formare chi dovrebbe essere parte attiva di una filiera che si riverberava da camino di casa sino dove erano i germogli e le attività agroalimentare senza eguali.

Quando parliamo di Gjitonia in genere fermiamo il discorso nei circoscritti ambiti ameni in memoria della nostra giovinezza, senza avere alcuna consapevolezza del valore iniziatico del lavoro che in questi ambiti nasceva per riverberarsi, sino alla destinazione più recondita dei cunei agrari della produzione solanesca.

Queste osservazioni preliminari sono necessarie, per introdurci ad un breve esame dei comuni piani regolatori che hanno invaso i centri di radice Arbëreşë, i più significativi e interessanti saggi mai resi noti dello stato attuale della cultura, che raccontano gli atteggiamenti meridionali, tra i più vulnerabili, perché consuetudine conservata nel cuore e nella mente del governo delle donne meridionali.

Infatti troviamo nel decentramento suburbani, i contadini che non vivono la Gjitonia, forma fondamentale per allevare nuove generazioni, in tutto che rappresenta il ricambio continuo della stessa e identica attività, una filiera breve che nasce nella proto industria intorno al camino, dove le donne, panificavano e producevano insaccati e derivati della filiera di suini e dei bovini, oltre alla selezione di sorta o esperimenti conserviero alimentare di filiera casalinga.

Il camino della casa il forno comune della Gjitonia, rappresentano la proto industria che attendeva, nei vicoli e nei recinti propri, i prodotti della produzione che poi diventavano sostentamento per l’intera società circostante.

Il cui obiettivo di vita doveva essere infinitamente parallelo alle vecchie abitazioni, secondo cui è lecito chiedersi, quale nuova vita potranno impostarsi e su quale attività rinnovate per sostenere questa storica filiera fatta dal governo delle donne e degli uomini sempre in sintonia tra casa e agro diffuso che la natura qui poneva in essere.

Salvo questo esempio di decentramento, e l’altro di trasferimento delle attività nell’agro, ogni cosa  fatta dal nuovo trittico di specialisti, appena abbozzato; né è possibile vedervi la ricerca di una evoluzione per un problema esemplare riassuntiva di tutta la situazione meridionale, unitaria e praticamente spaccata in due, ma che respirano, e vivono fianco a fianco, gli uni alle spalle degli altri, ignorandosi, ma a ben vedere sono cerchi che nascono dallo stesso centro che poi li richiama e li sostiene

Negli odierni paini regolatori, perciò è possibile scorgere soltanto l’applicazione di alcuni schemi astratti, buoni forse per altri luoghi, ma non certo per questi centri che sono stati capitale di contadini e allevatori.

Sono numerosi i casi dove si possono riconoscere le manchevolezze, sottolineate dal fenomeno della fretta demagogica, e nell’impreparazione dei preposti: e noi siamo infatti certi che l’impostazione politica abbiamo un’importanza fondamentale per l’efficienza di un’opera urbanistica che parte dal centro e descrive un’ansa circolare sostenibile.

Ma, nel caso che stiamo esaminando, fino a qual punto le manchevolezze che si riscontreranno nel tempo, come la trasformeranno i nuovi quartieri creati per i cittadini sotto la spinta e l’esigenza della prepotente vitalità o fretta dei politici, e quanto invece dalla mancanza di una preparazione specifica di tutta la cultura urbanistica “ufficiale”, ad affrontare, i problemi concentrici del Sud, non di un meccanico decentramento urbano, ma della saldatura della campagna alla Gjitonia, della liberazione delle campagne, per trasformare nei suoi rapporti sociali, e non soltanto con un cambiamento di casa, un contadino e un cittadino, con uguali possibilità.

Per queste ragioni un piano che regoli e dia forza a ogni cosa va attuato nelle parti che richiedono un intervento dall’alto; non radicato nella situazione meridionale, senza la partecipazione della popolazione da cui è praticamente ignorato, il programma Gjitonia esaurendo le risorse in un’ennesima collezione di lavori pubblici, da fotografare per i manifesti murali.

Anziché elevarsi a strumento cosciente di una nuova vita, che risolve le ansie dei cittadini, i quali non devono solo avere un tetto per la notte, ma anche l’incarico di non avere nulla da fare durante tutto il giorno.

Questo è la peggiore deriva che l’urbanista, segue quando non si rende neanche conto del fallimento di un vero Piano Regolatore.

E l’ostacolo maggiore ad una inefficiente pianificazione è appunto questa volontà di separare le attività che legano la casa La Gjitonia o Vicinato e le attività di scuola dell’agro che attende ancora oggi uomini formati e prescelti, non intesi come docili strumenti o forze negative deboli, ma risorsa unica strumenti per nuove rinnovare innescare processi produttivi e valorizzare territorio natura e la salute degli uomini.

E cioè impostare anzitutto per una coscienza politica in grado di leggere capire e promuovere la partecipazione collettiva della popolazione.

Il Piano casa Gjitonia e agro, avvenire, se si conoscono le cose eccellenti del territorio che compone il Mezzogiorno; un esempio di quel paternalismo che, con l’abituare le popolazioni meridionali a vivere nelle case riverberando processi sociali nella Gjitonia troverà gli strumenti sociali adeguati o la soluzione dei problemi, che tenta di nascondere a se stessa sotto una maschera di ottimismo, sotto il desiderio di evasione fra balconi per rompere l’isolamento feroce che lo lega alla sua vita ormai desolata e senza futuro.

Il concetto di quartiere post industriale si è allontanata dalla scala umana che non è più luogo dove si viva bene, immaginando di andare, tranquillamente al mercato senza sapere come e cosa comprare.

E intanto le strade diventano gli opprimenti pozzi della miseria, l’annullamento di ogni vitalità grava minaccioso sul villaggio divenuto città, sulla grandiosa metropoli inaspettata che non trova agio sociale attraverso una economia possibile.

Anche la macchina che l’ha costruita e la fa funzionare è imprevista, può darsi perciò che non sia solo per la sua tendenza animale, deplorevole ma ereditaria, ad affollarsi, che il cittadino è sbarcato in questo pigia urbana.

Ma ora è soltanto l’istinto animale del gregge che lo tiene unito, e senza una memoria dei suoi più grandi ed essenziali interessi di individua pensante.

Se tra il modulo abitativo e il luogo di lavoro tipico del meridione italiano non interponi la Gjitonia, tutto si perde nelle pieghe della disperazione politica dualista o sociale disorientata

I “razionalisti” si riferiscono a una corrente di pensiero che ha avuto grande influenza nell’architettura e nell’urbanistica del XX secolo, particolarmente legata ai movimenti modernisti come l’architettura funzionalista che mirava a fare una casa per tutti, ma poi come adempiere alle esigenze aconomiche non è stato mai posto rimedi se non la scuola nelle sue pieghe più politicizzate.

Tuttavia, oggi appare evidente vi fossero errori storici o critiche che sono stati mossi nei confronti di queste figure, che copiavano come far rientrare il gatto in casa o ventilare il volume senza progettare e formare o realizzare aspettative di accoglienza economica, che dimettessero in relazione con il territorio e le opportunità li in attesa.

Gli errori storici sono innumerevoli ma basta citare i temi qui di seguito illustrati:

  • Eccessivo distacco dalla tradizione e dalla cultura locale:

I razionalisti, nel loro desiderio di creare un’architettura universale, hanno spesso trascurato il legame con la cultura locale e le tradizioni del territorio, mirando esclusivamente industria che in tutti i luoghi di salvaguardia non erano e ne sono ad oggi presenti, realizzando così dormitori diffusi, che di giorno, diventano un modo moderno per delinquere in quanto luoghi di facile e comodo movimento.

Questo approccio ha portato alla costruzione di edifici che, pur essendo funzionali, talvolta risultano freddi, impersonali e disconnessi dal contesto sociale e culturale in cui avrebbero dovuto essere inseriti.

  • Semplificazione eccessiva delle forme:

I razionalisti cercavano di ridurre la forma architettonica alla sua essenza, enfatizzando la geometria e la funzionalità. Tuttavia, molti architetti e critici hanno sostenuto che questa semplificazione eccessiva ha portato a edifici che, pur essendo funzionali, risultavano privi di identità che il governo delle donne poteva innestare nelle nuove generazioni.

La ricerca della purezza formale ha talvolta sacrificato l’estetica e la bellezza, portando a edifici che sembrano privi di ogni minimale calore umano infatti mancano tutti sono sprovvisti di forni e camini domestici.

  • Negligenza del contesto urbano e sociale:

I razionalisti si concentravano principalmente sull’architettura in quanto tale, spesso senza considerare il contesto sociale o urbano, era il 1978 quando rivolsi la seguente domanda a un mio cattedratico professore: ma a che serve fare case se non si crea una filiera produttiva, queste genti a breve cosa faranno? Mi rispose dicendo mi che ero un semplice allievo e che se non avessi cambiato idea non mi sarei mai laureato; gli risposi che non avevo bisogno di una laurea per essere per fare l’architetto.    

  • Funzionalismo senza considerare la qualità della vita:

La visione razionalista enfatizzava il “funzionalismo”, ovvero l’idea che ogni elemento architettonico dovesse avere una funzione chiara e fine all’abitare.

Ignorando, in alcuni casi, il benessere psicologico e sociale degli abitanti, come nel caso delle “torri residenziali” progettate senza considerare adeguatamente gli spazi pubblici, la socialità tra i residenti e i luoghi di un eventuale lavoro di filiera corta.

Le abitazioni moderne, prive di un legame con il contesto sociale, hanno spesso creato ambienti impersonali e alienanti di odio e malessere.

  • Realizzazione di progetti irrealizzabili o difficili da mantenere:

Alcuni progetti razionalisti si sono dimostrati poco praticabili o difficili da realizzare nella realtà., dove la visione della, città completamente rinnovate, immaginava spazi per la vita non sempre tecnicamente sostenibili. L’ideale del “macchina per abitare” ha spesso trascurato le necessità quotidiane degli utenti, risultando in spazi difficili da mantenere o da adattare per dare agio alla macchina del lavoro di ogni individuo.

  • Impatto ambientale e sostenibilità:

Un altro aspetto che i razionalisti non avevano considerato in modo adeguato è stato l’impatto ambientale delle loro costruzioni.

I modernisti, pur cercando di adottare tecnologie innovative, non si preoccupavano in maniera sufficiente della sostenibilità a lungo termine degli edifici, che in moti casi dopo qualche decennio hanno terminato di essere vivibili e delle soluzioni razionaliste hanno avuto un impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità ecologica, che oggi deve correre ai ripari con spese non sostenibili.

In sintesi, sebbene il razionalismo abbia portato un contributo dell’abitare, molte delle sue realizzazioni hanno sollevato critiche che riguardano la disconnessione tra contesto sociale e, rigidità funzionale verso gli aspetti emotivi estetici ed economici che qui non sono mai stati tema di dialogo a lungo termine.

Commenti disabilitati su COSA UNISCE CASA GJITONIA E LAVORO di Atanasio Pizzi “Olivetaro”, del 1985

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË - UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA  Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

Posted on 23 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Un luogo tranquilla costruito dalla natura e sostenuto dal genere umano, dove portare sedie e fare conversazione, lavoro di cucito, ricamo e spogliature dei Solanizzati ancora da maturare, mentre i bambini giocano in sicura spensieratezza, crescendo in compagnia dei loro coetanei.

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato e non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Quei luoghi dove il genere uomo hanno tempi brevi per la sosta e le notizie di rito del governo; ecco qui esposto l’esempio di «fatti generi e cose» di un’ambiente riconducibile ai trascorsi di Gjitonia.

Il perché di questa breve è presto detto: esso rappresenta la cellula o unità elementare di convivenza organizzata, che unisce le famiglie, sfugge ad una definizione puramente urbanistica, così come ad una sociologia o antropologia pura, anzi si impenna a qualsiasi precisa teorizzazione spaziale, forse ancor più di altri organismi di maggiore complessità.

Gjitonia infatti va piuttosto interpretato come rapporto umano risultante da svariate condizioni sociali, e non come particolare circoscrizione di un intorno fisico o numerico di radice catastale.  

Preferibile dunque, anziché tentare di schematizzarlo o emularlo pubblicamente per forza di un circoscritto serve, cercare attraverso esempi vivi i caratteri che intervengono a formare questo modello di urbanistica e società di ristretti atti e attività da diffondere.

L’idea stessa di Gjitonia fa immediatamente correre il pensiero alla vita dei piccoli e dei piccolissimi centri o di quelle parti di città che meno hanno risentito i profondi mutamenti dei tempi più recenti con palazzotti razionali o unità abitative dirsi voglia.

In altre parole, sembra più facile capirsi guardando ciò che è avvenuto ed avviene in quegli insediamenti talvolta plurisecolari che ancor’oggi continuano a vivere ed a funzionare nei modi loro originari: e si può risalire tranquillamente fino al medioevo.

L’abitazione   medioevale   ignora l’esistenza   di numerosi funzioni e servizi, e non concepisce tale mancanza come un limite, perché è implicito che il soddisfacimento dei bisogni relativi nasca da una integrazione realizzata fuori dalla casa, sull’aia, sulla piazza, così come sulla strada o nel soleggiato anfratto sottovento.

Sono questi elemento che si modellano in favore della famiglia e l’anfratto, là dove il clima lo esige, si modella per il consenso degli edifici più notevoli o le fontane, i lavinai, le gradinate, che finiscono per diventare teatro dove il pubblico partecipante attivo si ritrova ad osservare e criticare ciò che avviene ai suoi piedi, avvolte soleggiati, bagnati e altre volte ventilati ad asciugare.

Il concetto di una integrazione che avviene fuori dalla casa ci illumina subito su alcuni caratteri; principalmente la mancanza di certi servizi individuali e il sussistere di bisogni che possono venir soddisfatti per il singolo solo in quanto lo siano per la collettività, mentre la necessità di comunicazione con il vicino si può specchiare in una riduzione dell’intimità, da tutti riaspettata.

Come si vede, si tratta di caratteri decisamente negativi, i quali per essere superati devono intervenire fatti positivo, il tutto poi diviene constatazione di matematica elementare di adizione e sottrazione.

Sembra dunque difficile ammettere che il permanere di determinati lineamenti urbanistici, una volta soddisfatti i bisogni di cui si è detto, basti da solo ad assicurare la continuità dei rapporti umani di mero vicinato.

Se ci portiamo più a vanti nel tempo ad osservare abitati che risalgono al sei settecento, notiamo che determinati caratteri si spostano, dalla struttura interna delle abitazioni e, si affina, differenziando i locali destinati alle funzioni fondamentali.

Ed ecco che dalla strada, di cui si va impadronendo il traffico, il punto di incontro si sposta più vicino all’abitazione del singolo, quando non addirittura all’interno di essa, come è avvenuto in molti Katundë arbëreşë per vocalizzare ogni anfratto, strada o slargo dirsi voglia. 

Se ne deve dedurre che i confini del vicinato si restringono, e non è difficile controllare come in effetti la partecipazione corale alla comunità si affievolisca col finire delle forme di vita che qui avevano avuto origine.

Un altro elemento da notare è il passaggio dal prevalere della casa unifamiliare alla diffusione del fabbricato collettivo: nel primo caso la vita di vicinato si svolge necessariamente all’esterno, e perciò stesso può dilatarsi in una continuità a catena di cellule successive.

Nell’altro caso è naturale che un collegamento nasca anzitutto tra gli abitanti di uno stesso edificio e che le persone si incontrino sulle scale, o che comunichino da una finestra all’altra, e questo denta l’isolarsi della cellula che diventa casa o appartamento comune.

La città del secolo scorso si è favolosamente moltiplicata senza avvertire la presenza di valori paragonabili alla Gjitonia.

Pur se essa ha cercato di rispondere a dei bisogni quantitativi, graduandone il soddisfacimento secondo criteri di opportunità sociale o politica. 

Nei grandi tagli edilizi che hanno caratterizzato le città d’Europa essi si fregiano di imponenti edifici dove il singolo individuo può anche vivere ignorando il suo vicino; ma dietro a questa sottile cortina si addensano le vecchie case e le straducole impraticabili alle carrozze, dove ognuno sente la presenza di un intorno umano che gli è notoriamente comune.

Contemporaneamente si allungano nelle interminabili periferie i quartieri amorfi del feudalesimo industriale; qui non soltanto l’uomo non può più costruire la propria casa, ma nemmeno può sceglierla, perché una vale l’altra, essa gli viene assegnata come una divisa unica, è tutto l’insieme fa parte di uno stato di necessità, identico a quello in cui tutti si trovano attorno a lui senza alcuna necessità dei valori racchiusi nel bisogno di vicinato. 

Così, la casa diventa qualcosa di sordo e di estraneo, dove si spengono quei fermenti che da essa nascevano: la strada della felicità implica necessariamente una evasione, né si può guardare con amore il prossimo che fa da sfondo alla scena di ogni giorno.

La rapidità e la vastità con cui si sono espansi i centri antichi, del secolo scorso, hanno moltiplicato il numero delle abitazioni prive di ogni sorta di personalità, la stessa che l’uomo non può e non riesce ad amare.

Quale sia il volto di un centro antico odierno lo sappiamo bene: sotto il segno di una stridente disarmonia, assistiamo al sopravvivere di strutture secolari, così come alle profezie di ideali centri che mirano al futuro, mentre va sfuggendo il senso stesso della nostra dimensione di generi che attende un luogo ideale per esprimere se stesso.

Rintracciare adesso elementi positivi comuni entro un intorno fisico anche limitato, sembra impresa senza uscita. 

Questo edito nella sua breve esposizione porta a concludere che una vita di Gjitonia si associa a condizioni di basso tenore di vita e nel corso di questa indagine, gli elementi favorevoli, sono stati evidenziati così come segue:

–  abitazioni che rispondono a bisogni minimali;

– attrezzature e spazio in comune a seconda le ragioni pulsanti;

– l’assenza di alcune comodità (case sprovviste di

acque, mancanza forno, in tutto cellule densamente abitate);

–  molti bambini e spazi, adatti per i giochi, comuni sempre sotto il vigile governo delle donne;

–  un numero sufficiente, ma limitato di attività sempre fuori dal perimetro di Gjitonia (il tutto contribuisce a un numero scarso, di spostamenti delle massaie se non per la via dell’agro);

– un livello di vita laborioso e semplice, che permetta di comunicare e partecipare con il prossimo, a differenza di quanto avviene in condizioni di agiatezza anche modesta, entro le quali si riscontrano atteggiamenti più individualistici.

Per contro l’esperienza di stimolare la socialità tra Gjitoni con l’ausilio di servizi comuni, espresso con un tenore di vita ragionevole, risolvendo numerosi insuccessi.

Qui divengono fondamentali i valori tipicamente domestici si tutelavano ad oltranza diversamente dai nuovi ambiti più moderni, senza che le persone riescano a conoscersi più che in qualsiasi altro tipo di abitazione collettiva.

È, una volta di più, il fallimento di una urbanistica moderna che pretenda di agire sugli uomini, anziché partire dagli uomini per dare loro le condizioni ambientali più adatte.

Così è evidentemente impossibile enunciare qualsiasi concetto urbanistico generale capace di ricreare nei nuovi aggregati la vita di vicinato: solamente dove particolari circostanze segnalino la possibilità, sia pure latente, di un più caldo rapporto umano, l’dovrà porre ogni cura per scegliere anzitutto la dimensione da assegnare all’elemento urbanistico adeguata a ll’ intensità di quel rapporto.

Si può dire che la maggior parte delle famiglie sono scontente dei vicini che hanno, pur sapendo bene di poter contare su loro in caso di necessità urgente.

Il dovere dell’aiuto reciproco, il senso di solidarietà umana sono infatti ancora vivi tra queste famiglie; il piacere di stare insieme a conversare o divertirsi costituisce tuttora lo spunto per un avvicinamento frequente ed amichevole.

Ma è raro il caso di qualcuna che, pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente.

Per quanto tali risultati siano sconcertanti, ed ammettendo che la ricerca successiva li confermi, riteniamo sia utile tenerli presenti considerando il problema dal punto di vista pratico.

Dalla nostra ricerca appare chiaro che l’esasperazione dei rapporti tra le famiglie del vicinato ha delle motivazioni abbastanza logiche accanto ad altre meno facilmente ponderabili.

Innanzitutto l’eccessiva vicinanza fisica: i rapporti sono peggiori infatti quanto più le case sono vicine; in secondo luogo il livello economico molto basso che, oltre a creare inevitabilmente in ciascuno uno stato di tensione continuamente in cerca di occasioni per scaricarsi, fa sì che ogni piccola differenza acquisti un valore sproporzionato e crei invidie e rancori.

La maggiore mobilità economico-sociale verificatasi in questi ultimi anni ha aggiunto motivi di dissenso in un mondo fermo per secoli in una greve uniformità di livello, in un mondo in cui «lavoro e sacrificio» erano le leggi comuni della vita, e «contentarsi di poco» il necessario sostegno della dignità individuale.

I valori della vita sono piuttosto espressi in sentimenti che in termini razionali, ed è quindi difficile acquistarne conoscenza dal rimanendone al di fuori.              

I l vicinato possono essere considerati, senza cadere in affermazioni arbitra rie, non soltanto come una unità di cultura, di civiltà, ma come unita di cultura consapevole, e capace i tra smettersi e fondersi in quella più va sta cultura che sta alla base di tutta una società democratica.

I l primo o m mezzo di trasmissione dei v a lo r i culturali è costituito dalla famiglia, m a nessuna di esse è oggi isolata, per quanto possa aspirare a provvedere a sé stessa con i suoi soli mezzi.   

Un   agglomerato occasionale di famiglie con tutti i legami e le fo rm e di associazione che sorgono appunto dal loro vicinato.  

In ogni fa miglia il padre, recandosi al lavoro, è espo­sto a contatti sociali con i compagni di lavoro e alle norme   di vita che regolano l’ambiente dell’officina   o dell’agro 

Entrambi i genitori possono essere membri di associazioni religiose, politiche, sindacali o ricreative, nelle   quali confluiscono punti di vista ed opinioni comuni su interessi   particolari.  

S i incontrano nei negozi, e le varie questioni relative al modo di comportarsi – dovere, civismo, cor­rettezza -vengono in superficie attraverso la discussione e l’esercizio della critica.

I bambini, fino a ll’ età di almeno 11 anni, frequentano una scuola situata nelle immediate vicinanze; giocano insieme nelle strade o nei camp i da gioco, vanno e vengono nelle case dei compagni smi­stando notizie da casa a casa e fornendo occasioni   e   confronti   tra i diversi metodi di educazione.  

I l vicinato è quindi un insieme di «ten­sioni» –tra individui, tra famiglie, tra casa e scuola, tra casa e lavoro, tra opinioni e gruppi i di interesse; le tensioni possono essere importanti e di peso decisivo, le relazioni per­sonali possono degenerare in lite e persino in violenze; ma da tutti que­sti fatti l’insieme, emerge un modo di v iv e r e, con la cultura del vicino.

L a m a gg io r parte della gente che lavora v iv e all’interno di questi limiti ideali, in un Katundë; ma esiste la consapevolezza, ed essi appaiono ben chiarie distintivi, quando accade che antichi legami si spezzino in occasione di spostamenti verso nuove abitazioni o altri siti.

T r e aspetti principali della cultura di Gjitonia sono degni di nota: prima di tutto i detti rapporti di buon vicinato, cioè la premura e solidarietà che si manifestano quando si verificano disgrazie: c’è una regola di vita nei confronti di coloro che sono colpiti verso i quali i diritti non sono rispettati e dove il livello generale è molto basso. 

Il secondo aspetto talvolta si rivela come un tratto spiacevole, a seconda se si abbia o meno qualche cosa da nascondere: è la curiosità.

Se ci è indifferente parlare dei fatti nostri sul pianerottolo o dalla fine­stra, non la condanneremo; ma se desideriamo la riservatezza, ci risentiremo verso i vicini curiosi. 

L’inte­resse che tanta gente prova per gli affari degli altri – le loro fortune disgrazie, le operazioni, le nascite, i matrimoni, le morti – crea nel vicino, una   conoscenza perfetta anche di quello che accade dietro porte chiuse o ambiti aperti. 

Può rappre­sentare un motivo di fastidio, ma può talvolta   impedire   sofferenze   e tragedie, può contribuire in modo po­sitivo a creare più strette relazioni umane, in modo particolare per coloro che sono soli od isolati.

Il terzo aspetto è l’accettazione di un tipo   riconosciuto   di   apparenze esteriori, ossia della così detta «rispettabilità».

Sono i frutti dell’in­nato spirito di conservazione, che si aggrappa a tutto quello che si ritine ne possa essere definito «ciò che è be­ne», e si preoccupa di trasmettere le norme e i principi delle generazioni più vecchie a quelle più giovani.

È un fatto prepotente della vita fa ­ migliorare, perché ogni membro di una fa mig lia ha il dovere, nei confronti degli altri membri, di non lasciare che essi scadano a gli occhi dei vicini.

«L’uccello che insudicia il nido è l’uc­cello cattivo», dice un proverbio; e l’uomo che vuole in frangere il codice riconosciuto va via, verso altri luoghi, dove, vivendo anonimo, può allonta­nare da sé ogni responsabilità.

La rispettabilità indica il tono e definisce la cultura di un vicinato.

Le norme di rispettabilità naturalmente variano, e in certi quartieri non sarebbe consi­derato rispettabile essere in rapporti amichevoli con la polizia.

Attraverso comuni interessi e un comune sentire, tra gli abitanti del vicinato   si   stabiliscono   delle   rela­zioni, e attraverso   regole   general­mente, se non universalmente, accet­tate, il vicinato si rivela come una unità di importanti   valori   morali, intellettuali ed estetici chiaramente individuabili, diventa qualche   cosa su cui è possibile costruire.

 

Queste ed altre ragioni plausibili di tensione, che non staremo qui a considerare, ci sembra siano sufficienti per non farci concludere troppo semplicisticamente che queste famiglie preferirebbero vivere isolate (come del resto qualche

donna ha affermato in un impeto d’ira), o – peggio ancora – che meglio sarebbe far in modo che stiano lontane una dall’altra, perché «i contadini sono individualisti», perché non sono capaci di vita associativa.

È certo che il vicinato ha avuto una funzione sociale e psicologica importante nella vita di questa piccola comunità come mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale.

I bambini, si può dire, vivono «Gjitonia» più che nella loro famiglia: passano da una casa all’altra, assorbono avidamente tutto quello che possono apprendere osservando i vicini sia direttamente, sia attraverso quello che ne sentono dire in casa nei pochi momenti di isolamento ed intimità familiare.

Quando una madre che non è la propria, commenta col marito o con i figli più grandi i fatti accaduti nel vicinato durante il giorno, l’ultimo scandalo o la lite che ha variato la monotonia della giornata.

Presto imparano anche loro a riferire quello che hanno visto, e l’interesse dei grandi è il migliore stimolo a perfezionare i mezzi di raccolta delle notizie che poi, valutate ed ampiamente interpretate dagli ascoltatori, costituiscono come altrettante lezioni pratiche sulla base delle quali si effettua l’apprendimento degli schemi non solo psicologici e sociali, ma anche morali della comunità.

Quando l’apprendimento è completo, i fatti sono ormai riferiti già deformati dalla valutazione soggettiva che si è intanto perfettamente adeguata al modello della comunità.

È facile immaginare come l’individuo, in tempi in cui saper leggere e scrivere era un lusso di pochi, venisse rigorosamente modellato su schemi difficilmente modificabili dei quali diveniva a sua volta depositario e trasmettitore, non solo nell’ambito della sua famiglia, naturalmente, ma di tutto il vicinato.

Un tale elemento può dunque chiamarsi unità di vicinato, e la sua ampiezza non si esprime con calcoli di uni­ versale validità, ma si affida unicamente alla sensibilità di chi progetta.

Nei casi reali che possono presentarsi oggigiorno, la più forte funzion e di collegamento è forse rappresentata dal lavoro, specie se artico lato in attività complementari; ma attività che si svolgano entro un raggio modesto, dall’artigianato fino alla piccolissima industria, così come si verifica in altre regioni. 

Qui i vari mestieri hanno bisogno uno dell’altro per giungere al prodotto finito; e ciò che si può vedere in qualunque cortile dove si aprono le varie botteghe, può agevolmente tradursi in una forma attuale, senza che l’abbandono di caratteri urbanistici negativi abbia a indebolire la necessità del rapporto umano.

Una tale unità di vicinato può concepirsi di nuovo come una integrazione non astratta, anzi come uno strumento che l’urbanista consegna ai suoi simili perché continuino a realizzare ciò che già in essi esiste.

Resta un dato inconfutabile che unisce Vicinato e Gjitonia, esso consiste nel dato che dalle pieghe più intime della propria casa; riverberandosi come cerchi concentrici sin nelle regioni più amene.

Tutti, in prima linea sin anche chi ti è stato germano a, finire dall’impari più lontano, cercheranno di limitare, sminuire o adombrare il tuo lume, avendo in continua consapevolezza che il confronto non è stato mai possibile.

Tuttavia attuano e mettono in campo tutte le risorse perverse nate in quelle case del bisogno, per limitare la corsa che ancora ti lega e, non ti libera dall’essere speciale e impareggiabile Gjitonë o fratello dirsi voglia.

P.S. a mio padre

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                      Napoli 2024-01-22

Commenti disabilitati su CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

Posted on 20 gennaio 2025 by admin

Centri minoriNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Si potrebbe riassumere nel titolo in epigrafe, le storiche ricerche comunemente divulgate con protagonisti gli arbëreşë, i relativi centri antichi e, tutto si dissolverebbe in un nulla di fatto, come avviene con resilienza inopportuna, sostenuta dai Solanizzati, i quali raccolgono ortaggi prima del tempo.

Tuttavia esistono modelli per indagare e studiare, come quelli coadiuvati da Adriano Olivetti, da cui se noti si potrebbe trarre spunto per studi e riflessioni moderne, che dopo i 517 anni dalla venuta degli Arbëreşë, solo Baffi, Bugliari, Giura e Turelli hanno saputo fare.

Immaginare che storia, idioma, consuetudini, costume, architettura, urbanistica, modelli sociali, territorio ed economia, si possano indagare, sulla base di singoli episodi, vagando per gli anfratti della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë è a dir poco un circo, dove si mira alla ricerca di un giullare protagonista, che attragga i viandanti distratti o della breve sosta.

Non è concepibile che figure terze, senza ascolto e parlato in Arbëreşë antico, possano esprimere pareri o analizzare questa emblematica minoranza, oltre modo esempio di integrazione mediterranea grazie alla propria radice identitaria solida, indivisibile espressa in parlato.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura, richiede un approccio metodologico che vada oltre le fonti scrittografiche moderne senza avere consapevolezza del parlato per il trapasso generazionale.

Un metodo molto importante è l’osservazione partecipata, che consiste nel vivere la comunità che si intende studiare per un periodo prolungato avendo ottima conoscenza del parlato e dei tempi dell’ascolto oltre le movenze relative.

Il metodo o meglio il protocollo, permette di comprendere meglio la cultura, le tradizioni, i valori e i costumi identificativi, assieme alle pratiche del vivere quotidiano.

Non ha ragione ne trova rimedio il voler costruire di sana pianta un paese arbereshe che porta con se, oltre cinque secoli di storia avvenimenti e bisogni di epoca luogo e momento storico in forma di regresso o progresso.

Le storie, i miti, le leggende e le tradizioni orali sono fondamentali per comprendere la storia e le credenze di un ben identificato lugo, specie se vissuto dagli Arbëreşë e, a tal fine diventa indispensabile raccogliere narrazioni da persone anziane, che spesso sono i custodi della memoria collettiva locale o, prendere consapevolezza della toponomastica storica.

Un paese non èun semplice componimento di case appartamenti o palazzi, ma la stesura nel temo delle necessità vernacolari dei suoi abitanti, che non cominciano nel caldo di una stanza per terminare nel freddo di un orto retrostante.

Un Paese Arbëreşë contiene e mantiene ambiti coperti e scoperti sostenibili in un ben identificato luogo costruito, non solo per dormire, mangiare e proliferare, ma per conservare memoria, costumi e credenze che non posson essere racchiusi in una stanza o nel circoscritto di una carena rovesciata.

Per questo serve analizzare il costruito con dovizia di particolari, conoscere canto, danza e tutte le forme di espressione utili e indispensabili per addentrarsi all’interno della minoranza che qui comunica e conservi la propria identità.

Le tradizioni o meglio le consuetudini, del tempo lungo e di quello corto, possono rivelare valori, credenze e dinamiche sociali.

L’uso di fotografie, video o altre registrazioni sono un ottimo strumento per documentare le pratiche culturali di una minoranza che non fa uso della scrittura e si affida al parlato e al canto tra generi.

Questo tipo di documentazione permette di inghisare aspetti che altrimenti potrebbero essere persi, come l’uso del linguaggio corporeo, il comportamento sociale e le interazioni quotidiane specie del governo delle donne, le protagoniste della divulgazione di atti e attività sociali.

Collaborare con membri della minoranza allevandole a guide culturali o interpreti, di attività locali, può diventare di fondamentale tutela per quanti appartengono alla comunità, in quando unici addetti per una comprensione profonda dei propri costumi e pratiche di vita, fornendo così insight che un ricercatore esterno potrebbe non cogliere, comprendere o immediatamente recepire.

Se la minoranza ha una lingua orale, è utile studiarla, poiché la lingua è un importante veicolo di conoscenza e cultura e l’analisi attraverso l’uso di registrazioni audio, può svelare significati celati, dalla struttura sociale e modi di esporre difficili da comprendere.

È fondamentale approcciarsi a una minoranza, con rispetto e consapevolezza delle dinamiche che potrebbero emergere tra il ricercatore e la comunità, a questo punto diviene fondamentale l’adoperarsi, per stabilire fiducia e relazioni etiche che permettano una vera comprensione reciproca priva di codici in difesa.

Se possibile, consultare studi etnografici e ricerche precedenti che abbiano trattato la minoranza secondo simili progetti, anche se non esistono documenti o attività in tale direzione.

A tal proposito non sono certo di aiuto le ricerche accademiche basate su interviste e osservazioni eseguite da ricercatori senza formazione e titolo, gli stessi che poi riportano ai docenti editi ed estrapolazioni a dir poco elementari, che se analizzate con dovizia di particolari possono essere rivisitate e dare agio alle ricerche.

Studiare una minoranza che non usa la scrittura richiede un’attenzione particolare ai metodi e agli strumenti di ricerca, mantenendo sempre una mentalità aperta e rispettosa verso le tradizioni culturali e le modalità di comunicazione o gli atti di attività espressi.

Diventano per questo fondamentali gli esami delle abitazioni e gli edifici storici, senza compromettere l’integrità del paesaggio e della tradizione architettonica di un identificato momento della storia.

Di venta fondamentale per questo l’analisi e l’uso dei materiali nelle diverse epoche, con particolare attenzione alle persone che vi abitavano, e la necessità di preservare le tradizioni culturali del bisogno di ogni epoca.

A tal fine vale il principio di studiare come erano organizzate le diverse aree senza cancellare la sua autenticità, migliorando al contempo la qualità della vita degli abitanti con i nostri tempi.

Approfondire le analisi legate alle problematiche della salute pubblica e le condizioni igieniche, cercando soluzioni per l’approvvigionamento, il trattamento dei rifiuti e il miglioramento dei servizi sanitari.

Altro aspetto fondamentale divine lo studio delle attività economiche tradizionali e le possibilità di sviluppo di nuovi settori, inclusi il turismo, della breve sosta, oltre ad incentivare attività commerciali che promuovono prodotti locali.

promuovere studi specifici relativi ai rioni tipici di ogni Katundë, in tutto i più antichi o del bisogno primario vernacolare poveri e proporre soluzioni che permettessero di recuperare l’area senza distruggere la vita sociale e comunitaria che caratterizzava il rione in tutte le sue parti, specie le prospettive pittoriche.

Il tutto deve essere finalizzato a migliorare le condizioni abitative, con un’attenzione particolare all’edilizia sociale e alla qualità degli spazi pubblici dove poter far esprimere e dare agio all’antico Governo delle donne.

E garantire la sostenibilità ecologica, preservando il paesaggio naturale, migliorandone le condizioni ambientali attraverso soluzioni innovative da sottoporre a una commissione multidisciplinare superiore in tutto il governo unico e indivisibile di generi adeguatamente formati.

Commenti disabilitati su GLI ARBËREŞË NON SONO MERA RACCOLTA DI CAPITOLI ONCIARI CANTI CIRCOLARI E FAVOLE (Ka votetë gnerà Palljaspitë rijnë llitiràtë pà trù)

L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

Posted on 14 gennaio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Oggi 18 Gennaio si festeggia il Natalizio di Attanasio Vescovo di Napoli e, per il suo titolo di Vescovo si ritiene minore al Patriarca Atanasio, di cui il Natalizio corre il il Due di Maggio.
Entrambi comunque sono riferimenti di credenza Bizantina, di cui furono forte emblema religioso; chi avesse dubbi in proposito leggesse la storia del Calendario Marmoreo esempio mondiale di credenza religiosa Europea.

La carierà universitaria iniziata a Reggio Calabria nel 1975, perché rimasta solo l’ultima risorsa di casa, a cui si diede seguito poi a Napoli dal 18 gennai del 1977.

E siccome discepolo, diversamente abile, dai due precedenti, l’unica risorsa dell’incancellabile orgoglio materno, quindi, alternativa a un titolo mai mira completa che non si fosse risolta in mercatale soluzione e, dal tramonto del sole il 17 e il sorgere del 18 di gennaio ebbe a germogliare senza veti e impedimenti, questa risorsa familiare, sino ad allora calpestata perché diversa.

Il quadro che venne a delinearsi, con il passare degli anni, non poteva essere di certo considerato un accadimento casuale, e rendere solidali i trascorsi storici di tutti gli Arbëreşë, con lo stupore e la disapprovazione, dei germanici figuranti, finiti a fare mercato.

Furono nel corso dei decenni, numerosi gli avventori che si negavano, per supponenza di una formazione che non avevano e, negavano risposta, celandosi dietro le vestizioni di genere ignoto, le stesse che poi ebbro a smarrirsi per atti di vergogna e, nudità pubblica largamente riconosciute.

Le risposte della Piazza intitolata ad Attanasio e, il 18 gennaio intitolato al vescovo, minore del Patriarca Atanasio, è stato il tempo a renderlo più limpido e chiaro, non certo opera di cattedratici, affrancati per paternità incerta, in quel promontorio che rappresenta la pena degli Arbëreşë.

Di contro la memoria del luogo Piazza, naturale memoria toponomastica, a cui gli esperti che la definirono nel 1929, appellarono lo spazio antistante la chiesa ricordando il Vescovo; e il sacro involucro di devozione al Patriarca, come riportato e inciso su pietra partenopea.

Da allora ogni spunto, ogni citazione è stata debitamente analizzata, non con soliti docenti senza titolo di carriera, come di sovente avviene per antropologia e lingua, ma titolati largamente riconosciuti dalla cultura Olivetara, quella che conta e, rende la storia solido racconto inviolabile.

Qui non si vuole riferire certamente a quella storia che poi abbisogna delle diplomatiche per essere corretta, al pari delle citazioni scritte che sono utilizzate per l’innesco del camino, dove con il fumo non si riscalda l’animo di niente e di nessuno.

Le due date iniziatiche 17- 18, rappresentano la Radice di un itinerario di studio, che non ha eguali e nessun dipartimento istituto o istitutore potrà mai eguagliare, utilizzando il principio di fare e distribuire fotocopie.

Nel corso della ricerca, del prescelto, ogni luogo, figura, fato, cosa o parola è stato analizzato con parsimonia, garbo e debita formazione, avendo alla base un impareggiabile e irraggiungibile ascolto del parlato in Arbëreşë.

Il tutto mirato a rendere eccellenza e, non certo parimente alle direttive dei “Viandante Dipartimentale”, più volte accolto perché forma incerta di cattedratico e, non si comprende come potevano fare cultura se non conoscevano e non conoscono il Parlato e l’Ascoltare Arbëreşë, figuriamoci la storia di un continente.

Se ancora nel 2003, Pasquale Baffi, Luigi, Giura, Pasquale Scura, Vincenzo Torelli e i Vescovi Bugliari, non erano considerate eccellenze Arbëreşë, perché non avevano scritto e prodotto citazioni alfabetari; questo dato fornisce la misura della povertà culturale, a detta di quanti dovevano essere primi, evidenzia il velo di pena culturale, che seguivano i dipartimenti e i preposti, di allora come quelli di oggi che fanno ancora molto ma molto peggio.

Tuttavia divenuto “l’Olivetaro il maestro Prescelto”, il resto, è venuto a galla e, non sono state poche le manchevolezze a dir poco elementari se non in alcuni casi volgari, prive di ogni sorta culturale che sono state dismesse, dal comune parlato Albanese.

Oggi e dopo decenni di studio, pur essendo approdato negli abbracci più solidi e materni del mediterraneo culturale Arbëreşë, restano vive le inquietudini di quanti non hanno saputo approfondire e fare ricerca come ebbe fare: Pasquale Baffi, Luigi, Giura, Pasquale Scura, Vincenzo Torelli, i Vescovi Bugliari e, il fare polemica e denigrazione culturale verso chi è troppo alto per essere compreso, per cui si evidenzia solamente la deriva alla portata dei comuni viandanti economico e culturali, dirsi voglia.

Il saper rilevare ascoltare apprendere per disegnare, cose, natura, fatti e uomini, è l’unico esperimento in grado di dare specie al valore di integrazione più solido del Mediterraneo, ovvero comprendere ed esporre tutte le cose che hanno reso possibile, “la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë”.

Questo ormai è un dato inattaccabile e, non certo opera di istituzioni o istituti con titoli non di scopo, infatti non è il titolo che fa formazione Arbëreşë, ma il naturale evolversi del, mestiere dell’ascolto, che non è di arte, ma educazione e silenzio ascolto, ad opera di quanti sanno fissare le cose indispensabili e fondamentali da tramandare.

Conferma ci viene espressa dalla più alta figura intellettuale che gli arbëreşë abbiano maia avuto, ovvero:” Pasquale Baffi”, il quale pur avendo strumenti idonei per poterlo fare e dire la sua, si è limitato a comparare frammenti linguistici per segnare la storia di questo popolo, avendo cura a mai descrivere o comporre editi senza alcun fondamento alfabetario scritto.

Rispettando questo antico codice, che non è annotato in carte o editi, ma conservato gelosamente nel cuore e nella mente di ogni nuova generazione Arbëreşë.

Naturalmente quando si riferisce dell’educazione e l’ascolto di memoria, si vuole mettere in luce, il saper distinguere le cose buone dalle meno buone e saper distinguere cosa sia utile per il buon esito di una vita di sacrifici immani.

Allo scopo è opportuno precisare che capita spesso di ricevere cattivi consigli, come quelli del 21 Agosto del 1987, alle ore 21.15, davanti al palazzo di Atanasio, dove gli si consigliava di lasciare la via dritta Olivetara, suggerendogli o meglio imposto dal germano fallito, che preferì la via del mercato, diventata poi vergogna per lui e spunto d’invidia verso l’Olivetaro.

Seguirono 18 anni di Sacrificio, ma la mira non venne mai abbandonato e il giorno prima di mezzo secolo la corona ebbe modo di essere esposta, senza che nessuno ne avesse avuto merito, esclusi l’Olivetaro e dei suoi due familiari stretti, che non lo abbandonarono mai.

Inizia così una scalata di studio senza precedenti in ambito Arbëreşë, che nessuno per i secoli a venire e non porta mai essere eguagliare tutto questo che ha avuto luogo non certo per meriti o volontà locali dove dal primo figurante a finire all’ultimo clerico, hanno sempre steso veli pietosi all’avanzare della cultura dell’Olivetaro.

La stessa che oggi solidamente, possiede elementi e principi mai raggiunti da alcuna figura di cultura alfabetica scritta, specie di quanti continuano con le loro pene di trascrizione mussulmana a, cercare di rendere la regione storica, una provincia indegna della odierna insula mediterranea in pena culturale e politica.

“Quando ho imparato ad ascoltare ho visto in Arbëreşë è nato così il mio orgoglio e l’ascolto segnò futuro perché so anche guardare nel passato. Vivere senza è impossibile, in questo mondo colmo di incertezze, perché l’ascolto sostiene il futuro, perché quando lo si vede si incontra il passato e, si vive nel magico mondo del governato dai cinque sensi”.

Commenti disabilitati su L’OPERA DEL PRESCELTO HA AVUTO INIZIO IL 18 GENNAIO DEL1977 (XVIII gennaio: Natalizio di Sant’Attanasio Episcopo)

NON È STATA APPOSTA PIETRA ANGOLARE PERCHE’ IGNORAVANO COSA FOSSE E A COSA SERVE (jatròj pa motë, ragù diellësitë llitirë)

NON È STATA APPOSTA PIETRA ANGOLARE PERCHE’ IGNORAVANO COSA FOSSE E A COSA SERVE (jatròj pa motë, ragù diellësitë llitirë)

Posted on 25 dicembre 2024 by admin

Pietra angolare

Napoli (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Katundë non sono un argomento o trattazione di pietre, mattoni, tegole, polveri e materiali lignei di spogliatura, in quanto è la rappresentazione sociale dell’uomo, ovvero, insieme di genio per unire generi in solidale fratellanza nel corso dei secoli.

Cercare di conoscere cosa accade o sta per accadere in un Katundë può aiutarci a capire come cambia il modo di intervenire e fare cose.

No si riferirà in questa diplomatica, solo il colorare o dare modo alle murature di esprimere pareri, perché questi in statico apparire, ma bisogna interpretare, a quanti ne hanno competenza, il districarsi del costruito ad opera e per il bisogno più duraturo dell’uomo.

Come vivranno domani gli arbëreşë che abitano nei centri antichi e come sia possibile per noi contribuire a migliorare risolutamente il lo futuro, esplorandone i caratteri contemporanei del centro abitato e, dei cunei produttivi, diventa un’esercizi affascinante, formativo, rigenerante e geniale quando da una rispettosa e coerente soluzione.

La qualità dell’essenza, ottenuta, restituisce una formula di vita, in continuo rigenerare, senza modificare, cambiare, o sfociare in enormi differenze tra le diverse generazioni, le stesse che mirano ad alimentare il senso del Katundë organizzando e innovando il senso dei plateiai e stenopoi.

Il tutto affrontando i problemi, le crisi, evitandone i disastri e, orientando le soluzioni, per meglio gestire le opportunità, di un luogo dove vivere, sulla base delle antiche consuetudini, specie se tramandate in forma orale e in lingua Arbëreşë.

Ci sono Katundë che vincono e si tramandano, e Katundë che perdono valore identitario in ogni manifestazione, sotto la guida di gruppi che migliorano o peggiorano le loro condizioni, affondano letteralmente ogni cosa nell’oblio.

Nessun progresso, nessun arretramento sarà eterno­ nel corso della storia tuttavia, solo i Katundë meritano di essere sostenuti, seppure accompagnate a più riprese da crisi, anche devastanti, dove restano sempre pronte per essere attivati i noti governi delle donne: Gjitonia.

Ogni scelta allestita in ciascuna comunità è specifica, e dinamica, ma in nessun modo deve rivelarsi una fotocopia, di competizione, altrimenti diventa inevitabile e, per molti versi utile, anzi indispensabile studiare la storia sia del successo e sia quanto ha generato fallimento o perdita di senso storico. 

Tutte le vicende affrontate in queste pagine si sviluppano nelle esperienze e sulla pelle dei cittadini, tra chi può godere di una vita dignitosa, in contesti stimolanti, e chi patisce caos, violenze, discriminazione e povertà sociale, economica e culturale, in luoghi equipollenti.

Katundë è l’insieme composto da Natura, Uomo e Costruito, che assume il ruolo di culla di una specifica cultura, conserva e alleva generi, seguendo la rotta del diritto e la dignità della vita, in continuo rispetto della radice originaria.

La pri­ma condizione che qui si impone ai generi che vivono e proliferano sereni, è racchiusa nell’essere nato in un Katundë, seguendo regole e consuetudini di vita sotto la vigile attenzione del governo delle donne.

La fama e la reputazione di una Katundë, si fonda nei valori consuetudinari, che non offendono o valicano le attivata dei senatori sociali.

Sono decisive la visione e le capacita di go­verno locale che incidono e dipendono sulla partecipazione attiva dei suoi elettori e, anche un Katundë in declino può sempre rinascere per il ricambio consentito degli eletti debitamente allevati.

Anche un Katundë che culturalmente e socialmente perfetto, può eclissarsi quando dovesse imitare ­esempi, altrui che non hanno idonea guida o, capacità di stimolare e orientare a modo coerente, le eventuali innovazioni che se non corrette, si possono trasformare in pena diffusa dei suoi Katundarë.

Quante narrazioni accompagnano i modi di leggere e conoscere la storia di un Katundë e, questa esperien­za fornisce suggestioni, che hanno segnato in modo violento le persone coinvolte, le stesse che attendono da due decenni, riconoscimento e scuse.

Perché qui, ogni cosa è stata intesa non come storia da leggere, capire e interpretare, ma semplice spettacolo folcloristico che si trasforma e prende forma con nuove infrastrutture, che a ragion veduta non hanno nulla da sostenere se non se stesse e neanche o in grado di reggere i patti di promessa fatta sulla ribalta allestita, per illudere gli ignari sfortunati sfilanti in pena.

Dal Katundë che mobilita le attività sociali, storiche e produttive, si è passati a essere operatori che muovono le rotative delle industrie, senza che queste qui appaiono o abbiano mai avuto vita, se non la rievocazione di una vicinanza numerica depositata mel catasto, Citeriore.

In tutto si è passati da una capitale della coltura arbëreşë a un prodotto di residenze senza un futuro, lavoro e operosità dirsi voglia, il tutto poi divenuto evento da mostrare nella classifica storica dei grandi eventi dove l’uomo ha fallito e si è coperto di vergogna.

Una Olimpiadi o campionato sportivo, che avrebbe voluto puntare alla medaglia d’oro e, durante l’atto della competizione cade appena iniziato il gioco. 

Mentre l’originario Katundë intatto, che potrebbe acco­glie imprese, ricercatori, studenti, formatori capaci di dare ancora vita al Governo delle donne Arbëreşë, deve attendere in pena l’anno 2039, in tutto il termine di carcerazione dei ben pensati.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal un punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio di rruhat, orientate in direzione nord-sud, a rendendo così possibile l’interazione tra abitanti di sociale paritario, qui sempre uniti e coesi.

Le fasce avevano e conservano ancora continuità di confronto e agio comune, attraverso questa rete viaria di misura e composta: da vie principali i plateiai, in direzione ovest/est componimento di, chiese e strade pubbliche all’interno di questo nucleo centrale; dall’altro le strade minori, gli stenopoi, gli ambiti viari per abitazioni di condizioni ristrette, come temperature, umidità o altre caratteristiche particolari di iunctura invalicabile, fatte di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici..

Gli “stenopoi” divengono nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, cioè “specialisti” di un determinato ambiente più intimo, ristretto e fortemente coeso e mai in competizione dove trovava residenza, il noto governo delle donne.

Vero resta il principio secondo cui: “chi parte conserva e ricorda, chi rimane distrugge con la velleità di rinnovare” teorema che pone a confronto inscindibile, passato e presente, ovvero, la memoria di un luogo gelosamente conservata nel cuore e nella mente dagli incamminatisi e i restanti, colmi del desiderio, gestire senza ragione la propria terra d’origine, con intenti e iniziative di rinnovamento senza formazione che poi termina in cambiamenti anomali e inopportuni.

Vero è che in questo mondo che cambia diventano protagonisti midia e motori di ricerca, che mirano ad attirare flussi crescenti di liberi pensatori all’interno di numerosi Katundë dove si fatica a tenere in equilibrio nuove generazioni, a partire dai più giovani.

Secondo cui non esiste più un “Katundë ideale” ma solo, tessiture urbane che devono essere sporcate e stese al sole per essere innovative, attrattive e, colme di macchie anomale, quelli che dovrebbero essere recepiti come gli effetti benefici di garanzia.

Infatti, posto come eccellente il valore di quanti lasciano il loco del passato “coloro che partono” mantenendo vivo il ricordo e preservandolo, diversamente da “coloro che restano”, confermando nelle varie ere la diversità quotidiana, che consente o permette ad anomali strutturati locali di immettersi nel percorso evolutivo, decimando tutela e resilienza, a scapito del futuro che diviene sempre più libero arbitrio interpretativo del passato.

A contrapporsi a queta anomala deriva è il dato che esistono figure di eccellenza, le quali, pur se migrati dai paesi natii per acquisire o allargare il fronte culturale, mantengono i ritmi del cuore e della mente secondo il pensiero giovanile del proprio luogo natio e, pur se lontani per seguire la via della formazione, compilano e vivono le cose secondo i battiti primi di quei luoghi, che per il valore in essi custodito non saranno mai violati da alcun che.

Tra queste eccellenti figure spicca il letterato primo del mondo Arbëreşë, Pasquale Baffi, che da Terre di Sofia attraverso, l’Ullanese boscaglia, prese la via di Salerno, appoggiandosi ad Avellino, poi richiesto a Portici e, preteso dalla regina Maria Carolina d’Austria a Napoli, lui il letterato, fu protagonista inarrivabile di tutta la cultura Arbëreşë, scritta, raccontata, cantata, comunque solidamente sostenuta e, chi volesse essere avvolto da notizie, deve solo attendere che cambiano i ritmi e i tempi di esternare cose blasfeme lungo le vie della credenza Arbëreşë.

Dopo il Baffi vennero altri, ma oggi è pregnante l’ascesa dell’“Immortale”, che seguendo le stesse orme, rimane e resta, l’unica figura in grado di formulare concetti e cose radicate e appartenenti a questa popolazione, in tutto come intuì P. Baffi a Napoli dal 1771 al 1799.

Diversamente da chi restata o che torna nei Katundë velato di lodi, senza prospettiva alcuna e non diventeranno o potranno essere equiparati al “Baffi, il primo e solo letterato Arbëreşë” o “l’Immortale architetto Arbëreşë”.

In altre parole, chi si distacca e conserva la memoria, diversamente da chi resta o torna subito, per essere imbrigliato dalle necessità del comune dire o fare, conosce come affrontare agni sfida, secondo il processo di resilienza che mira al “valore dell’identità e la storia locale”.

Questo concetto potrebbe applicarsi a società, ambiti culturali, vita sociale, consuetudini, perché tutte seguono allo stesso modo il progresso, privandosi in loco di ogni qualsivoglia formazione e culturale, adeguata alla radice originaria. E troppo spesso, porta a perdere la parti significative di ciò che sono stati luogo, natura, credenza e uomini, di un ben identificato ambito costruito, che termina per essere vissuto progredendo in dissociata continuità storica.

Chi volesse aprire lumi o intraprendere percorsi storici, culturali linguistici, consuetudinari e il vernacolare del bisogno di tutti i Katundë arbëreşë, deve avere prioritariamente, conoscenza e coscienza del parlato, l’ascolto e il pensiero primo in lingua antica, escludendo a priori o “Albanisti Viandanti Moderni”, evitando di imitare, copiare o affermare gesta o dicta del tipo: da noi si dice o facciamo così!

Un vecchio saggio diceva ho tante cose da dire, ma non trovo nessuno pronto ad ascoltarmi; ebbene, i giovani in specie quanti non conoscono ancora da dove iniziare, si devono sedevo accanto a lui e ascoltarlo e quando lui sarà stanco, chiedere di riposare ascoltandovi a, pronunziare bene i racconti di fantasia in Arbëreşë, perché e il caso che sappiate che se non parlate bene, qualche viandante scambiandomi per dispersi, vi porterà, Shën Miterë dentro una delle cesta che portano gli asini, immaginando che quello e il vostro paese natio.

A tal proposito va ribadito che cogliere gli aspetti territoriali, inerenti; il centro antico, il centro storico, e tutti gli insiemi di iunctura familiare, comprese Gjitonie e la famiglia urbana moderna, tutti questi, non possono essere un tema di linguisti, e antropologi non parlanti di quanti non sono pronti all’ascolto in Arbëreşë.

Ma non solo, infatti, l’analisi di ogni cosa deve essere comparata e ricercata da persone formate e giuste, le stesse che germogliano solamente nell’attimo in cui nascono, pensano e poi parlano in Arbëreşë

Altrimenti è inutile comporre editi con atti notarili, ripetere capitoli, citare poesia, privi dei minimali aggettivi che rendono leggibile la complessità sostenibile dei catasti onciari o, realizzare vocabolari estesi e riversi della” Lingua Parlata in Arbëreşë che è strettamente essenziale”.

Si sentono dialogare draghi, abbaiare cani, ululare lupi e topi che rosicano formaggio, Mercanti che vendono polvere di spogliatura o, nevicare quando spunta il sole, ma nessuno di questi addetti è mai riuscito a compilare cose relative ai trascorsi storici e, in specie, inquadrare le dinamiche sociali che hanno reso possibile il costruito di questo Katundë.

Lo stesso dove è stato realizzato o, posto in essere, il miracolo sociale più solido e duraturo tra popoli all’interno del mediterraneo.

Si mirano avventurieri mediterranei e liberi pensatori locali, tutti figli, spose e madri della dalla politica o della filiera di prostrazione sociale, adoperatasi a fare “teoreti” esternando, oltremodo, concetti che nel migliore dei casi sono copiati senza alcun valore storico e, oltremodo riportati come cose fatti e uomini, secondo il concetto Materano: “La Gjitonia come il vicinato” articolata pure o, estrazione di numerazione sequenziale catastale, la stessa ripetuta nel moderno centro abitato, di loco “meno pericoloso”, almeno così dicevano le istituzioni sul palco e oggi le stesse che sono tutte scomparse.

Elogiare, al giorno d’oggi, esclusivamente disciplinati che studia l’essere umano sotto aspetti di pena culturale, secondo i quali il vagare i cerchi delle “libere fratrie llitirë”, è incutere ancora pene e, solo quei pochi che hanno lucida consapevolezza della deriva posta in essere, sanno di persone, fatti e cose che innescano, il riverbero della più penosa vergogna urbanistica Arbëreşë.

Esporre concetti paralleli alla “Storia delocativa del Katundë Arbëreşë” e non paragonarla alle vicende legate a Martirano e Martirano Lombardo, denota la volontà di velare penosi esiti, che attendono il sorgere del sole e della luna come un tempo era e, solo dopo il 2039 sarà.

Va comunque ribadito che tutto scaturisce, nell’aver ignorato costantemente per un ventennio e anche di più, eventi geologici innescati dalla sciattezza degli uomini, gli stessi che poi hanno determinano l’allerta abitativa e il progetto innovativo senza relazione storica, di conseguenza senza radice.

Oggi, il non riconoscere in prima istanza, le dinamiche che hanno restituito lo smottamento, ha potuto dare largo agio di approdo alla nuova dislocazione, priva di una reduce radice, quella che avrebbe consolidato lo smottamento o meglio il terremoto sociale di scivolamento della Mula.

Qui fu immaginato, eseguito e consolidato un gravissimo errore sociale, nel non aver scisso attività di genio e cose sociali, separando attività di operosità locale, come Bottari, Fabbri, Falegnami, Calzolai, Cantinieri e ogni sorta di attività, all’interno dell’insieme abitativo, quello indispensabile a sostenere rapporti economici e sociali connessi agli indispensabili cunei agrari e della produzione locale.

Annullando così o azzerando, sin anche il governo delle donne, inteso come mero vicinato di una improbabile tribù della Calabria Citeriore, paragonata, viste le prospettive innalzate, a carovane in continuo pellegrinare nelle distese sahariane, che non usano coppi per ventilare coperture, ma carene rovesciate o tetti piani per raccogliere acqua.

La stessa protagonista che per ironia, per essere lasciata o abbondonata al suo fare, ha prodotto il danno, tradotto e imputato a un improbabile drago.

Dal 2011 al 2014 è stata chiesta l’operato dell’”Immortale” per la difesa di questa pena sociale, imposto alla comunità arbëreşë e non solo, ed è stato sempre lui e solo a, diffendere con ragioni storiche il cattivo operato degli addetti politi e non solo, in quanto fratrie e ogni sorta di gruppo che qui trovava interessi si è visto tremare, a loro sì, anche il terreno sotto le poltrone labilmente occupate.

Sin anche l’artefice politico primo dell’epoca, informato di quella conferenza di servizio del 2014 terminò di fare, dire e proporre nuovi centri abitati, come soluzione ideale a eventi sismici.

La morale di queste piccole ma sostanziali e veritiere note, vogliono ribadire, promuovere e sancire che se un paese va tutelato sia esso Katundë, Borgo; Civitas, Hora, Casale, Contrada, Frazione o comunque gruppo di case autonomo, che creano un continuo sociale secolare.

Non può essere sostituito estromettendo il tempo trascorso, con opere nuove senza alcuna attinenza o condannati a emigrare, perché i ricorsi storici non possono essere ricostruiti dalla tecnologia moderne e neanche con gli strumenti che può fornire la globalizzazione, perché per quanto attuale, non ha forza per sostenere il valore di un luogo specifico, specie se fatto dagli Arbëreşë.

Sembra ieri che una collega, voleva condurre l’Immortale nella piana inesistente, e spiegare il senso di Gjitonia, naturalmente l’immortale, fu solidamente deciso ad evitare quel viaggio di pena, dato che chiesto se conoscesse il parlare e l’ascoltare in Arbëreşë, la sua perplessità palesata appena la domanda, rispondeva con il principio che le genti sono tutte uguali: si è vero, ma davanti a Dio, non per la Storia, rispondeva l’Immortale.

La stessa che nelle numerose conferenze di servizio allestite per la Valutazione di Impatto Ambientale, le stesse istituzioni non la ritenevano in grado o idonea di sedere al tavolo, dove l’immortale sedevo e metteva in difficoltà tutte le istituzioni che di difendevano con dati, pervenuti dai satelliti ignari della storia.

In oltre va rilevato che il prodotto finito non risponde a radici storiche del modello vernacolare o architettura del bisogno sviluppato dal XV secolo, rispettivamente secondo Katundë, Moticèlleth, Sheshi, Brègù e Nxertath, quest’ultima mai osservata per il nome di allerta, a titolo di merito storico.

Tuttavia il nuovo Paese con le Gjitonie, che “non è Katundë”, segue le linee generali o esigenze del periodo post industriale, quando “l’architettura razionale”, costruiva complessi residenziali, al solo fine di offrire un dormitorio a quanti dovevano mantenere viva, solidale e funzionale l’industria in crescita e, la forza lavoro doveva risiedere nelle immediate vicinanze, per non rallentare, sostare o dismettere il ciclo produttivo.

Il progetto di rinnovamento della” Piana Scomparsa”, è stata cattivamente interpretata, non essendoci a priori prodotta alcun documento storico per guida del progetto in tutte le sue fasi di protocollo, un foglio, un rigo una sillaba, finalizzata alla ricerca storica, che menzionasse il senso della pietra angolare non esiste e non è stata mai immaginata.

Considerando il sito, a modo o ragione estetica, secondo le teorie del “Lombroso”, per questo si è terminato con il protocollo delocativo, ripetendo anche qui le vicende che nel meridione hanno fatto storia.

Tutta la processione del nuovo sito ha seguito “la diagnosi dei protagonisti istituzionali”, meno l’immortale, che conosceva ogni cosa per citare gli avvenimenti equipollenti di Martirano del 1905 quando la popolazione dopo numerose promesse e vicissitudini del sito nominato “Martirano Lombardo”, tornò a risiedere nel centro antico originario di Martirano antica.

Se la “piana scomparsa”, doveva essere nel breve termine seguita dalla montagna,” come i vertici della geologia di stato anticipavano”; perché costruire allora, se ciò era o fosse stato vero, un nuovo paese nel posto “meno pericoloso” come da relazione geologica di stato e, quindi sempre e comunque esposto alle ire della natura, disponendo la popolazione e il loro industriale genio, tutto lungo quel pericoloso lavinaio che termina e porta ogni cosa nel corso del fiume Crati?

E se il fine era di non destabilizzare il precario equilibrio geologico di faglia antica, perché aggiungere al profilo della “Dea dormiente della Mula”, pale eoliche, i cui effetti non sono ad oggi, ritenuti al pari di venticinque case in frana oltretutto innescata dalla condotta dedicata al Frate Marco Abbaiato, debitamente ripristinata!

Non era meglio ricostruire o restaurare venticinque case invece che “Fare un Paese con Le Gjitonie” e, una zona industriale, in pari loco pure esso disposto lungo il versante “meno pericoloso”?

Questa a parere “dell’immortale”, è una storia nata male allestita peggio e ancora oggi vede i suoi abitanti in cerca di agio, condannati a pena perenne, lungo una deriva che non dovrà mai più ripetersi, né per nessun gruppo o etnia dirsi voglia e né per altre circostanze di agio politico lì in attesa di vicinato indigeno.

Questa esperienza, più è resa nota, meno si comprendono le ragioni veritiere e, con lo scorrere del tempo, sono, risultano essere le più velate, poco chiare, per il dato che, parlano i meno titolati o quanti hanno partecipato al guadagnano evento.

E per evitare che questa brutta deriva sia scambiato per un abbraccio sociale benevolo o caritatevole, è opportuno rendere noti tutti gli avvenimenti, niente e escluso, affinché la vicenda avuto germoglio e luogo diventi utile per quanti in questa era di globalizzazione moderna, immagina di rispondere a ogni emergenza, con i ferri che fanno l’intreccio anomalo del “dualismo politico o le ideologie di est e di ovest”, che non hanno mai fatto gli interessi della “Europa Antica”, che resta ed è il centro solido del mondo intero.

Oggi alla Regione Storica Diffusa e Sostenuta in Arbëreşë, non servono sortite di nuova carriera di lode accademica, ma figure di eccellenza come: Pasquale Baffi, il prelato e i Vescovi Bugliari, i Fratelli Giura, i Fratelli Torelli.

Crispi e l’Immortale; tutto il resto è solo una scia di noia, ripetuta riversa e riverberata, la stessa che non darà mai chiaro o limpido nettare in continuo fermento. 

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