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UN MAGISTRATO ARBËRE SENZA OMBRE: ROSARIO GIURA DA MASCHITO (Ngà vith hësth mendë itija)

UN MAGISTRATO ARBËRE SENZA OMBRE: ROSARIO GIURA DA MASCHITO (Ngà vith hësth mendë itija)

Posted on 21 aprile 2022 by admin

Rosario Giura1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nell’angusto e breve  corso dedicato alla “Famiglia Giura in Maschito”, sulla facciata dell’ antica dimora, una sbiadita lapide, dettata da Giustino Fortunato ricorda:

i cittadini di Maschito vollero scolpiti i nomi de’ fratelli Rosario e Luigi Giura nati nello scorcio del secolo XVIIII di Francesco Saverio e Vittoria Pascale, il primo valoroso giureconsulto e integro magistrato deputato nel 1848 al parlamento napoletano, morto esule a Nizza 1854; il secondo ingegnere scrittore insegnante per ogni aspetto singolarissimo ministro de’ lavori pubblici nel 1864; perché fossero di civile esempio e di nobile ammaestramento alla terra natale sempre memore delle prime genti qui scampate per amor di libertà dall’oppresso regno d’Albani

XXIII settembre MCMXII

Francesco Saverio Giura, (dottore in utroque, con riferimento a chi professa con laureati in legge la giurisprudenza), unito in matrimonio con la Nobl Donna Vittoria Pascale  nel 1801 diede alla luce Rosario.

Rosario frequentò le « Pie Scuole  di Calasanzio», le quali dettero argine al primo tipo di scuola popolare in Europa, i corsi gratuiti, frequentato da ragazzi di tutti i ceti, ebbe il suo battesimo nel 1597 a Roma, ideata dal grande educatore Giuseppe Calasanzio, canonizzato da Clemente XIII nel 1767, che procurò unanime plauso ed aiuto ad altri religiosi, propagandandosi in quasi tutte le regioni italiane ed all’estero

Il Giura giovanissimo si addotto in giurisprudenza, seguendo la sua vocazione e concorse con brillante esito nella Magistratura raggiungendo i più alti incarichi fino a Procuratore Generale.

Intese il suo ufficio di Magistrato nella pienezza della sovranità e si scrisse di Lui di aver avuto carattere d’acciaio al servizio di un’idea che non lo fece mai piegare.

Chiamato alla Procura generale di Napoli constatò che imperavano per mal costume, soprusi, prepotenze ereditate da chi lo aveva preceduto, impose la giustizia.

Per avere misura dello stato delle cose lasciate da altri procuratori che lo avevano preceduto, bisogna leggere la pregevole pubblicazione del Cotugno, “Tra Reazioni e Rivoluzioni”.

Rosario Giura Magistrato da Maschito, partecipò alla storia dei Borbone di Napoli, esponendone la capitale come la città dove imperava, la non giustizia in un regime di vero terrore, dove vigeva i  l’imprigionare il condannare, secondo una vera e propria tormenta in offesa ad ogni legge umana, contro  il fior fiore dell’intelligenza.

Una delle cure più gravi ed assidue del Governo fu quella di piegare ai suoi voleri la Magistratura e pertanto istituiva nell’ottobre 1849, col pretesto di purgarla da elementi sovversivi, una organizzazione delle Corti Speciali, per l’epurazione dei magistrati, indagando sulla loro condotta politica e morale.

Si era così creato un ambiente chiuso non suscettibile, per le correnti fucinate dal conterraneo del Rosario Giura, come Mario Pagano e da tanti altri.

E ben disse il Croce che quel dissidio tra monarchia e cultura fu la causa fondamentale del crollo del regime borbonico.

Contribuirono ancora a quanto appariva inaccettabile, le famose lettere del valente uomo di Stato della Gran Bretagna, Guglielmo Gladstone, spedite a un suo amico, dopo il soggiorno di quattro mesi a Napoli.

Le lettere che svelavano gli errori che si commettevano dal governo Borbone, con la frase famosa ripetuta in tutta Europa: “a  Napoli la negazione di Dio eretta a sistema di Governo”, aprendo in questo nuovo modo di affrontare le cose, le vie dell’esilio e le galere si schiudevano ai nomi più illustri del Regno.

In un elenco, di mirabile eloquenza dei tempi, fra le vittime inizia ad annoverarsi la figura del Magistrato Rosario Giura, per aver opposto delle osservazioni ad un rescritto del Re, che contro legge, ordinava che un accusato fosse dispensato di costituirsi in carcere.

L’energico atto fu accolto come una sfida alla Maestà di Ferdinando II e costo al Giura l’immediato trasferimento in Calabria.

Lo screzio all’uomo dalla toga incontaminata suscitò non pochi fremiti d’indigna­zione e disprezzo del popolo, che apprezzando la sua fermezza e rettitudine lo mando al Parlamento.

Il Parlamento Borbonico poggiava su tre malfermi cardini: ignoranza delle masse, il tiranneggiare della nobiltà ed un esercito in funzione di polizia

Ogni deputato evitava di esporsi in Parlamento, per timore di rappresaglie, ma il Giura, tempra Arbër approdata in Lucania, terminò il suo mandato, con un discorso pieno di fermezza e indignazione, pensiero che gli apri le porte delle carceri e che per fortuna eluse, trovando scampo in esilio, e dopo aver viaggiato in vari stati dell’Europa si fermò a Nizza Marittima.

Dalle “Memorie del Duca Sandonato” si evince che nell’albergo “le ville in Genova” dove fu realizzato il famoso banchetto, servito a tutti i profughi napoletani, organizzato dal Deputato e giureconsulto Giardino di Aquila, ove, una schiera dei più eletti nomi sedettero a pianificare cose nuove, come: Giovanni Nicotera, P. E. Imbriani, Raffaele Corti, Girolamo Ulloa, Salvatore Tommasi, Giacomo Coppola e tanti altri, leggonsi anche i nomi dei nostri illustri lucani: del Deputato Nicola D’Errico, di Pasquale Scura, integerrimo magistrato in Basilicata, che dovette esulare in occasione del processo del famigerato Canonico Peluso, per l’assassinio del Carducci, colon­nello della Guardia Nazionale, trucidato dalla reazione capitanata dal Peluso e del nostro Rosario Giura.

Di questa rara natura d’uomo, spiccata personalità, inconcepibile oggi, spe­sero i suoi contemporanei, le frasi più acconce per sublimarne la figura morale non disgiunta dalle grandi doti d’animo.

Siamo portati ad ammirare questi luminari esaminandoli e seguendoli nel loro aspro cammino, crescendo la nostra ammirazione secondo la varietà delle circostanze e del modo come si dipartirono.

La verità il più delle volte è frutto di dispiaceri, di patiboli, di strazi.

La verità ci viene dall’apoteosi del Golgota e ben l’apostolo Paolo impresse: “ Sine sanguinis effusio non sit remissio”.

La fortezza d’animo, la rassegnazione cristiana con la quale il Giura affrontò le avversità in terra straniera ingigantisce la figura e ci sollecita a dire l’Imbriani : Uomo sempre incorrotto ed incorruttibile.

Il Giura spese le sue tristi giornate d’esilio col preparare dotte pubblicazioni; Scritti politici e sociali e Saggi di filosofia del diritto.

Da Nizza, divenuta francese, nel 1360 il fratello Luigi si premurò di far trasportare la salma nel camposanto di Napoli, ove s’erge un monumento nel recinto degli uomini illustri con l’iscrizione dettata da Filippo Abignente:

QUI RIPOSA IL FRALE DI

ROSARIO GIURA IL CUI SPIRITO MANDATO DA DIO IN MASCHITO

DI BASILICATA IL 1 ANNO DEL SECOLO

RICCO DI MERITI DEL MAGISTRATO DEL LEGISLATORE,

DELL’ESULE RITORNÒ A LUI IL III SETTEMBRE MDCCCLIII

IN NIZZA DIVENUTA FRANCESE

IL MDCCCLX FREMEVANO AMOR DI PATRIA QUESTE OSSA

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ARCHITETTURA: INDICATORE STORICO DIFFUSO DELLA GUERRA

ARCHITETTURA: INDICATORE STORICO DIFFUSO DELLA GUERRA

Posted on 20 aprile 2022 by admin

MuroNAPOLI (dia Atanasio Pizzi Basile) – Ogni qual volta si vuole diffondere l’inizio, lo svolgimento e la fine di una guerra, non sono le ragioni o i principi per i quali essa nasce, ma le immagini filmiche, fotografiche e pittoriche che la ricordano, incutendo preoccupazione a quanti inermi, subiscono mentre altri giubilano per la conquista incassata.

Quello che più di sovente appare non sono le crude immagini d’individui che in diversa misura sono coinvolte, ma le architetture devastate, ferite e brutalmente, le uniche a fornire la misura del danno pubblico, quale scenografia di pena per gli invasi per opera d’invasori in giubilo.

Sin dall’antichità, l’efficacia della guerra è raffigurata con le opere dell’architettura devastate e ancora fumati; allora come oggi, quelle immagini attraverso la raffigurazione del tempo, in mura pericolanti e oggi degli elevati ancora fumanti, restituiscono frammenti indelebili di vita quotidiana interrotta, fornendo con particolare violenza, la misura di quanto accade.

Case, palazzi, ponti, strade, luoghi di unione, di spettacolo raccontano di architettura, uomini e macchine per la distruzione in continua evoluzione, al fine di giungere alla peggiore delle efficace, onde evitare il confronto corpo a corpo tra uomini come un tempo avveniva.

La brutalità appare, lascia ancor di più perplessi, perché non è mai presente un antagonista fisico che colpisce il rivale, ma una entità non presente che vilmente, da lontano e senza apparire, colpisce un bersaglio architettonico, entro cui non si ha idea o misura di cosa, chi e quante vite umani vi trovano rifugio di vita.

Non è più il soldato a sopraffare l’antagonista simile, per poi distrugge, gli emblemi dell’architettura più rappresentativi come avveniva un tempo, ma una macchina che ha solo uno dei sensi umani, ovvero quello di vedere un bersaglio da lontano, senza mai avvertire durante il tempo della sua efficacia se ad essere soppresso è grande, piccolo, anziano o addirittura inerme il nemico; ignorando un dato fondamentale, ovvero, se quanti predestinati siano ostili o dediti al vivere quotidiano, all’interno della propria casa per vita.

Quindi è l’architettura che misura le forze avverse, per produrre il danno e se oggi vediamo, solo quanto è devastato non viene fornita alcuna misura del numero di designati, che seguono la corrente, si oppongono o periscono per sempre.

Tutto ciò per riferire che esiste anche un’architettura sotterranea, quella che non appare e svolge un ruolo fondamentale; quanto di essa sia realmente devastato, compromesso o bruciato, solo in pochi lo sanno perché conoscono il valore di questa misura non ufficiale.

Ragion per la quale, il linguaggio dell’architettura per essere compreso in tutta la sua forma, deve apparire in tutto il suo insieme, ovvero: pensiero, progetto, forma fisica di fondazione ed elevato, oltre gli uomini che la fanno, altrimenti si perde il senso completo delle cose.

Solo in questo modo i vincitori preposti a scrivere daranno conto a vinti e ai posteri, in forma completa per quanto devastato; altrimenti tutto diventa prospettiva di comodo scenografico.

L’architettura è un’arte antica, essa non ha eguali, solo quanti la conoscono possono descrivere lo stato delle cose tangibili e intangibili, gli altri, si ferma davanti a quanto appare nell’immagine offerta dai madia, ad uso e consumo delle parti in causa, come preparate dai progettisti di studio e di cantiere, in conformità al desiderio del mandatario pagante.

Esistono casi, dove l’architettura non deve apparire, perché a trionfare, deve essere il senso delle cose, in definitiva prospettive in forma di codice, ma questa è una storia di popoli che non contemplano le forme grammaticali, essi fanno parte di storie minori, quelle che restano all’ombra a riposarsi perché stanche del nulla fare.

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ARCHIVI ARBËR IN PATINA DI CALCE, SULLA FUMIGINE DEI KATOJ DEL TEMPO CORTO (Këlkera te shëpiat me kamënua dimëri)

ARCHIVI ARBËR IN PATINA DI CALCE, SULLA FUMIGINE DEI KATOJ DEL TEMPO CORTO (Këlkera te shëpiat me kamënua dimëri)

Posted on 16 aprile 2022 by admin

Cenere

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il rapporto tra ambiente naturale e quello costruito denota le emergenze evidenti, nell’accostarsi alle pietre angolari degli elevati murari, è qui che subito si colgono elementi fondamentali, della storia della minoranza Arbër a ovest del fiume Adriatico.

La rappresentazione dei piani orizzontali, verticali e inclinati, sono gli elementi finiti in grado di restituire quando realizzato nel confronto idiomatico locale, specie per quanti cercano un rapporto paritario con la natura degli ambiti paralleli dei paesi arbër.

Questi momenti di ascolto sono uniti dal comune confronto in lingua non scritta, piano razionale di “oggetti” e rappresentazione delle cose, le uniche in grado di fornire sul piano interpretativo, un linguaggio non scritto, tramandato oralmente dalle generazioni, perché genio locale.

Il risultato finale è il frutto di una serie di estratti intimi, riferiti a precisi macrosistemi connessi, diventando traccia maggioritaria o archivio a cielo aperto per le informazioni contenute.

La rimanente parte, la minoritaria, di solito riferisce di mere informazioni catastali, estratti del grande serbatoio, il costruito, questo, conservandole saldamente, evita fuoriuscite, in forma liquida o di vapori labili, che potrebbero contaminare l’ambiente urbano.

Pertanto la rappresentazione grafica dei dati ricavati, l’analisi tipologica e morfologica, concorre, a formulare il racconto dei rapporti esistenti tra il vuoto urbano e la rappresentazione formale del costruito.

La cultura storia di quest’ultimo, consente di indagare oltre i fatti tecnici come prospetti, sezioni, planimetrie, che interessano, relativamente quanti non sono tecnici e non si occupano di definire categorie culturali collettive, non generiche, ma fatti empirici senza legame con il territorio, la natura e gli uomini.

Questo modo di procedere indagando le cose tecniche riesce, a tradurre anche il silenzioso linguaggio della tessitura in pietra, mattoni, archi, vuoti, modanature e portali, nel processo di trasformazio­ne dell’architettura dei paesi della regione storica, dal primo insediamento estrattivo al successivo arrivato sino a oggi in forma additiva.

Luoghi silenziosi che non sono mai stati ascoltati, pur se fortemente disturbati dalle variabili tecnologiche, le stesse, che specie dal dopo guerra a oggi, le hanno stravolte, lasciando al muto destino, solo quanto conservato come reperto archeologico o forme violate da depositate in museo.

Di fronte a questi piccoli manufatti della storia, si coglie un silenzio ancora più austero, nei piccoli e stretti vicoli articolati della storia degli uomini arbër, che non hanno lasciato spazio al veicolare rumoroso, gli stessi che terminando per collegare frettolosamente, un posto a un altro senza storia sociale in aggiunta.

Da tutto ciò, il bisogno di sviluppare un lavoro sistematico sull’abitazione dei paesi di radice arbër, grazie anche a una carriera professionale dedita al rilievo, sia di edifici storici e sia di quelli minori, per catalogare ambiti e adibirli ad uso pubblico e privato, nelle regioni di Campania, Calabria, Puglia Basilicata, Lazio  e Molise.

L’operato eseguito con tale metrica, è stato portato avanti con la memoria sempre presente delle origini dello scrivente, impegno morale preso con un noto dirigente dipartimentale della Sapienza di Roma, il quale la sera del 17 Gennaio del 1977, augurava ogni bene per il percorso universitario in architettura intrapreso, aggiungendo: finalmente avremo chi potrà raccontarci anche di architettura in Arbër.

Da allora, l’esperienza acquisita nel definire la rappresentazione grafica dei fabbricati, la ricerca tipologica dei moduli abitativi e le conseguenze mutazioni di crescita e la conseguenza organizzativa degli isolati, ha avuto come mira finale, la promessa fatta nella piazza storica del mio paese.

Un “voluminoso patrimonio formativo fatto di pietre e di vuoti”, in altre parole, architettura fatta di sensi, evoluzione urbana, che prende forma non nel tempo di una stagione, ma dal XIV al XVIII secolo, disponendosi lungo gli articolati vicoli, degli sheshi, dove i primi attori restano sempre: le pietre, i vuoti e la toponomastica identificativa, in tutto il luogo dei cinque sensi che ti riporta nella casa dei tuoi familiari.

Analizzare i rioni storici e confrontare le cellule di base, i Katoj, del centro antico, hanno consentito di determinare un adeguato traccia­to evolutivo dell’originario modulo abitativo.

Questa prima parte, nei luoghi della storia e della memoria, ha fornito elementi univoci per definire “le forme dello spazio dettate dal genio locale” poi l’esperienza e la dovizia di particolari, ha consentito di rilevare e trasportare su piani bidimensionali il rappresentato.

È chiaro che tutto questo non è avvenuto per una mera presa visione fotografica e metrica dei luoghi, ma ha avuto inizio, secondo un protocollo rigido dove a essere protagonista di prima linea, non è stata la sola esperienza del saper rilevare, ma la conoscenza dell’idioma, delle consuetudini e l’essere abituato ad avvertire quando un luogo libera “le sensazioni dei cinque sensi degli Arbër” cosi come qui di seguito si farà accenno.

Quando nei paesi Arbër iniziava l’estate, le regine del fuoco e della casa imbiancavano con la calce l’interno dei Katoj, specie quelli rimasti ancora modesti, per coprire il fumo prodotto dal camino dell’inverno appena terminato.

Le regine, davanti al proprio uscio, si adoperavano a miscelare acqua e calce, a seguito di ciò, con la scopa, fatta di rami di erica coprivano il grigiore dell’inverno appiccicato sulle pareti e le superfici di copertura dell’intero ambiente casa.

A rituale terminato, tutto diventava bianco, garantendo più luce, ai compiti e le attività intense dell’estate e lente dell’inverno.

Se entrate in una di queste case, rimaste ancora intatte, potreste cogliere il senso delle cose dei trascorsi locali, estrapolando un frammento di superficie, fatto di strati di fumigine e calce, le pagine e i veli delle stagioni arbën trascorse.

È chiaro che a sfogliarle e leggere è una sensazione che solo chi conosce le consuetudini vissute e svoltesi all’interno della casa, (Shëpia) può avvertire, specie se nati e cresciuti, in quello di rilievo o altri equipollenti.

Ascoltare il riecheggiare delle vicende che hanno accompagnato la regina del fuoco e i suoi familiari per progredire, lo si trova nel fotografare la cenere la polvere depositata in tutti quegli attrezzi dell’epoca, proto industriale, quando le fabbriche non esistevano e i prodotti conservieri si facevano in casa con poche cose.

Sono ancora numerose le abitazioni rimaste come se il tempo non sia trascorso dal dì in cui furono abbandonate e pur se malconce, se vi capitasse di dovervi entrare, potrete avvertire le cose del tempo che nessuno conosce e solo voi potrete rievocare, se sapete come si facevano.

Queste in genere sono abitazioni poste a piano terra, monocellulari, o a due livelli, comunque la parte che suggella un preciso periodo della storia dei centri antichi arbër.

L’involucro abitativo traccia un periodo storico ben definito e solo chi vi è cresciuto, può comprendere le cose passate, di come sono diventate nel presente e quanto serve per prevenire i fatti e le cose nel futuro.

Oggi la rincorsa al Toson d’Oro per curare ogni mancanza di memoria e dare continuità storica a eventi che non hanno senso, è il mestiere di tutti perché frutto di favole senza senso, utili a forviare i sogni e la realtà delle nuove generazioni.

È facile ritrovarsi e parla in numeri di migrazioni, come facevano gli scolaretti impreparati, il giorno dell’interrogazione, segnando gli appunti sui palmi delle mani e siccome, sistematicamente erano cancellati dal sudore, non sapendo che riferire nel momento del bisogno, si articolavano le dita contandole e fare colpo sulla platea scolastica ignara, aggiungendo I° – II° – III° – IV° – V° – VI° –  ecc., ecc., ecc.,  più il sostantivo, “migrazioni”.

A tal proposito è bene precisare che la migrazione storica, che ha definito l’insediarsi degli arbër, secondo quando sancito e inciso su pietra Arbër, è una sola.

Essa va dal 1469 e termina nel 1502, le altre sono episodi alternativi, finalizzati, per altre cose, o progetti che non hanno nulla a che fare con la storia dei cento Katundë della Regione storica diffusa Arbër,

Quest’ultima nel corso della storia ha perso il senso in alcune macro aree, lasciando per questo isolato un solo centro abitato in forma di frazione o Katundë, come nel tarantino, in Campania e in altre province dell’antico Regno di Napoli.

Per quanto attiene agli enunciati disparati di migrazione e di difesa della radice arbër, è tutto da rifare; lo si potrebbe eseguire nel tempo di una “stagione lunga”, tuttavia quanti per decenni hanno confuso l’impegno materno di Irina Castriota con quella della solida madre Arianiti Comneno, non vogliono sentir ragioni.

In oltre dopo aver fissare le linee guida delle 482 senza l’ausilio dell’art. “Nove”  non sono disposti a partecipare, visti gli innumerevoli enunciati fuori metrica, in forma di costruito e di molto altro ancora, specie dove un tempo correva l’antico acquitrino di reflui nel casale di Terra, oggi divenuta la vergogna culturale di quella capitale, che diede i natali all’indirizzo della storia arbër.

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UN MILLENNIO TRASCORSO IN FAVOLE SENZA DESCRIVERE IL CORPO CHE UNISCE

UN MILLENNIO TRASCORSO IN FAVOLE SENZA DESCRIVERE IL CORPO CHE UNISCE

Posted on 12 aprile 2022 by admin

CainoNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Non esiste una frase più abusata come “le migrazioni degli arbëreshe”, spesso chiamata in causa per nobilitare atti che poco hanno più della mera numerazione, di avvenimenti senza ragione di senso, tempo e luogo.

Questa è la costante che si ritrova ogni qual volta, si narrano i trascorsi in terra ritrovata della Regione storica Arbëreshë dal XIV secolo nel meridione italiana.

Un insieme di avvenimenti approvato nelle sedi più alte ed altre, dopo un processo di assemblaggio formale, avviato in assenza  di adeguate competenze, se non in forma di scriba ostinati, i pellegrini che di porta in porta elemosina favole, per poi lasciare, nel miglior dei casi, perplessi quanti aprono ad ascoltare quelle parole ignote.

Secoli di lavoro, durante i quali si è più volte ripetuto il rituale dei “stake holder arbër ” (il palo cui assicurare la scommessa dell’idioma scritto arbër), per dare forma alla grammatica greco/latina, contornata di Italica, Francofona, Germanica, Ispanica macedonia linguistica.

Ne è venuto fuori un componimento, impaginato alla bene meglio, povero di info-grafiche, articolato esclusivamente lungo le rive; dell’idioma, da un lato e della musica dall’altro, attraverso i quali si è cercato di arginare la cultura, in forma di riecheggi musicali, di cui resta ancora ignoto il significato e il termine del fare tutela.

Si parla e si narra del periodo greco o romano per passare da Hora, Civitas a Borgo senza avere la minima cautela sul dato che gli Arber hanno un loro sostantivo per identificare i centri abitati, senza il bisogno di prestiti, perché identificano il loro costruito con:  “Katundë”.

Si parla del tempo prima e durante  i trascorsi Bizantini, per poi volteggiare sulle migrazione dal XIV al XVII secolo, senza avere consapevolezza che tra un periodo e l’altro passano secoli di vissuto, senza che mai un’accenno a qualche avvenimento preparatorio venga fato.

A tal fine e prima di addentrarci nelle vicende storiche che hanno segnato il tempo degli arbër, è bene precisare che ogni cosa sarà valutata e osservata con gli elementi di cautela  specifici. ovvero, l’idioma, la metrica del canto, le consuetudini in forma di genio locale e le credenze, in tutto, la formazione sociale dell’epoca cui si fa riferimento, di volta in volta, senza saltare secoli.

Le terre dove gli Arbër si stanziarono furono luogo di conquista, di numerose popolazioni, queste non vi giungevano per distruggerle e reprimere gli indigeni, ma conquistarle e viverci, motivo questo,  tutte le popolazioni che vi approdarono, nel meridione italiano, depositarono elementi caratteristici e caratterizzanti i luoghi con elementi di  provenienza.

A questo punto è bene precisare, con certezza, che la migrazione tra la sponda a est dell’Adriatico verso quella posta ad ovest è un fenomeno latente che dura da millenni, tuttavia se si deve citare una  che abbia senso per le popolazioni arbër essa si articola tra il 1468 sino al 1502.

Questa ha origine  quando il principe Giorgio Castriota muore e la sua consorte per trovare un porto sicuro dove vivere, nel ricorso del consorte, approda ben accolta a Napoli, dove vive sino al 1502.

È questo intervallo che le genti Arbër armati dei principi di tutela più profondi verso i valori identitari, in precedenza citati, preferisce seguire la principessa Donica e allocandosi lungo le arche del regno partenopeo, dove porre in essere la difesa delle cose identitarie, con volontà di convivenza, che nel medio periodo sfocia nel modello di integrazione, più longevo e solido della storia del mediterraneo.

Altre migrazioni latenti vi furono in sovrapposizione a quanti del 1468 sino al 1502 si stabilirono nel meridione, ma riferite ad altri avvenimenti e cosa fondamentale non fanno parte di quella scelta storica di seguire la principessa Donica Arianiti Comneno.

I fatti succedutisi, dopo la migrazione storica furono di scontro, confronto, terminando nella conviviale integrazione che sino al secolo scorso ha difeso con forza i valori identitari, senza mai perdere la retta via, anzi nel XVIII secolo aggiunse il valore di costume da sposa, nelle macro area della Sila greca e dopo questo storico intervallo, con l’unità d’Italia è iniziata la china che di giorno in giorno disperde cose, valori e orientamento.

Conferma di ciò è, la legge 482/99, la quale risulta essere completamente sbagliata, in quanto non porta nel suo enunciato esplicativo alcun riferimento alle cose proprie agli “Arbër o Arbëreshë, proponendo nei fatti la tutela della lingua “Albanese” quella che si parla oltre Adriatico che è altra cosa, in quando quest’ultima ha subito influenze diverse e seguito un itinerario di sottomissione, lo stesso dal quaele gli Arbër del 1468 cercarono di fuggire.

Prova di ciò, nella citata legge all’Art.2, testualmente riporta: “In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i princípi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni Albanesi……….”

In tutto, la legge 482/99, non contemplando la seconda parte dell’articolo 3, ovvero l’adoperarsi a correggere gli errori e non fa alcun richiamo all’Art. 9 fondamentale.

Ciò ha prodotto effetti interpretativi, dimostratisi poi nel tempo come veri e propri colpi di ariete nelle attività del vivere comune e dei costumi; nel scuole trasformandole in presidio di lingua ignota; nei centri antichi consumandone le disposizione delle cose e dei segni.

Se consideriamo che gli assi viari (Rruàthë) dei centri antichi, resi carrabili, oltre i luoghi ameni della memoria, ritenuti strumenti utili per condurre da un posto ad un altro e non per avvicinare le cose e le persone.

Se aggiungiamo l’aver violato il costruito, gli elevati e gli spazio comuni, cancellandone forma e senso, richiamandoli come obiettivi di agenda sicura per i canali turistici, il ventagli del delle cose fatte è completo per evitare il respiro nel risalire la faticosa china Arbër del nuovo millennio, ma a generare tempesta che allontana il senso dalle cose dalla retta via.

Un esercizio proposto come pregevole, per progetti speciali, che a ben vedere, le azione possiedono un denominatore comune: non sviluppano  nulla che abbia continuità con il passata consolidato con presente, per futuri solidi e fatti di cose genuine.

A questo punto sulle strategie, attuate, è opportuno tornare indietro con la memoria e precisare che le vicende che legano i processi d’integrazione nella regione storica arbëreshe, ricordano un consistente numero d’illustri, pochi mediocri e uno da dimenticare, da non rievocare in alcun modo, perché spregevole, vile e dir poco più di Caino.

Anche perché l’emulazione del personaggio malevolo è più facile di quanti con senso, garbo e intelligenza, hanno saputo dare alla Regione storica Arbër, quella notorietà di cui rimangono ancora intrise gli ambienti del sapere, perché avevano come fine il rispetto degli uomini e di tutti i generi che vi nacquero, senza denigrare disprezzare o escludere nessuno.

La forza vera della famiglia allargata Arbër, è contenuta nei valori non scritti del Kanun, ovvero, tutti partecipano al bene comune e coralmente senza distinzioni di genere capacita e forza lavoro e ogni facente parte deve dare il meglio di se, senza invadere per arroganza o convinzione propria, le arti dove altrui uomini sono migliori, altrimenti si fa il segno che marchia la fine.

P.S.

Una nota riferita al periodo che ci apprestiamo ad affrontare; il Martedì di Pasqua non è la giornata dei balli coreutici, delle ridde o la raffigurazione  delle battaglie vinte da Giorgio Castriota, in quanto è storicamente comprovato che esse siano denominate “Valje” ovvero, le giornate di inizio estate, che va da marzo a Maggio: “Vera e Arbreshëvet” il cui messaggio vuole ribadire l’integrazione sostenibile in atto, tra ospiti arbër e ospitanti indigeni.

I balli tipici raffigurano “l’abbraccio” rivolto alle genti indigene; nei meriti è bene precisare che: due uomini aprono il semicerchio, le donne lo descrivono e altri due uomini lo chiudono, tra uomini e tra donne non vi è contatto fisico in quanto sono uniti da fazzoletti tenuti in mano; gli uomini rappresentano la forza delle braccia e delle mani all’estremo di un ipotetico corpo, gli uomini; il corpo vero e proprio è rappresentato dalle donne, le generatrici la finezza delle cose del corpo umano.

I canti in elevati di genere, sono la conferma che un idioma, la cui metrica vive coralmente e uniscono i generi, vantando con i vestiti tipici femminili che con garbo e movenze raffinate, mai estreme e volgari, la propria identità, con il proprio costruito storico in forma di Rruha, Kishia e Shëpi i luoghi dell’opera integrativa e culla della propria identità.

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SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

Posted on 07 marzo 2022 by admin

275297823_5222999894391398_3049577895678805196_nNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Sulle balze del Pollino, in Calabria, vi è la massima concentrazione di paesi popolati da profughi albanesi, costretti a fuggire dalla fine del XV secolo dalle proprie terre per l’arrivo degli invasori turchi, frenati, fino a quel momento, da Giorgio Castriota Scanderbeg, morto nel 1468.

Per distinguersi dai fratelli rimasti in Albania sotto il gioco musulmano, gli emigrati stanziatisi in tutte le regioni del “Regno delle Due Sicilie” hanno assunto il termine di arbëreshë. La mancanza di contatti continui tra le due etnie ha creato un solco che si è sempre più allargato tanto che oggi hanno poco in comune.

Sono andato a visitarne uno dei più caratteristici: Civita. Appena mi è comparso all’orizzonte, mi sono fermato perplesso a studiarne la posizione. Ma a chi è venuto in mente di stanziare un gruppo di persone su quel terrazzamento con un burrone a monte e uno a valle? La montagna alle spalle potrebbe franare e sotterrare le abitazioni; oppure il paese potrebbe scivolare verso valle con le immaginabili disastrose conseguenze.

All’ingresso del paese vi è una scultura in pietra che rappresenta un’aquila, dominatrice dei monti del Pollino; osservate la posizione, ha planato, si è posata su una roccia, l’ha afferrata con i potenti artigli, la testa con il becco adunco tra le zampe per abbassare il centro di gravità, ha le ali spiegate unite verticalmente perché il volo è terminato e fra poco le raccoglierà sul corpo.

Poco oltre vedo l’immancabile busto dell’eroe albanese, dell’ ”atleta di Cristo”, di Giorgio Castriota, soprannominato Scanderbeg, Alessandro, in ricordo delle sue imprese contro i persiani al pari del giovane eroe macedone.

Il paese, pur essendo integrato nella civiltà del paese ospitante, conserva usi e costumi di quello originario. Ho visitato il locale museo, nel quale campeggiano oggetti, costumi, ritratti, riproduzioni, pannelli storici delle tradizioni albanesi, come quelli sparsi in tanti borghi dell’Italia rimasti isolati tra le balze dei monti; sono entrato nella chiesa di rito greco-ortodosso, la religione dei padri, come quelle che ho incontrato nei decumani di Napoli, ricreate dagli immigrati dei paesi slavi e balcanici; ho ascoltato le voci e i discorsi in lingua arbëreshë, a me sconosciuta, come i tanti stretti dialetti, che, nonostante l’Accademia della Crusca, si continuano a parlare nelle singole regioni italiane; ho letto i cartelli bilingue, non dissimili da quelli dei paesi al confine con la Slovenia, l’Austria e la Francia.

C’è, però, una differenza fondamentale: il territorio. Gli altri paesi si trovano in zone concentrate a ridosso dei confini. Quelli arbëreshë, invece, sono diffusi in tutte le province dell’ex “Regno delle Due Sicilie” formando una comunità, che dovrebbe essere più connessa di quello che in realtà è.

La popolazione ha resistito alle vessazioni di principi e tiranni, anche per la protezione di Irina Castriota, principessa di Bisignano, pronipote e ultima erede legittima di Scanderbeg. Tutto bello, tutto integrato, in questo paese arbëreshë, cioè italo-albanese, degno rappresentante di questa vasta comunità diffusa.

Civita, però, ha qualcosa che la rende unica: “il ponte del diavolo”. Giù, oltre il burrone a valle, scorre un torrente, il Raganello con le sue gole, i rumorosi balzi tra le rocce, i restringimenti e le zone dove si allarga e riposa, meta di escursionisti dediti agli sport fluviali. Nella piazza del paese si trova il mezzo che vi precipita giù lungo una strada impervia con una pendenza da capogiro che l’esperto giovane autista percorre in una manciata di minuti. Ed eccoci arrivati al “ponte del diavolo”: dal disegno dell’arco si denota e deduce l’origine romana. La vista è stupenda; affacciarsi oltre il parapetto e farsi rapire dallo scorrere dell’acqua che si infila e si contorce tra i grossi massi è uno spettacolo irrinunciabile, nel quale la natura si mette a nudo e mostra i suoi tanti segreti. È un paesaggio da favola trasportato nella realtà di un paese che è impossibile cancellare dalla memoria: Civita.

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ALLO SCADERE DEL SECONDO GIUBILEO NATALIZIO, SIETE  CONSAPEVOLI VERSO QUALE GIRONE NUOTATE?

ALLO SCADERE DEL SECONDO GIUBILEO NATALIZIO, SIETE CONSAPEVOLI VERSO QUALE GIRONE NUOTATE?

Posted on 04 marzo 2022 by admin

Granai1804

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Esiste un cerchio malevolo noto per la pena culturale che avvolge, esso si stende del cuore pulsante del casale di confine, con un  raggio sino al pianoro del calvario politico, denominato Palë Kanë Shëpitë.

È in questo girone o cerchio, che vivono, si rifugiano per  pascere e rigenerarsi, figure senza principi morali, ignari di cose buone, per poi  millantare ruoli e cose,  terminando addirittura con l’esaltare come buoni  i “cattivi”.

Queste attività pur se ignorate dai resilienti locali, si impongono, secondo un calendario maldestro, infliggendo pene a quanti vivono da generazioni per cambiare l’inesorabile deriva.

Sono inutili i tentativi delle persone buone, consapevoli dei fatti, i quali per non essere mescolati nelle tenebre di questo teatro dell’incultura, vivono perché nati, nel limite del contadino, dove l’efficacia di queste azioni, si esaurisce rendendo quperchè un raggio di luce illumina i pochi.

Dopo questa breve premessa introduttiva è opportuno precisare che sono troppo esigue le notizie riportate, genericamente, su un certificato natalizio, per “apparire” dignitosi sulla scena politica e culturale del passato, specie se i trascorsi in vita sono ambigui e colmi di dubbi, poi se la provenienza del certificato è di scaffali non clericali, il discorso non può che terminare nel fatuo.

A tal fine, chi volesse istituire l’anno giubilare, sopra i miseri resti di un natalizio, assume responsabilità storiche non proprio nobili e termineranno per sporcare d’inchiostro scagliato una pagina della nostra fiorente storia,

Ragion per la quale sia la genuinità delle cose e sia nell’esposizione di poveri concetti e attività, specie se editoriali, saranno solo quelli la cui paternità è notoriamente attribuita alla mano ferma e precisa del dotto che sapeva usare  i calamai, sin anche per redarguire gli stolti cattedratici.

Si usa dire che la storia si ripete, come non crederci viste le figure, i fatti e le cose istituzionali che a breve confermeranno l’antica teoria con Uomini, luoghi e tornaconti.

È noto che i particolari del vissuto, dalla figura di natalizio, non sono proprio in figura di Santo, né verso la via de Purgatorio, in quanto trovano  certezza solo nel Girone basso dell’inferno.

Per lo scopo chi si appresta a giubilare, senza produrre ilarità, dovrebbe almeno sottoporre tutti i temi, al vaglio di veri storici, specie se ad essere incrociate sono azioni malevole verso luoghi, uomini e cose della storia della regione storica intera.

A tal fine, onde evitare le solite figuracce di esposizione, come ormai fanno in ogni uscita pubblica, è il caso di confrontarsi e comprendere meglio, produzioni editoriali, gesta e attività, per le quali e i quali, si è superata la china dell’apparire in vita, senza decenza.

Si dovrebbero, in altre parole, sommare indizi in numero di tre, e costruire prove da divulgare, con i protagonisti allocati nelle giuste icone di riferimento, paradiso, purgatorio o inferno, disegnAto da saggi che usano apparire esclusivamente con i canali multidisciplinari.

Il Casale Terra di Bisignano nel corso della storia ha avuto numerose figure di eccellenza, sia dal punto di vista sociale in forma laica e sia clericale; è grazie a questi, che il centro antico, prima citato, siede per meriti, nell’olimpo culturale della Regione storica diffusa degli Arbëreshë.

Per meglio procedere nella ricerca specifica e puntuale, va ricordato che gli Arbëreshë di Calabria citeriore davano inizia al proprio percorso culturale negli istituti di formazione laico/clericale di macroarea, poi superata l’idoneità, affinavano a Napoli gli studi, in discipline sociali, culturali, legali, tecniche, politiche, economiche e religiose.

Un elenco indelebile, ricorda un numero considerevole di addetti, già da prima dell’insediamento di Carlo III a capo del regno; da quel tempo e senza soluzione di continuità, il Katundë, somma figure raffinate degne di menzione e lode.

Tuttavia come per tutte le cose “l’eccezione” è sempre in agguato, pronta a far sbocciare tra le pieghe delle figure buone, anche singoli personaggi disarmonici, vere e proprie anime penose del Girone Dantesco.

Se “apparisce”monologo l’elenco degli irrequieti del male, rimane composto dello stesso numero di addetti, nel corso di attività dal 1783 sino alla fine del decennio francese è segno che gli arbëreshë sono di radice buona.

La falce malevola, appianò ogni cosa gli si sia posta davanti nel percorso di affermazione; diverso e molto estesa, è la lista delle eccellenze “buone”, gli stessi che in tre secoli di storia, hanno reso il Casale Terra, al confine delle diocesi di Rossano e Bisignano, un luogo rinomato e senza pari, ad eccezione di una pianta malevola che non smette di germogliare “del 1806” imperterrita ai margini della ribalta, perché semi fatui vile incultura.

Tra le eccellenze del passato e del presente, vanno citati almeno i casati che hanno fatto la storia, quella buona, degli Arbëreshë calabro citteriore.

Essi sono noti e ricordati per i loro casti, quali: Baffa, Baffi, Becci, Berlingieri, Bugliaro, Bugliari, Caruso, Ferriolo, Marchiano, Miracco e Pizzi, tutte residenti all’interno degli elevati storici arbëreshë.

I citati cognomi anche se di poco più della decina, intrecciando le unioni coniugali, hanno generato un numero di eccellenze molto esteso e per i quali, in altra diplomatica riceveranno gli allori di merito.

Qui di seguito saranno rilevate le gesta, per fermare i simboli della cultura buona degli arbëreshë, che per non vedere calpestato il proprio sapere, allora come oggi, superavano le avversità dell’essere, isolati, utilizzarono calamai contro inesperti professori, come fece il Baffi, con l’incauto insegnate di greco.

E mentre le persone giuste si confrontavano per cose buone e definivano valori condivisi e indispensabili per la società di quel tempo, i pochi, gli altri, quelli che “appariscono” fascicolavano, trame e tessevano tele perverse, perché dovevano eliminare fisicamente, quanti gli si ponevano davanti o lungo la strada dell’apparire, falso di un limpido perverso.

L’elenco delle eccellenze buone di quel casale, di confine diocesano, inizia quando Carlo III nel costituire il fido reggimento Real Macedone,volle alla guida spirituale del medesimo, il reverendo Giuseppe Bugliaro a Napoli, dove opera con correttezza spirituale al mandato regale.

È proprio il reverendo Bugliaro, ad accoglier suoi parenti/concittadini e aprire orizzonti culturali, per gli Arbëreshë all’interno della capitale, queste giovani promesse con univoca capacità culturale e modi di porsi, conquistarono subito i salotti partenopei della cultura, riverberando il loro sapere per tutta l’Europa, all’epoca in fermento per rinnovarsi e produrre nuovo pensiero sociale e culturale.

Un nome valga per tutti gli esponenti della regione storica arbëreshë del settecento: Pasquale Baffi, nessun personaggio può vantare livello paritario in campo sociale e intellettuale perché unico e solo libero pensatore arbëreshë.

L’intellettuale G. Marotta, in una piacevole divagazione storica nel suo salotto, diceva egli e uno dei pochi pensatori Partenopei Libero da ideologie di partito, un unico pensiero: il bene di tutti gli uomini in egual misura.

E quanti vanno raminghi attraverso le righe delle diplomatiche affermando che non è eccellenza perché non ha scritto in lingua skip, sappiano che questa disciplina se non ha avuto accoglienza dal Baffi, che possedeva titoli e capacità curriculare e intellettuale, diversamente da quanti perdono solo tempo e incauti vogliono piegare le consuetudini antiche del popolo pi longevo del vecchio continente.

Quest’ultimo apre nella stagione della cultura, già dal 1770, e mentre lui scriveva e annotava pensieri e segnalava attività da intraprendere, in quelle terre che dopo poco tempo diventano “la questione meridionale”; fornendo le basi indelebili, gli usurpatori culturali si cibavano ancora del latte di Capre di razza Mursia.

A tal fine va rilevato il senso dello stesso “discorso dell’apparso” già pubblicato in Europa, e per questo, l’editore partenopeo  cauto, alcuni decenni dopo per correttezza e rispetto di chi lo aveva composto, ha posto come premessa alle altrui apparizioni, precisando che: “Si avvede il Lettore che si era fatta un’edizione  ma siccome è uscita piena di errori, così si è distrutta totalmente, ed abbiamo pubblicata la presente conforme all’originale; l’Editore”

Se a queste avvisaglie di attività editoriali, non proprio limpide associamo le ricompense elargite a favore della servitù, dagli organi preposti all’arresto per poi eliminarlo secondo disposizioni regali sia fisicamente e sia dei suoi scritti in casa, mentre quelli depositati in calata San Sebastiano restarono nelle disposizioni di chi ancora non aveva pagato pegno.

Noti restano i prodotti editoriali, la cui paternità non può ritenersi farina di un novello laureato, ancora senza arte e ne parte, ancora attaccato al seno della capra Mursia, e quindi non consapevole la lingua greca, sino al profondo intimo delle inflessioni dialettali, persona d’intelletto superiore, il cui sapere poteva trattare istanze ancora ignote alla cultura diffusa di fine settecento.

Altro illustre che ha subito violenze inaudite, è il vescovo Francesco Bugliari, per i suoi risultati portati a buon fine e per questo testimone scomodo delle dal 1794 al 1799, per le quali il Baffi fu sgozzato, per essere stato cattivamente afforcato, nel novembre rivoluzionario.

Il Bugliari non fu solo vittima in prima linea, in quanto all’indomani dell’entrata dei francesi a Napoli, bisognava cancellare tracce indelebili dei vili tradimenti, noti al Bugliari e ai suoi familiari e forse custoditi nelle carte del collegio a quei tempi in Sant’Adriano.

Le cinque giornate del Casale terra,  dal 12 al 18 agosto del 1806, rappresentano il secondo indizio, dove il mandatario, sulla carta secondo il D’AJALA, era il re di Napoli, in verità a far apparire come pericoloso il vescovo ed i suoi familiari agli Aragonesi in fuga era sempre il solito che “apparisce” nella penombra e con la false spiana le cose senza macchia.

Allo scopo, fu fatto sopprimere anche la guardia locale, che poteva sapere, ovvero Giorgio Ferriolo, il Fratello assieme all’intera guarnigione, per poi passare alla ricerca del vescovo tradito da una serva del nero.

Il vescovo fu freddato e lasciato in un granaio, ordinando, di non rimuoverlo non prima “di cinque giorni”, dopo di che si scatenarono anche contro il fratello e le cose di casa Bugliari che sono bruciati, assieme alle carte e le cose del collegio di Sant’Adriano, terminando la sciagurata commedia ad Acri dove sono passati al rogo il fratello del vescovo e il giudice Maziotti da San Demetrio Corone.

Tutta questo, non poco patire, servì per sedere senza ombre, nei vertici della direzione del regno ormai Napoleonico, noto come il  decennio francese dal 15 febbraio del 1806.

Se a ciò si aggiunge che mentre i Francesi prediligevano realizzare presidi della cultura, l’emblema di formazione degli Arbëreshe della Calabria citeriore, ha una sorte apposta, infatti, nel 1813, con decreto regio: si vuole spostare la scuola da Sant’Adriano a Corigliano Calabro, consigliando la dismissione delle abitazione e alle dotazioni della struttura.

Solo l’energico intervento con formale lettera alla corte reale del Vescovo Bellusci, congelo le cose e alla dipartita dei francesi dopo il 13 ottobre 1815, tutto poté ripartire senza non pochi patimenti, sia di cose e sia delle attrezzature scolastiche distrutte.

Quando tra il 1820 e il 1821, si elevò la rivolta anche nel regno di Napoli, si proposero tumulti, nel breve tempo soffocati e nel febbraio dall’anno successivo, ebbero ragione verso quanti vi avevano partecipato, con i modi di repressione a lungo termine tipico degli Aragonese, nei fatti, una scure che non risparmiava nessuno degli avente preso parte in misura più o meno opportuna, in diversi modi.

Il cerchi costruito con il fuoco a questo punto, la natura delle cose lo forgia con cauta precisione restituendo quando seminato; il consiglio che il bandito, Frapitta, diede ai poveri abitanti del casale terra di lasciare il Vescovo morto e abbandonato nel magazzino del grano per quattro giorni, diventa una premonizione matematica che non lascia scampo alle interpretazioni.

Correva il ventidue agosto del 1822 e nei pressi, dove un tempo erano allocati, i granai regi partenopei, è dichiarato morto dai parenti, chi aveva brillato di luce altrui; strana coincidenza la matematica del semina e raccogli; era i18 sempre di fianco a un granaio e fu raccolto pegno a Napoli.

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REGIONE STORICA ARBËRESHË FIGLIA UNICA DELL’IMPERO CON CAPITALE COSTANTINOPOLI

REGIONE STORICA ARBËRESHË FIGLIA UNICA DELL’IMPERO CON CAPITALE COSTANTINOPOLI

Posted on 13 febbraio 2022 by admin

213725595_138178398424219_5901055145669427821_nNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Lungo il fiume Adriatico prima che sfoci nel mare jonio, dalla metà del XIII secolo ai primi decenni del XVI, le terre del meridione italiano, diventarono luogo parallelo di accoglienza dei principi, dei fondamenti e delle credenze che sostennero l’impero, sino a quando la capitale fu Costantinopoli.

Quel patrimonio sociale di credenze e consuetudini, unico e irripetibile, venne affidato alle genti che andranno a disporsi in quella che oggi s’identifica come Regione storica diffusa Arbëreshë.

Queste antiche terre che si insinuano nel bacino del mediterraneo, notoriamente considerate il banco di prova diffuso di tutti i popoli del vecchio continente, alla spasmodica ricerca di luoghi dove predisporre principi, cose e valori sostenibili per una lungimirante convivenza.

Ogni gruppo, una volta approdato in questo paradiso mediterraneo, predispose e segnò quelle terre con attività e cose in comune convivenza con la natura, escludendo tra questi l’impero romano quando la capitale era allocata nelle odierno terre laziali, tuttavia tutti gli altri, senza colpo ferire, innestarono germogli e temi per una seconda opportunità sostenibile,  realizzando modelli abitativi, sostenuti dai valori religiosi, quali, Romitori, Chiese, Oratori e complessi monastici.

Dell’Italia, a tale scopo e in maniera più attiva, nel periodo su citato, fu scelta la lingua di terra meridionale, diventa l’ambiente fertile per innestare le radici evolute nell’oriente bizantino, il cui interesse prioritario nel corso del tramonto dell’impero mirava a tutelare i valori di credenza iconografica della cultura di credenza, oggi ancora vivo nonostante le tante evoluzioni dello scorrere del  tempo e alle cose degli uomini.

Ritenere oggi, che i valori tutelati dalle genti della Regione Storica Diffusa Arbëreshë, possano esse alchimia idiomatica  innestata in un banalissimo sostantivo fuori luogo e tempo, è un errore a dir poco infantile e non più tollerabile.

Far risalire questo patrimonio vivo e indelebile in sette regioni, raggruppanti oltre cento paesi, in ventuno macro aree, ritenendoli il frutto  proveniente da la Luna, o  battaglie contro i mulini a vento di Donchisciotte della Mangia e Saggio Panza,  terminando nei banali  valorizzatori estivi, i quali, invece di migliorare la qualità della ricerca, inquinano e rallentano il corso della conoscenza, devastando documenti cose, case e fatti.

Non può essere più tollerato da nessuna figura politica, istituzione, civile e religiosa, perennemente raggirati  dalle cose de la Luna, di Saggia panza e dalla Mangia kisciottesca e dei tematici termo valorizzatori che bruciano ogni cosa.

Allo stato delle cose e per evitare che le ilarità culturali dilaghino e prima che diventino piena incontenibile, che infanga ogni limpida cosa, è bene porre fine a questo fenomeno apponendo a difesa della cultura una nuova generazione, barriera ideale, di figure competenti, capaci e motivati con temi idonei, per assumersi la responsabilità storica di tutela, con senso e grado il patrimonio della regione storica.

È tempo di avere consapevolezza delle cose vere che appartengono e fanno parte della regione storica, le quali, di sovente sono sottovalutate, per far brillare campanili in forma di camini, senza rendersi conto che ironicamente, il genio della pittura in pellegrinaggio, li ha riproposti in forma di minareto turco-fono; l’antica deriva culturale da cui gli arbëreshë vennero nominati per sfuggire per salvare la radice.

Adesso si battono i tempi post pandemici, che vorrebbero riavviare l’economia, secondo i dettami della ripresa e resilienza locale, una nuova deriva economica posta in essere a dir poco gratuitamente, questa se non idoneamente valutata, potrebbe rivelarsi pericolosa, se applicata senza le dovute cautele storiche, come già successo durante la delocalizzazione in monte Mula, questa infatti venne attuata senza aver scritto un rigo della radice storica arbëreshë.

Spetta alle persone munite di senso di sopravvivenza storica, predisporre misure temi e contenuti in forza della tutela del patrimonio che non è solo della regione storica, ma del genere umano intero, specie quello antico del mediterraneo che è stato sempre la fiamma per orientarsi.

Questa non è una questiono tra il tempo grande e il tempo piccolo, questo è il momento di tutelare un patrimoni inestimabile, quello vero e non quello dei personaggi misere, capaci di tradire caparbiamente fratelli arbëreshë o addirittura scambiare camini per minareti perché lo vociferano le architetture parlanti con vesti abusive e cancerogene degli anni sessanta del secolo scorso.

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L'ESEMPIO DI FALCONARA ALBANESE

L’ESEMPIO DI FALCONARA ALBANESE

Posted on 29 gennaio 2022 by admin

Falconara AlbaneseNapoli ( di Atanasio Pizzi Basile) – Falconara Albanese, è un paese Arbër della Provincia di Cosenza, allocato tra le colline che a est degradano verso la valle del Crati e a ovest scendono sulle coste del Mar Tirreno.

Unico paese della Regione storica Arbëreshë, disposto come un faro a servizio dei naviganti del tirreno cosentino; il paese fa parte degli oltre cento che dal XIII secolo sino al XVII, furono accolti in casali disabitati, bel accolti degli amministratori di quelle terre, in ascesa economica, che risultavano essere privi di residenti.

Assunse per questo il nome di Katundë, diversamente da casali, borghi e altro genere di appellativo aggregativo, divenendo uno dei cento e nove centri, dove da sei secoli lingua, consuetudini, metrica canora, genio locale e religione vivono senza incutere prevaricazioni estreme all’ambiente naturale.

Tutti i centri abitati di simili origini sono allocati ben distanti da zone paludose in forma altimetrica e di orizzonte, diffusamente distribuiti in specifiche linee strategiche in sette regioni dell’Italia meridionale, quali: Sicilia Calabria, Campania, Lucania, Puglia, Abruzzo, e Molise.

La loro disposizione, da luogo a ventuno macro aree, il cui insieme diffuso oggi è identificata: “Regione storica Arbër”, unico modello di accoglienza e integrazione,  più solido e longevo del Mediterraneo.

Falconara Albanese, per la sua posizione, rappresenta il faro arbër del mediterraneo sulle dormienti acque del Tirreno e grazie alle sue caratteristiche geo morfologiche e ambientali divenne campo ideale per la pratica venatoria basata sull’uso di falchi o altri uccelli rapaci per catturare prede.

Il Katundë rappresenta per la macro area Sanseverinense, la pietra miliare, dove convergono le due arche abitative, che dallo Jonio attraversando il pollino la Sila greca, le articolate colline della Mula, si aprono come d’incanto sulle limpide acque del mar tirreno della Calabria Arbër.

Il centro come gli altri, un tempo provincia citeriore, nasce a seguito della morte dell’eroe che guidava i governarati Arbanon, Giorgio Castriota, comunemente denominato Scanderbeg.

Va sottolineato diversamente dalle leggende comuni che contano migrazioni, dal 1469 al 1502 intervallo storico che segna la presenza della moglie di Giorgio, Donica Arianiti Comneno, a Napoli, secondo il patto dell’Ordine del Drago, di cui facevano parte anche i regnanti del regno di Napoli e le famiglie di dei Castriota e dei Comneno.

L’ordine del drago legava sia i regnanti delle terre prospicienti il fiume adriatico sino al mar ionio, questo consentì nei vari dialoghi in vita, di tracciare “Arche strategiche” immaginate dallo stesso Giorgio Castriota al re di Napoli nella sua visita del 1462 in Napoli.

Dopo la morte dell’eroe Arbanon, la discendenza dei Sanseverino era passata al figli di Luca Bernardino il quale diversamente dal padre terminava le sue prospettive future, non alle coste ispaniche, ma si fermava in quelle più a breve distanza francofone.

Questa come altre nel meridione è la ragione per cui, avere minoritari capaci di incidere perché stradiotti, (soldati contadino), negli ambiti della provincia citeriore cosentina vennero accolti numerosi migranti, rendendo la Calabria intera un luogo sicuro come lo era solo la parte più a sud: il Granducato di Calabria.

Il paese di Falconara è l’espressione del costruito storico tipico degli Arbanon, quattro rioni tipici, dove si allocarono famiglie allargate secondo le strategie non scritte del Kanun: Kishia, Bregu, Sheshi e Katundë, sono il riassunto di un modello che in altra sede sarà argomento privilegiato.

Transitando ancora oggi attraversando rioni, che appaiono sinteticamente in forma di tortuose e strette vie avvolte dalle tipiche dimore, si coglie subito l’essenza del modello difensivo e sociale denominato Sheshi, fioritura caratteristica dei cinque sensi arbër, sensazione del fare antico irripetibile, importato delle colline dell’ Albania dell’epoca della migrazione.

I quattro rioni originari del centro antico, sono realizzati, secondo un apparente disordine, il cui fine mira a far procedere lentamente, rendendo i luoghi, perennemente palcoscenico di confronto, tra minoritari e indigeni ospiti, la natura, senza adoperare elevati murari prevenzione di scontro o adoperarsi per fare fossati o realizzare porte in difesa.

Il lento progredire seguendo i ritmi e la metrica del canto di genere, tipico di questo popolo, scrive nel cuore e nella mente di ogni arbër, ( cosi come oggi ai turisti della breve permanenza) la rapsodia di storie non scritte; unica difesa invalicabile, la vera difesa dell’identità che solo il costruito degli sheshi, non ha smesso da secoli di tutelare.

I modelli abitativi, le strade, gli orti botanici, diventano il processo del genio locale per confrontarsi con la natura; prima in forma estrattiva, poi additiva e in fine compositiva in elevato solido come i presidi bizantini, l’esempio del costruito circoscritto da emulare.

Prima Grotte, poi Katokj, in seguito Moticelie, a cui in elevato furono affiancati profferli per il frazionamento;  in fine Palazzi, sono la sintesi dell’edificato con il progredire sociale ed economico del piccolo centro, il vero protagonista espressione materiale del luogo Katundë, protagonista assieme all’ambiente naturale, la risorsa agro silvo pastorale del progredire condiviso; Arbër Indigeni locali e Ambiente Naturale attorno alla pietra miliare che si innalza  per diffondere ristoro dal sole e dal vento, per procedere in comune convivenza.

Poi arrivano le cose di oggi, a noi il dovere di seguire le orme del passato, senza rinnegare il presente e preservare le cose dell’antica identità Arbër, per un futuro condiviso, in linea con le cose che tempo natura e uomini ci ha lasciato in eredità.

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LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

Posted on 12 dicembre 2021 by admin

Banda65

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel rievocare le vicende storiche di un ben identificato paese, (Katundë), generalmente si fa riferimento agli amministratori per definire epoche, fatti salienti, avvenuti tra le pieghe dei vicoli del centro antico, dove azioni e fatti hanno avuto luogo a germogliare.

In questo breve, per questo, non si faranno elenchi di primi cittadini, come di sovente avviene, in quanto, per gli argomenti e atti trattati non tratteremo di delibere, atti pretori e avvenimenti politici, ma riferiremo del consuetudinario storico e le certezze popolari per la sostenibilità dell’identità locale.

Alla luce della premessa fatta, renderemo note le gesta e l’impegno di comuni cittadini, i quali senza la necessità di essere eletti, si sono impegnati, o meglio, caparbiamente proposti per le loro attitudini, senza secondi fini e per questo  la memoria è andata smarrita, nonostante abbiano lasciato elementi identificativi indelebili per l’essenza di appartenenza locale valorizzandone i momenti salienti di sostenibilità culturale, quando le videro deteriorarsi.

Figure che per la loro convinta abnegazione ha reso possibile il riverberarsi secondo antiche consuetudini l’essere Arbër e non finire scambiati per indigeni o comunità arbëreshë confinante.

Di queste figure notoriamente esistono tre tipologie, che non vanno confuse o classificate unitamente, in un solo elenco, esse si possono classificare così come segue:

  • I Manovratori, sociali falsi tutori culturali, mirano a distruggere figure terze; i cattivi.
  • Gli Ingordi che appaiono non come fedeli, ma vili figure striscianti e velenose; gli ignoranti.
  • I Giusti, cresciuti vicino al focolare materno e per questo sono memoria storica pura; la radice.

La prima categoria: i cattivi o”irriducibili”, la più dannosa, genera sin anche la seconda, gli ignorati, ”giullari ” i quali creano veli invisibili utili a coprire le malefatte dei primi.

Malefatte prodotte alla luce del sole, in pubblica piazza, queste generalmente appaiono come vangelizzatori  esperti, si camuffano nella voce dell’olimpo locale, nonostante sia palese la loro falsità, in quanto attingono il liquido del sapere dalla radice senza avere educazione, formazione culturale per riverberarle con adeguata misura e utilità, in altre parole attingono fango.

Poi sono, quanti cresciuti attorno al focolare, gestito dalla regina della casa, in altre parole la memoria storica vivente, gli eredi delle cose buone, l’essenza del passato, in definitiva, tutto quello che non può essere compreso dai comunemente con il solo udito, perché serve l’armonia dei cinque sensi, che non fa parte della loro natura.

Della prima e la seconda categoria, tutti dediti all’ignorare i cinque sensi, non prendono consapevolezza del fatto che non saliranno mai sul palco della storia, per cogliere l’essenza dell’armonia che crea fratellanza e fini comuni, la forza del buon mutuo soccorso culturale, radice sempre pronta a germogliare della cultura Arbëreshë.

Diversamente dai pochi che fanno parte della terza categoria: le solide fondamenta delle azioni messe in atto dal quarto decennio del secolo scorso; i primi, che del male e del personalismo a tutti i costi, ne fanno una regola di vita,  un breve accenno va fatto:

  • Se da giovincello tradisci il tuo migliore amico e invece di scusarti preferisci per cinque anni, percorrere fianco a fianco la stessa strada della scolarizzazione, ogni mattina e ogni pomeriggio, per ben dieci chilometri a piedi, rimanendo sempre fedele al tuo tradimento, cosa può dare da grande un individuo simile, quando capita di gestire il bene comune, continuando caparbiamente ad essere lo stesso scolaretto arrogante e inutilmente intelligente.
  • Se si cresce sotto la guida del cattivo, innalzi presidi della cultura e del ricordo, non per unire figure per il confronto, ma solo per trovare risorse da quelle cose che gli ignari donano e da ignorante tieni tutti nel circoscritto della detta corona.

Dovendoli prima o poi, porre all’attenzione delle nuove generazioni, i citati seguono percorsi trasversali utili alla cultura, traducendosi in pura ignoranza, la stessa che circola tinta di vergogna, ma e da vita, al cuore e alla mente, di queste figure ignobili; venditori pubblici per profitto privato, coperto dai veli di penosi manufatti in filati, stesi di notte ad asciugare per vergogna e di giorno coprire , le male fatte prodotte a nome e per conto della comunità.

A questo punto è giunto il momento elevare le figure sane, cresciute vicino al focolare materno, lo stesso che per natura, non genera il male, in quanto per la solidità culturale genera  bene comune, fatto di memoria ed essenze buone quelle che si raccolgono nell’orto botanico di casa propria, posto appena fuori di casa ma non lontano dal camino.

Per riferire dei “buoni” della storia del piccolo paese è bene ricordare che ristabiliti gli equilibri e rimarginate le ferite del secondo conflitto mondiale, inizia la nuova stagione di eventi forte e solidale, oggi poco rievocata nei meriti e le figure protagoniste in prima linea, le stesse  che posero in essere, sulle orme della memorie del passato quanto di meglio il centro storico e le contrade posseggono ancora.

A ridosso del quarto decennio del secolo scorso, ebbe inizio, la campagna identitaria dei luoghi Italiano, traducendo sin anche la denominazione ”Touring Club Italiano (TCI)” in “Consociazione Turistica Italiana (CTI)”, ebbe avvio la stagione delle attività, con finalità di sviluppo turistico del Sud, anche il piccolo centro antico facente parte della regione storica diffusa arbëreshë pianificò attività della radice locale affiancandole al nuovo in evoluzione.

Tra queste va ricordata la memoria toponomastica, per rendere merito alle genti del passato, costruite strade, servizi primari, quali acquedotto sistema fognari ed elettrificazione pubblica e privata, in oltre si adoperarono per intervenire nelle contrade e portare l’energia elettrica e innalzare chiese,  contestualizzare costumi, religione e persone del passato, istituendo feste secondo il calendario bizantino, furono istituiti il Gruppo Folcloristico e la Banda Musicale.

Pur se questi emblemi della consuetudine odierna ancora in atto, sono pochi a ricordare o rievocare le gesta, sin anche nell’assoggettarle a un evento o una opera da essi finalizzata, nonostante siano state l’esempio indelebile dell’identità locale ancora viva.

Nomi come R. Baffa, G. Baffa Caccuri, P.Caruso, G. Capparelli, T. Miracco, A. Bugliari, i Ceramella, D. Baffa Trasci, M. Decaro, P. Miracco, G.Pizzi, A. Trotta, F. e A. Filippelli, E. Azinnari, D. Preite, O. Colistro, R. Baldini, sono figure di un fiorente periodo, colmo di aneddoti perché pietre miliari del valore storico locale, impegno personale, camice sudate, scelte fondamentali, caparbia convinzione, sono gli ingredienti, il cui fine conduceva esclusivamente al bene fatto di memoria solidale del paese.

Un vero e proprio romanzo che ha avuto come scenario le quinte del centro antico, lo stesso che in altro tema, sarà resa più chiaro la storia, visto lo stato delle cose e gli avvenimenti attuati, per la tutela e la valorizzazione locale, onde evitare di essere confusi con i litirë.

Oggi sono troppi a non conoscere quali siano i figli di quel focolare antico che le sapienti madri, anche se non in vita, continuano ad amministrare fermando i tempi tenendo quel fuoco acceso che si traduce n memorie dei caparbi figli.

(*) I Paesi arbëreshë storicamente si identificano come Katundë, letteralmente luogo + movimento, confronto, cooperazione,  è inopportuno indicarli come Borghi o altro appellativo “Fuori Luogo”, sia dal punto di vista Storico, di tempo e di luogo, sia perché inizio dei centri abitati nati senza murazioni o confini e impedimenti di altro genere.

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LA MENSA DI FERRANTE

LA MENSA DI FERRANTE

Posted on 12 novembre 2021 by admin

La mensa di FerranteNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Il canonico napoletano Carlo Celano  nell’opera “Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forestieri”, pubblicata nel 1692, descrivendo Castel Capuano, destinato ai Tribunali del Regno, scrive: Nel cortile, presso la porta picciola vi si vede un leone di marmo, che sta sopra diverse fonticelle; e queste erano l’antiche misure del vino, dell’oglio, e d’altre cose simili, che si vendeano da bottegai.

Notizia è confermata da Giuseppe Sigismondo che nel libro Descrizione della Città di Napoli”, edito nel 1788, così narra: D.  Pietro  Toleto poi volendo unire  tutti i Tribunali, né trovando luogo più opportuno quanto il vecchio Castello di Capuana, se lo fe cedere dal Principe di Sulmona, con dargli altro Palazzo nella strada detta  della Incoronata verso il Castel Novo; con grandissima spesa lo ridusse comodo a tal’uopo,e nel 1550 vi trasportò i Tribunali, cioè la Gran Corte della Vicaria Civile, e Criminale, La Regia Camera della Summaria, quello della Regia Zecca dei pesi e misure, quello del Bajulo, ossia della Bagliva, ed il Sacro Regio Consiglio: dopo vi  fu unito anche il Tribunale del Commercio come diremo a suo luogo.

In un lato del Cortile vi si osserva un Leone di marmo sopra di un piedistallo anche di marmo, nel quale, e propriamente sotto al leone suddetto, si osservano le antiche misure di Napoli, cioè tomolo, mezzo tomolo, quadra, ecc., e vi si legge scolpito:

Ferdinandus Rex

In utilitatem Reipublice

Has mensuras per Magistros Rationales

Fieri mandavit.

Maggiori dettagli li fornisce Ferdinando Visconti, che nel testo del sistema metrico della Città di Napoli e della uniformità de’pesi e delle misure che meglio si conviene a’ reali dominj di qua dal faro, scrive: Non si conosce documento alcuno che stabilisca con precisione la grandezza de’ pesi e delle misure presentemente in uso nella città di Napoli; ma ci è noto che le dobbiamo agli Aragonesi, poiché nel cortile del Castello Capuano, ora Vicaria, esiste un gran masso parallelepipedo di marmo, ove sono incise ed incavate le varie misure che dovevano servire da archetipi in tutto il regno. Le misure incavate sono ormai così guaste che nulla si può trarne sulla vera e precisa loro capacità; e le misure lineari non più vi si scorgono perché logore affatto, rimanendovi soltanto qualche indizio di esse e delle di loro denominazioni.  Quelle  misure  furono  in  tal modo determinate e conservate come originali campioni, ed autenticate con una iscrizione in parte or logora ma che abbiamo tratta da una memoria sulla uniformità de’ pesi e delle misure diretta nel 1787 a Ferdinando I di gloriosa memoria dal chiarissimo Melchiorre Delfico.

L’iscrizione è la seguente;

FERDINANDUS . REX . IN . UTILITAT

EM . REI . P . HAS. MENSURAS . PER . MAGIST

ROS . RATIONALES . FIERI . MANDAVIT.

È questi Ferdinando I d’Aragona che successe ad Alfonso I il magnanimo, e che regnò dal 1458 al 1495.

Sul marmo suaccennato vi erano scolpiti gli stemmi aragonesi, che appena vi si distinguono presentemente.

Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra. Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più notabili miglioramenti posteriori fino al presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Or è d’uopo sapere, che questo allegorico simbolo esprimeva il potere della Polizia Municipale sull’economica distribuzione delle nostre misure del vino, dell’olio e di altri liquidi ed aridi, che da’ bottegai al popolo si vendevano.

È tradizione che tali fossero le antiche nostre misure, quali erano quei recipienti incavati a piè del leone.

Per buona sorte nella distruzione dei nostri patrii monumenti, questo marmo fu salvato; che se vediamo tuttora a terra dimenticato il leone (di ben ordinario scalpello) il cippo trovasi custodito nel R. Museo Borbonico, dove fu trasportato nei primi mesi dell’anno 1849.

Savio divisamento fu questo ove si consideri, che se il passo geometrico di ferro fu, come dicemmo, incastrato in una delle colonne del Duomo acciò inviolabilmente custodito vi rimanesse; e se le misure in discorso furono collo stesso fine collocate nella corte del Palagio di Ma nel 1856 nel cortile di Castel Capuano si ritrova il solo leone poggiato a terra.

Giovanni Battista Chiarini, infatti, nel ripubblicare l’opera del canonico Carlo Celano con aggiunte de’ più  notabili  miglioramenti  posteriori  fino  al  presente estratti dalla storia de’ monumenti e dalle memorie di eruditi scrittori napolitani, nel descrivere dettagliatamente Castel Capuano, così afferma: Nel fondo del cortile al lato d’oriente vedevasi un basamento di marmo con alcuni piccoli vasi, ai quali sovastava il geroglifico  simulacro  d’un  leone,  indicante  esser provvedimento di Re Aragonese, perché in realtà il nome del primo Ferrante tuttavia si legge in questi sensi:

FERDINANDUS . REX

IN . UTILITATEM . REIPUBLICAE

HAS. MENSURAS . PER . MAGISTRATOS  . RATIONALES

FIERI . MANDAVIT.

Poiché non sono riuscito a trovare immagini o disegni, mi son messo in giro alla ricerca dei tre pezzi: il leone, il passo geometrico di ferro e la mensa ponderale.  

In verità ho rinunciato ben presto al leone perché essendo di ben ordinario scalpello potrebbe  essere  finito  ovunque  ovvero  in  nessun luogo e, considerando che la città di Napoli, tra luoghi pubblici e murature o giardini privati, è ricca di leoni, in mancanza di qualsiasi indizio, sarebbe più arduo che cercare un ago in un pagliaio.

Il passo geometrico di ferro (passus ferrus) l’ho visto. Si trova incastrato nell’ultima colonnna destra della navata sinistra del Duomo. D’altro canto lo stesso Carlo Celano, nell’opera già richiamata, descrivendo la Cattedrale, scrive: Ed in  una  colonna  scannellata di bianco marmo, che sostiene il primo arco dalla parte del Coro, vi si conserva il passo geometrico Napolitano in ferro: in modo, che negli antichi istromenti, quando si vedeva qualche Territorio da misurasi, si diceva: Ad passum Sanctæ Ecclesiæ Neapolitanæ.

Prima di procedere alla ricerca della mensa ponderale, un parallelepipedo di marmo piuttosto pesante, mi son fermato a considerare qualche data.

L’apparato fu realizzato durante il regno di Ferdinando (o Ferrante) I d’Aragona, che divenne re di Napoli nel 1458 alla morte del padre Alfonso I.

Pochi cenni biografici dicono che era l’unico figlio maschio di Alfonso I il magnanimo, ma, ahimé!, illegittimo; il padre non si perse d’animo: lo legittimò e lo fece dichiarare erede al trono, ottenendo anche l’assenso di ben due papi, Eugenio IV e Niccolò V.

Non c’è da meravigliarsi: erano i tempi.  

Lo stesso Ferrante ebbe due mogli, otto figli (sei dalla prima e due dalla seconda) e un numero imprecisato di figli illegittimi

Per metà era napoletano, perché la madre, Gueraldona Carlino, era di origini partenopee.

Regnò per 36 anni fino alla morte nel 1494.

Riprendo la ricerca della mensa e mi reco al Museo Archeologico, dove Giovan Battista Chiarini afferma che è stata trasportata nei primi mesi dell’anno 1849.

Non c’è. Che fine ha fatto? Nessuno lo sa dire.

Io sì. L’ho trovata, poco distante da dove doveva essere: è sistemata dinanzi all’ingresso dell’Istituto Paolo Colosimo per ipovedenti, che prospetta sulla facciata settentrionale del Museo Archeologico, ma a una quota nettamente superiore.

Chi l’ha fatta trasportare in quel luogo e perché e quando? È all’aperto, senza alcuna protezione e appare in condizioni più precarie di quelle descritte dal Chiarini (maltrattato dal tempo e quasi distrutto).

Sul piano superiore sono scavate otto semisfere di diverse dimensioni, delle quali alcune, quelle destinate ai liquidi, hanno un foro di scolo sulla faccia   laterale più piccola

Su una delle due facce laterali più grandi sono riportate a rilievo due anfore biansate per la misura del vino e dell’olio.

Sulla faccia opposta vi sono tre stemmi: in quello centrale si riconoscono le armi degli Aragonesi.

Sopra gli stemmi vi è la scritta su tre righi già letta nei libri degli storici, dei quali solo il Visconti riporta correttamente anche gli accapo, ma che confessa di non essere riuscito a leggerla bensì di averla riportata da una memoria del 1787 di Melchiorre Delfico.

Dall’iscrizione, però, è stato scalpellato il nome del re (FERDINANDUS  REX), a mo’ di damnatio memoriae.

Troppe incognite circondano ancora questo pezzo di marmo, che gli studiosi sono certamente in grado di derimere.

L’importante è averla individuata, onde procedere al più presto al suo ripristino, essendo una testimonianza unica di un periodo storico fondamentale per lo sviluppo della città di Napoli e della sua società.

La sua sede naturale è il cortile di Castel Capuano

 

 

 

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