Posted on 19 novembre 2022 by admin
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Posted on 13 novembre 2022 by admin
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Posted on 09 novembre 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due storie dei trascorsi che abbracciano l’intero mediterraneo e per questo anche tutte le minoranze storiche:
a noi studiosi il compito di rendere nota quale sia la vera storia e cosa è menzogna, senza arricchire il riferito con il contributo di eroi e nascondere le macchie in sangue di quanti per aver creduto in una missione sono presentati come comprimari di secondo ordine.
Gli elementi sono molteplici e si presentano in diversa caratura, ma il teorema più elevato, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli Arbër, depone la Gjitonia, nello stesso nido sociale degli indigeni, considerandola simile, uguale o equipollente al Vicinato, assegnando così al componimento di thema, il ruolo fondamentale dell’approssimazione, oltremodo priva di senso, sminuendo, così tutte le altre di simile radice.
A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, quanto svoltosi o accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire, in tutta fretta, l’inadatto teorema, copiando nei temi Olivettiani e accedere con poca fatica, tra gli eletti della 482.
Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati ad apparire con forza, inventarono cosa fosse, caratteristica e caratterizzante la minoranza, quest’ultima per una mancanza legislativa, non difende neanche gli Arbër, la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari l’8 Agosto del 1991, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta e non di Albanofoni o Arbër.
In oltre i cultori dell’epoca, ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, a cui legare le cose con spago di canapa richiamando la: Gjitonia, senza mai parlarne in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno che da ora i avanti intorbidirà ogni cosa.
Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i borghi Arbër, quando nessuno di questi così descritto e riportato sia mai appartenuto alle cose degli Arbër.
Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza e correggere ogni cosa, vocabolari di area compresi, oltremodo compilati all’incontrario, per una vasta platea ancora analfabeta.
Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che ancora non fa parte degli articoli della 482, riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare A. Olivetti, con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignoti a molti operatori e amministratori moderni se non per copiare “vicinato” dalla profess. Lidia De Rita .
Avere un numero ampio di esperti, che studiano e intrecciano dati storici, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico.
In altre parole il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le trasformazioni relative al “tema ambientale ad opera dell’uomo”, capace di fornire le certezze sino ad oggi accantonate.
Per iniziare il discorso di tema, è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, ma che non gode di diritti, ne prerogative che spettano a quelli di istituzione locale, infatti gli unici diritti a loro affidati sono la dirigenza di un ristretto ambito in forma di cose sociali e associative, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.
I Katundë arbër (villaggio, paese, contrada, frazione, vico casto) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista della direzione espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca del vicolo.
La differente mentalità nel modo di insediarsi, diversamente dagli indigeni, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza o lascito in tal senso, confonde le cose della storia, il sociale e di credenza.
I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:
Va in oltre precisato che la Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa, si espandono in ogni dove e genera l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi, secondo note armonie di cose.
Il valore spaziale dell’identità Arbër si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.
Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali secondo il proprio identificativo di genio, iniziarono a edificare le prime i primi abituri in forma estrattiva e poi additiva, con il senso di legarli alla terra di origine e di quanto innestato nei trascorsi storici di luogo.
All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.
Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.
Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.
La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.
Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu); l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).
Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.
A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.
I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.
Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.
Quando erano al termine i lavori per la definizione della legge 482 del 1999, secondo quanto sancito dell’art. 3 – 6 della Costituzione Italiana, e suggerito della Comunità Europea, gli stati generali arbëreshë iniziarono a fermentare, come fa il mosto, prima di fare vino.
Per l’evento, di tutela secondo la citata legge, serviva caratterizzare la minoranza con un sostantivo tipico, che avrebbe dovuto dare valore alla “Regione storica diffusa Arbëreshë”.
Identificando quale volano il sostantivo “Gjitonia”, dove valorizzare la minoranza, al fine di rendere noti i minori ai maggiori, perche unici detentori di un protocollo sociale di inestimabile valore, da ritenersi tra i più longevi delle terre che perimetrano il mediterraneo centrale.
Il personalismo purtroppo a questo punto ha preso il sopravvento, sulla ragione e invece di aprire un tavolo di indagine composto da commissione multi disciplinare con solide capacità interpretative sia in campo linguistico, e di specifiche discipline, si è preferito procedere in ordine sparso.
E quanti dovevano panificare, iniziarono la ricerca del ”criscito madre perduto”, peregrinando lungo Rioni, Quartieri, Vicoli, Strade, Sheshi o addirittura senza meta, terminando la corsa tra gli ambiti indigeni che imprecavano parole brutte contro i ladroni di identità e terra.
Allo scopo e per togliere ogni sorta di dubbio è opportuno specificare che “Gjitonia”, non è Rione, non è Quartiere, non è come il Vicinato, non è “uno sheshi a forma circolare che unisce la corale convivenza delle porte per accedere alle proprie abitazioni” ne un paradossale trittico architettonico e ancor meno il festival delle porte aperte a manzaportu (lingua Zamandara).
Nella comune conversazione della nazione comunemente detta Arbëria (???) viene definito lo Sheshi come piazzetta, purtroppo, anche in questo caso si avvolgono senza attenzione dinamiche compositive in senso di spazio, a dir poco paradossali come un quartiere, senza avere una cognizione storica o grammaticale del sostantivo o di altri ad esso associati, simili o equipollenti.
Partendo dal dato storico che ogni “rione” prima di essere tale, era uno spazio delimitato da un recinto di materiali naturali, quali tronchi e rami intrecciati, entro cui trovo rifugio il gruppo familiare allargato, come si ricordava di organizzarsi in terra di origine Balcana.
Al suo interno, era allestita la rudimentale abitazione in forma estrattiva, l’orto botanico e le attività della filiera corta, che qui terminava di comporre e selezionare le parti più genuine degli alimenti.
Quando le attività messe in atto, consentirono al gruppo familiare allargato, di crescere di numero, questi iniziarono a proporre lo stesso modello di residenza passando dal’antico modulo estrattivo al nuovo additivo, quest’ultimo in specie, passò dai materiali deperibili dell’era del nomadismo a quelli naturali duraturi come calce e pietra dell’epoca del definitivo stanziamento.
È da questo momento che inizia a svilupparsi il rione, traccia di planimetrie antiche, rimanendo sempre privo di murazioni, barriere per la difesa o porte.
A tal fine va rilevato che dal 1563 le autorità locali dei Katund, ricevettero imposizioni regie in tale direzione, ma per l’economia corrente non furono mai applicate, se non sprazzi di muri o abitazioni, che per il tipico orientamento lasciavano elevati murari senza aperture a piano terra, dando l’impressione di opere eseguite in tal senso, ma poi i terremoti e le carestie fecero volgere l’interesse su altre priorità.
E’ lo stesso impianto urbano in allestimento a risponde sia alla esigenza difensive sociale e abitativa, come insegnavano le Shekite religiose e gli Sheshi; ed è così che vennero innalzati agglomerati diffusi, in forma ed espansione secondo il concetti del labirinto in schema di Medina.
Strade strette e case addossate diventarono una secessione di dogane, perennemente attive; funzione che ogni abitante del rione svolgeva attraverso la porta gemellata con l’indispensabile finestrella, che non seguiva il disciplinare della tassazioni, ma consensi sociali.
Tanti luoghi di avvistamento diurno e notturno, svolgevano senza soluzione di continuità l’atto della difesa, attraverso lo spazio costruito dei residenti che vi abitavano all’interno dello Sheshi; il Labirinto, come gli Arabi prima degli arbëreshë negli anfratti prospicienti il mediterraneo erano solito innalzarli per difesa.
Da ciò si evince che lo “sheshi non è uno slargo non è una piazzetta non è solo il tema che compone il modello urbanistico arbër”, ma un sistema raffinato e articolato, fatto di costruito irregolare, intrinseco per la difesa, contro ogni forza avversa; sia esso di radice naturale, come precipitazione, irraggiamento solare, esposizione eolica o derivante dell’uomo con intenzioni di ferire e sottomettere.
Alla luce di tutto ciò, “Gjitonë” non è da ritenere l’avversario di se stessa, veicolando per questo, forme di razzismo, tra parenti, che non trovano ragione d’essere, se non in discriminatori concetti, comunemente divulgati, per privi di ogni formazione o forma di scolarizzazione, attraverso comportamenti non dei maestri, ma degli operatori scolastici di terzo grado.
Un altro stereotipo, di cui si fa un grande parlare, sino a varcare i limiti della blasfemia, prende ragione nel principio secondo cui la Gjitonia, porta un nome di un luogo o di una persona a memoria, preceduto dal suffisso “ka”.
L’errore storico arriva al punto tale da scambiare il “laboratorio ideale di ricerca dell’antico ceppo familiare” su base dei cinque sensi, con un episodio toponomastico di tempo associato ad un luogo o una persona.
La ricerca dell’antico identificativo arbër, dell’ideale spazio non identificato fisicamente è riassunto dalla frase: Gjitonia; sin dove arrivano i sensì; l’enunciato venne intercettato in una ricognizione presso un Katundë della destra Crati, durante un’intervista a una, ultra novantenne, che descriveva e parlava dei cerchi concentrici dell’armonica forma sociale, dove lei si riconosceva perche li identificava nelle prospettive libere e ne sentire, volendo significare con il sentire i quattro sensi dopo la vista.
La ricerca, condotta da un noto antropologo latino e da giovani allievi arbër, per inesperienza di questi ultimi, venne riferita all’antropologo professore, secondo una sintetica traduzione incompleta di quanto voleva intendere l’anziana donna.
È proprio questa espressione che mi è stata lasciata in eredità dal professore, in una delle ultime conversazioni nel 2009 , dicendomi; ho fatto tanta ricerca sul campo e non sono stato mai convinto, di fare bene, ma una frase mi ha sempre perseguitato e non riesco a dimenticare; “gjitonia dove vedo e dove sento”.
Risposi al professore che l’aveva intercettata e trascritta, tradotta male dai suoi allievi, giacché per gli arbëreshe vedere e sentire sono semplicemente i “cinque sensi”.
Ragion per la quale, gjitonia è un luogo ideale senza confini, sin dove la vista, il tatto, gli odori, i suoni, i sapori, restano identificabili e non mutano; essi sono la memoria di crescita e una volta che ti hanno avvolto, continuano ad essere vivi nella tua formazione, se poi questi sono intercettati da quanti li avvertono ordinatamente secondo gli antichi dettami Kanuniani è il segno distintivo che appartieni alla minoranza arbër, i pochi che ancora oggi con impegno e credenza difendono e tutelano.
Per riassumere: “gjitonia è un luogo identificato attraverso i cinque sensi, sensazioni per le quali e attraverso i quali riconosci la memoria e il segno del tempo associato al bagliore che indica la strada giusta ai sensi”.
In tutto possiamo affermare che Gjitonia rappresenta una cassa armonica di natura senza confini, si attiva tutte le volte che la lealtà di quanti ti stanno a accanto, aprono scenari antichi di suoni, sapori, sensazioni, odori e ti accompagnano, in tutto le cose indispensabili che fanno avvertire ogni cosa che ti avvolgeva di una storia antica.
Non è la forma della piazza, non è la regolarità della strada, né la qualità del costruito che ti circonda ad attivare il sentimento antico, ma è l’insieme armonico che si sviluppa, quando natura, tempo e uomini usando i sensi per condividere presente e futuro secondo antiche consuetudini in arbër, che pochi sanno come tramandare.
P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»
– Giacomo Leopardi-
Commenti disabilitati su GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)
Posted on 02 novembre 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due versioni della storia:
Gli elementi sono molteplici, ma il teorema, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli arbër, vorrebbe la Gjitonia, simile, uguale o equipollente al Vicinato è la più approssimata, instabile e priva di senso che sovrasta tutte le altre.
A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, la polvere nascosta sotto il tappeto, come fanno le massaie, quando ricevono preavviso di tempo insufficiente, per preparare casa e ricevere degnamente gli ospiti.
Com’è accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire in tutta fretta l’incauto teorema, copiando nei temi Olivettiani, per accedere con poco impegno, tra gli eletti della 482.
Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati e per apparire, dovevano inventare almeno una cosa, caratteristica e caratterizzante la minoranza, che per una stranezza legislativa, non difende glie Arbë la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari nell’estate del 1999, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta.
In oltre gli storici dell’epoca ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte e illuminate, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, la bitta, il chiodo ( Koshëda in Arbër) a cui fissare ogni cosa con: Gjitonia e parlate mai in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno.
Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i quartieri dei borghi Arbër.
Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza.
Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare Olivetti con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignota a molti operatori e amministratori moderni.
Avere un numero ampio di esperti, che studiano, intrecciano dati storico, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico, quella che si intende come il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le vicende di trasformazione che conducono al costruito del “tema ambientale ad opera dell’uomo”, fornirebbe le certezze sino ad oggi negate.
Per iniziare il discorso di tema è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, sempre simile, ma comunque che non gode di diritti, ne prerogative che hanno gli aventi ruolo e grado, ovvero, infatti gli unici diritti a loro affidati affidato sono la dirigenza di un ristretto ambito, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.
I Katundë arbër ( paese, contrada, frazione) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca,
La differente mentalità nel modo di insediarsi rispetto agli indigeni locali, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza, storica, sociale e di credenza.
I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:
Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est a Ovest comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolgendo tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica; unendo in questo ambito individui di radice multi locale, in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato del semplice mutuo soccorso”.
La Gjitonia è composta da gruppi familiari allargati, che s’insediano nelle stesse aree, secondo precise e storiche disposizioni; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi assumono uno specifico ruolo, secondo capacita e forza di corpo e d’animo, i cui diritti e doveri sono finalizzati per la sostenibilità dei gjitoni, in armonia e nel pieno rispetto del territorio.
La Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in essere in quegli spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa e si espandono in ogni dove si riesce a generare l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi.
Diversamente dai valori spaziale dell’identità Arbër che si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.
Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali oltre il genius loci, iniziarono a edificare le prime case in muratura con senso della terra di origine e di quanto delineato dai trascorsi storici del luogo.
All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.
Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.
Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.
Di estrazione Arbanon, gli Arbër sono la dinastia che proviene degli Stradioti (i soldati contadini), ancora presenti nel meridione italiano, sostenute, secondo la sola forma orale, ritmata dalla consuetudine, la metrica del canto e la religione Greco Bizantina.
Per quanto attiene agli aspetti abitativi, la minoranza Arbër si può ritenere pioniera italiana del principio di “città diffuse” o “impianti urbani Aperti”.
Questi insediandosi in questa lingua di terra multietnica, nel corso del XV, per la diaspora in corso, ripopolarono quelli che erano i resti di antichi insediamenti ormai segnati da pochi elementi in elevato oltre la chiesa, a media distanza dei più solidi Borghi amministrativi e del potere politico locale.
Si disposero in sette regioni del meridione secondo “Arche strategiche” con finalità ben programmata, realizzando così, quella che oggi è identificata come “La regione storica diffusa Arbër”, sedici macro aree, di cui fanno parte oltre cento agglomerati urbani tra paesi (Katundë in arbër) e frazioni (kushëth in arbër) tutte territorialmente distanti dalle aree paludose (Fushëth in arbër).
La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.
Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu); l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).
Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.
A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.
I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.
Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.
P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»
– Giacomo Leopardi-
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Posted on 18 settembre 2022 by admin
NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Le cose e gli elementi caratteristici che uniscono luogo e i suoi abitanti, non vanno raffigurati sugli edificati storici e non, scambiati come mera pubblicità corrente o diffusa, addirittura, attraverso i media senza alcun fine di tutela di luogo o consuetudini di radice.
Le cose e il ricordo dell’identità culturale, se sono veramente parte di quanti vivono e promuovono, un ben identificato territorio, devono avere un posto in prima fila, nei cinque sensi di quanti sentono il dovere di rispettarli; promuove e divulgare le cose del passato senza l’ausilio di apparati e manifestazioni correlate, si termina nell’atto di infangare i preziosi costumi del luogo senza nulla ottenere.
I personaggi della nostra storia, ci appaiono nelle prospettive, della cultura vera, come indicatori in luce solo dove la storia ha avuto luogo e non come di solito avviene, in ambiti che non possono contenerla, facendola riverberare o riflettere come fastidioso abbaglio rivolto al viandante, che li accoglie come fastidiosa distrazione e nulla più.
Un grande condottiero raffigurato sul suo storico destriero con gli emblemi di Zeus e non quelli dell’ordine cui era legato e garantirono la prosecuzione della sua specie è un errore storico a cui non vi è misura di vergogna.
Certo che facendo apparire lo storico destriero, a modo di mulo, in procinto di trasportare sul basto, espedienti di luce naturale in forma di finestre e lucernari, tatuato con toponomastica di Santi moderni e avere briglie di cavi elettrici, non è certo un bel vedere, per promuovere storia e territorio di un’ipotetica fratellanza con il terminale di sostantivo in “ria”, noto nel linguaggio non scritto, come espressione dispregiativa di refluo, di cose e persone, non contribuisce positivamente a tramandare la storia non scritta.
Non si possono più tollerare figure curricolari, che dicono di sapere cose e finiscono per parlare di altro, ne titolati che dopo il traguardo di non sacrifici, si inventano a casa i titoli immaturi, ingannando sin anche i propri parenti, di essere quello che non si è, e no lo sarà mai, per la ristrettezza o la totale mancanza dei cinque sensi.
Ormai dilagano suonatori seriali in tamburiate che non sanno dell’esistenza di Vincenzo Torelli, storico critico musicare di origine Arbër e della differenza che passa tra canto musica e ballo, ignorando addirittura gli appellativi storici scambiati per insalata di cose senza condimenti.
E come non si può essere d’accorso con Pasquale Baffi quando nel 1787 scriveva e dopo in uno dei “Prestiti del 1807” ripetevano:
“L’esame dei costumi fa conoscere l’uomo; la somiglianza dei barbari, la differenza dei popoli colti, i lenti progressi del sapere umano,l’influenza della indole sulla morale e sulla politica, la facilitazione o l’ostacolo dei costumi alla cultura e al benessere di un paese, questi sono gli oggetti più grandi che possa avere in mira il sensato filosofo.
Un Paese una Nazione quanto famosa altrettanto poco conosciuta, che per secoli e secoli non ha alterato, né la sua indole, né i suoi costumi e sempre in mezzo ai popoli colti ha ritenute e tuttavia ritiene le usanze barbariche, merita certamente l’attenzione dell’uomo di lettere”.
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Posted on 31 agosto 2022 by admin
NAPOLI – (di Atanasio Pizzi Basile) – Santa Sofia d’Epiro è un centro abitato della provincia di Cosenza, quest’ultima un tempo identificata come Calabria citeriore.
Il Katundë di origini Arbër, nasce tra le colline della Sila Greca, che guardano lo Jonio, coronato dalla storica piana della Sibaritide.
La fondazione del piccolo agglomerato urbano è largamente anteriore alla venuta degli Albanesi o a quella ancor prima, della schiera di soldati greci di fede bizantina insediatisi nell’869.
A tal proposito va rilevato la vara origine del sito, risalente alla fine del VI secolo a.C., in rapida successione alla nascita di Sibari e del relativo sistema difensivo/produttivo, infatti la piana prospiciente il mare, dove Sibari venne edificata, era coronata verso l’entroterra, da una strategica cerchia di castelli a guardia dei valichi fluviali, che sfociavano prima alle spalle del sito della Magna Grecia e poi a mare.
Tuttavia e nonostante ciò si far risalire il centro abitato, quale opera di un gruppi di soldati disposti a difesa della linea del fiume Crati, insediatisi lungo le colline dalla linea Rossano, Bisignano e Cosenza, per contrapposti ai Longobardi.
I soldati bizantini, trovavano sicurezza allocando i loro stati maggiore più verso monte, per non essere facilmente esposti agli avversari sul fronte più a valle e subire gli effetti dalle Anofele, che nella media e lunga permanenza diventavano letali.
Il Centro abitato in origine composto dalla chiesa e rudimentali abitazioni, nominato Santa Sofia, a memoria della chiesa madre di Costantinopoli da cui partivano gli impulsi di credenza.
Dopo un iniziale sviluppo e accrescimento demografico, la piccola comunità subì le pestilenze e i travagli dell’epoca, di cui le cronache della Calabria citeriore del XIV sc. riferiscono numerosi dettagli ancora leggibili in loco.
I territori rimasero sottoposti a un rilevante calo demografico e conseguentemente economico, innescarono processi negativi per le casse dei nobili locali, che dovevano rispondere al governo centrale.
L’alternativa per porre rimedio a questo stato di povertà territoriale diffusa, la fornirono le migrazioni dai Balcani e le vicende della nascente diaspora arbanon, che dal 1468, questa popolazione per seguire la vedova di Giorgio Castriota, a frotte, sbarcarono nelle coste del regno di Napoli e di più nella Sibaritide.
Il Mons. Giovanni Frangipani, vescovo di Bisignano, favorì per questo l’insediamento di profughi provenienti dall’Epiro, noti per essere fedeli lavoranti e luminari nell’arte di predisporre il noto e famoso trittico, alimentare mediterraneo.
La storia del Katundë Sofiota, è costernata da atti, attività, cose e figure la cui meta principale mirava alla tutela e la valorizzazione della lingua, le consuetudini, i costumi e il rito Greco/Bizantino, per i quali e con i quali, Santa Sofia d’Epiro si è meritato l’appellativo di “Scuola”.
I primi adempimenti dei suoi residenti, in poco tempo integratisi con le genti indigene, hanno definito gli spazi dei quattro rioni tipici, il riconoscimento dei gruppi familiari allargati e la definizione del loco dei cinque sensi: la Gjitonia, elevando così il costruito dell’originario “centro antico” come quello della terra di origine.
Per giungere a ciò, non sono mancate le avvertita sia naturali e sia innescate dall’uomo, tuttavia, la caparbia e la tenacia che distingue questo popolo, ha fatto si che dal XVII al XVIII secolo, poterono intraprendere la via della cultura e della formazione, grazie al prelato Giuseppe Bugliaro, che per le sue attività religiose all’interno della Real Macedone nella Napoli Onciaria, accolse le menti più eccelse, suoi conterranei, per avviare il percorso culturale, che la storia definisce senza eguali.
Sono sempre figure Sofiote a innalzare il valore culturale dello storico collegio Corsini, deponendolo contro numerosi avversari, nella sede più strategica a san Demetrio corone nel Collegio di Sant’Adriano.
È sempre Giuseppe Bugliari, ma questa volta un Vescovo di altra epoca, dopo oltre un secolo, ovvero alla fine del XIX, ad evitare, grazia alla sua sapienza, che tutte le attività e le conquiste ottenute dagli arbër andassero smarrite, senza poter avere una via di proseguimento.
Il centro storico del paese arbër, oggi segna lo scorrere del tempo lungo e del tempo corto, tramandando numerose tradizioni, civili e religiose; come ad esempio la grande festa dedicata a Sant’Atanasio il Grande, patrono del Katundë Arbër, i cui festeggiamenti, iniziano il 23 aprile e raggiungono il culmine, il due di Maggio, terminano la seconda domenica di maggio, con uno degli eventi più emblematici della coesione tra civiltà dell’era moderna, ovvero: la primavera Italo Albanese.
Momento di unione degli Arbër con gli indigeni locali, tutto legato a messaggi di buon auspicio e fraterna condivisione, cui Sofioti vicini e lontani credono, ricordano e partecipano con devote convinzione di cuore e mente.
Tutti uniti in processione, l’accorata filiera identitaria, la stessa dagli anni sessanta del secolo scorso, ad oggi non trova confini, segnando avvenimenti con i coloratissimo palloni aerostatici, gli stessi che ogni sofista, nel periodo di festa, sia esso vicino o lontano aiutato dalla memoria storica rivive gli epici momenti di unione cristiana e sociale, cantando coralmente: Dita Jote.
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Posted on 19 agosto 2022 by admin
(Tratto da: Immigrazioni Albanesi in Calabria nel XV secolo, Innocenzo Mazziotti) – All’improvviso crepitare di fucili il terrore aveva invaso l’animo degli abitanti, specie dei benestanti e dei filo-francesi; si fuggiva verso la campagna, verso i boschi, nei più impensati nascondigli. Nella gran confusione il Vescovo, che in quel momento si trovava nella casa dei parenti Masci e si avviava a ritornare nella sua dimora, fu fatto entrare da una popolana, Elisabetta Miracco, nella propria vicina casetta e nascosto in un magazzino interrato.
Mentre re Coremme con i suoi compiva le sue vendette mettendo a sacco e fuoco le case dei giacobini, prima di tutte quella del Ferriolo, Gianmarcello Lopes con i suoi sette sgherri era solo occupato a cercare il Vescovo; e su indicazione di una sua ex conterranea e donna di corrotti costumi, chiamata Bertina, riuscì a scoprire il nascondiglio del Vescovo e penetrare nel magazzino: «senza dar tempo a scrupoli religiosi, gridando “morte ai giacobini!”, GianMarcello, solo, egli solo, furibondo lo trafìgge con replicati colpi di pugnale e lo lascia esamine».
Dopo il delitto re Coremme con la sua banda, compresi Gian Marcello Lopes e i suoi sgherri, trascinandosi dietro il vecchio fratello del vescovo, Domenico Antonio Bugliari, raggiunsero Acri, dove il povero vegliardo fu ucciso e bruciato, come risulta dai registri parrocchiali della chiesa di Santa Maria di Acri (R. Capalbo, o. c. doc. XII).
Approfittando della vicinanza della massa dei briganti, i realisti di San Demetrio, evidentemente sobillati dai Lopes, saccheggiarono per la seconda volta il Collegio greco di Sant’Adriano, per loro “covo di giacobini
La tragica fine del vescovo F. Bugliari ebbe risonanza per tutto il regno di Napoli; fu menzionata, scrive il suo biografo, dal “Corriere di Napoli” (30 agosto 1806), dal “Monitore di Napoli” (2 settembre 1806) e lo storico cosentino Luigi Maria Greco nel primo volume dei suoi “Annali di Calabria Citeriore” riporta l’avvenimento e esplicitamente ne indicava i responsabili: «…Non la massa forestiera ma Albanesi di S. Demetrio mandatari di taluni dei Lopes, realisti dello stesso paese, Stefano G. Battista Chinigò con quattro altri concittadini, scoprendolo, uccidono crudamente il santo pastore […]. Grave perdita perché d’uomo religioso senza impostura e di alta mente; di uomo cui i profughi d’Epiro della Calabria dovevano lunghi anni di amore provvido e caldo.. .» (Greco, In annali I, pag. 27).
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Posted on 31 luglio 2022 by admin
NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile ) – Trattare il tema dell’Architettura Minore, non è un argomento semplice, perché nasce dal riassunto popolare, di quanti si sono adoperati ad estrapolare moduli abitativi dal costruito Maggiore.
Si può desumere che il costruito minore, rappresenta il sotto bosco, cui è attribuito il carattere identitario di case in continua evoluzione a partire dall’agro appena bonificato e pronto a germogliare.
L’insieme si potrebbe raffigurare a un bosco, dove gli elementi finiti, sono gli alberi ad alto fusto e tutto l’insieme in fioritura, specie quello prossimo alle superfici terrene si usa considerarle priva di valore e per questo mira di stravolgimenti, a favore dei sovrastati; “alberi di alto fusto l’Architettura Maggiore, la più emblematica e rappresentativa; il sottobosco con gli elementi più prossimi alle superfici calpestabile, l’Architettura Minore”.
Il sostantivo calpestabile, è stato volutamente usato, in quanto dalla nascita delle architetture minori, nulla è stato realizzato per la tutela di questi storici manufatti, nonostante il gran numero innalzati, lamentava l’urgenza di istituire un catalogo utile a definirne epoche, volontà, ruoli e materiali.
Creare un’istituzione con finalità di predisporre attività, che possano considerare storico non solo i palazzotti nobiliari nel suo insieme, ma la parte più intima , ovvero quella fondante il manufatto, nel corso della storia e la sua lenta crescita formale come ci appaiono oggi.
A tal proposito sarebbe stato utile aprire un nuovo stato di fatto in rilievo, grafico, materico e distributivo, che potesse rendere chiaro ai tecnici, le imprese e gli operatori e istituzioni locali, per evitare manomissioni gratuite, dello storico sottobosco.
Le ricerche, i rilievi avrebbero illustrato le tecniche di edificazione, gli elementi, i materiali e le malte utilizzate; gli schemi distributivi dell’edilizia residenziale povera, ossia le tradizioni costruttive in equilibrio con i luoghi e le disponibilità abitative di quel tempo e in un ben identificato luogo
Ciò che resta dell’architettura della tradizione originaria, oggi rappresenta la parte essenziale dei piccoli centri antichi; il risultato storico di misure e proporzioni lente, dettate dallo scorrere dei secoli è per questo parte immortale.
L’edificato storico doveva rispondere alle minimali esigenze di abitabilità, non superava la doppia decina di metri quadri, la cui forma e sostanza, in pochi decenni ha mutato radicalmente il paesaggio storico, essendo stata sottoposto a carichi o sollecitazioni indicibili, le stesse che a ben vedere, di gran lunga superiori alle ragionevoli sollecitazioni di laboratorio, che i tecnici sono abituati a riconoscere come benevole.
In altre parole, modeste abitazioni nate in forma di aggregati lineari o articolati in radice estrattiva, la cui consistenza non andava oltre il piano terra con l’aggiunta di un piano superiore, oggi diventate le fondamenta di costruzioni a tre, quattro livelli, con solai in cemento armato le di cui murature sono sollecitate da carichi spingenti di coperture, mutando pesantemente la sostanza costruttiva e il paesaggio; carichi fisici e forme innaturali riconducibili a espressione di luogo, non più compatibili in sicurezza.
Quella che oggi non ha più il ruolo di sottobosco, il costruito minore, è stato trasformato nel corso di alcuni decenni, in forma moderna residenziale, l’edilizia degli alloggi a costo irrisorio, economia a scapito dei rudimentali e originari elevati esistenti, le fondamenta di edifici destinati ad attività più moderne e complesse, in tutto, strutture povere, senza alcun fronte estetico e materico in risposta alle sollecitazioni della statica e della dinamica.
“L’Architettura minore”, definita attraverso il Novecento, oggi vive dentro i manufatti o insiemi, i quali è attribuito il ruolo di ambiente dei monumenti, “l’Architettura Maggiore”.
Mettere a fuoco i possibili significati che l’espressione “architettura minore” è un modo per rispondere al tema dell’equazione identificazione/tutela di un modello costruttivo sviluppatosi nel corso di secoli.
Per terminare questa diplomatica sul costruito minore, urge analizzare con dovizia di particolari gli ambiti costruiti e modificati come oggi si presentano, attraverso , studi, comparazioni, analisi e progetti a scala diversa, fino alle proposte per affinare le tecniche di intervento, con lo scopo di ridurre l’impatto delle trasformazioni in disaccordo dell’uso, la cui risposta potrebbe mancare ai parametri di sicurezza e abitabilità degli abitanti o dei turisti di breve durata.
Le architetture minori e il loro percorso evolutivo specie nei piccoli centri storici, sono un’emergenza latente, che va indagata con metodo; le amministrazioni responsabili, invece di adoperarsi in attività di accoglienza estiva a dir poco fuori luogo, celandosi dietro i paraventi dell’accoglienza culturale, dovrebbero attivarsi a indagare cosa sia stato caricato su quelle murature del passato.
Non è tempo più di fare i bimbi viziati, che vedendo i propri genitori capaci di camminare, caricano sulle spalle pesi che un tempo non si sarebbero affidati, neanche al mulo di Don Eugenio, il più robusto e caparbio mulo del paese, che oltre misura lui in quanto mulo scalciava, spezzando le corde di carico del basto, cosa che non possono fare le architetture dette minori.
Quando poi tutto sfugge di mano, è inutile chiamare antropologi confusi e senza ragione culturale, che non sapendo cosa dire, argomentano l’utilità di tutelare le processioni storiche, mentre la politica si attivano a demolire il paese, per prassi economica condivisa.
È inutile rendere responsabile della culturali il mulo di Don Eugenio, il meschino resta sempre un mulo e più della sua forza bruta nulla può aggiungere; non gli si può chiedere disegni di prospettiva di chiese con minareti, o muri con finti panni stesi al sole, mentre quelli veri li indossa ancora sporchi Don Eugenio.
I centri storici minori, specie quelli di essenza etnica, non hanno bisogno di attrattori pittorici o grafiti di altre culture, per fare turismo e attività ricettive, in quanto, gli sheshi storici devono essere colmati di consuetudini, ovvero i romanzi, a cui ogni figura del luogo, senza escludere nessuno, possono fornire elementi utili a innalzare i parametri economici grazie al ricordo locale delle figure più emblematiche che vi lasciarono storia.
Il ricordo quello che la minoranza festeggia a maggio con le valje, il momento più alto dedicato al costumi e la credenze, le stesse che da millenni, senza l’ausilio della scrittura o di altro prodotto, che non sia il cuore e la mente, fanno parte del nostro essere minori.
I paesi di regione storica hanno solo urgenza di essere vissuti per tutelare i luoghi ameni; non serve, l’ausilio dei segni, per ricordare e comprendere la propria natura o il proprio passato, altrimenti a breve, viste le capacità di dialogo “litirë”, finiranno tutti per raccontare e disegnare realtà inesistente, riportate dagli ultimi che qui vi transitano per essersi smarriti in campagna perché non sapevano nulla fare.
Gli abitanti di un ben identificato centro antico, conservano autonomamente la propria memoria storica e nonostante tutto, hanno solide riserve di autonomia, quelle che li rende gente unica, perché in grado di uscire da casa e fare vita sociale, come usavano i nonni che per dare luce alle modeste case del sottobosco, usavano la calce e coprivano il fumo nero accumulato nel corso dei freddi inverni, gli stessi che iniziavano a oscurare le prospettive , ma solo all’interno delle case.
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Posted on 18 luglio 2022 by admin
NAPOLI ( di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli nella storia degli Arbër rappresenta la capitale della cultura, per questo, si potrebbe paragonare a un lago buono, alimentato dai torrenti di acque cristalline provenienti dagli oltre cento paesi collinari della regione storica diffusa Arbër, l’ultima forza culturale che alimenta il sapere nel meridione da secoli.
La capitale partenopea da ciò, è stata e resta il luogo dove riecheggia nell’intimità dei bassi e poi su verso i cortili e le scale delle case nobiliari, la favella più antica d’Europa ovvero: l’Arbanon, Arbër, Arbën, Kalabanon, Arbëreshe, da non confondere con l’Albanese, moderna variate dello scisma del 1468.
Numerosi sono stati gli eccelsi che in ogni tempo hanno dato valore al centro antico ordinato, facendolo brillare in cultura, società e scienza, per garbo, educazione e modi di porsi nei veri salotti culturali.
E’ sempre il popolo Arbër a trovare soluzione, strategiche, prima adoperandosi per dissodare e valorizzare terre incolte e risollevare l’economia, poi formandosi in attività di rilievo che dal 1799 riverberarono il modello dei libero pensiero in Europa, ancor oggi inviolato.
Chi vive e studia a Napoli da orfano Arbër, conosce bene luoghi, cose, e avvenimenti oltre i percorsi del processo evolutivo a cui hanno contribuito questa storica popolazione; e rimane a dir poco basito, nel vede giungere frotte di giullari reboanti, che scambiano i torrenti di limpida cultura per “butti”.
I valori culturali diffusamente divulgati da secoli, qui nella capitale, hanno perso la via dell’eccellenza, in quando sono mutate le generazioni di guida istituzionale, oltre la qualità del sapere diffuso, specie per quanti immaginano che abbarbicarsi ad un emblema, possa fornire lumi per se e le nuove generazioni che gli danno ascolto.
La mancanza di culturale non è solo un fatto di formazione o conoscenza, ma è anche il modo con cui ci si pone per raccoglierla; certamente cantando, ballando e rumoreggiando non è il modo migliore per avvicinarsi ai saggi per ricevere in dono lo scettro per la continuità.
Ragion per la quale quei rivoli di acqua limpida, che nutrono il sapere, a ben vedere, per le nuove generazioni non appariscono sufficienti e rendono merito alla cultura, in altre parole, sono intesi come inutili rivoli a cielo aperto, con lento movimento e null’altro; senza immaginare che il filtraggio di quelle acque prima di apparire in superficie è accarezzata da tutte le cose buone che la terra conserva nella sua memoria.
A seguito di questa premessa, la Napoli che racconta degli arbër, dal suo centro antico ordinato, i cardini, i decumani, le piazze, i musei, le chiese, le porte storiche e i quartieri fuori le mura, oltre gli itinerari della memoria, tutti assieme, non hanno bisogno di quanti sono sfuggiti dai recinti dei mandamenti onciari citeriori, per apparire negli anfratti del Plebiscito a raccontare favole e far canzoni secondo le teorie dei fratelli Grimm.
A Napoli è bene che si sappia, esiste già chi ha segnato muri, pietre, anfratti, case palazzi, i quali attendono solo di essere adeguatamente illuminati, per restituire i sostantivi per descrivere l’uomo, il tempo e i luoghi, unitariamente per tutta la regione storica, in altre parole la tanto agognata “Grammatica Arbër”.
In questa magica città, ogni strada, vicoli, anfratto piazza o elevato conosce la storia e tutto quello che qui accadde, grazie a figure di elevata cultura, che scolpirono ogni cosa; solo quanti si recano in rispettoso silenzio, riescono ad ascoltare il suono del vento che genera notizia, senza strimpellare musical, come si fa in altri meridiani, altrimenti si copre ogni cosa e non si ode nulla.
Napoli e la sua riserva di acqua limpida, sono una risorsa naturale per il giardino dove si producono certezze storiche; quanti immaginano di potervi sbarcare seminando fatuo, sbagliato luogo, allo scopo è bene precisare che chi sale in cattedra per germogliare cultura, o è certo della genuinità delle semi che ha in mano o va in altri fiumi più a est, dove tutti sono liberi di seminare la propria confusione condivisa.
Non si possono liberamente iniziare dibattiti, per valorizzare figure, per poi terminare con prestiti e i titoli altrui, il problema è sempre lo stesso; serve avvicinarsi silenziosamente all’argomento, senza rumore, in questo caso specifico, senza partire da casa inneggiando falsità, bastava ascoltare gli echi dei torrenti locali ancora grondanti di sangue, giustappunto, facendosi aiutati dalle generazioni di un tempo ancora formate, presenti e informate dei fatti; almeno avreste evitato d’intorpidire sin anche l’indiscreto fiume Sebeto.
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Posted on 27 giugno 2022 by admin
NAPOLI (- di Atanasio Pizzi Basile) – Quattro decenni di ricerca, comparazioni, lettura, riconoscimento sul campo di fatti della storia e diffusamente divulgati, in questi ultimi tempi dall’olimpo dell’Arbaria, sono ritenuti mero conflitto di competenze, in forza delle attività mercatali.
I valori deformati non collimano con la somma delle azioni, naturali, perché allevati nei presidi, rivolti verso azioni e consuetudini di un sole che nasce a nord e tramonta a sud.
Vero è che trovarsi innanzi a queste esternazioni a dir poco singolari o meglio mercato senza radice storica, perché estratti del wikizario popolare dell’ultima ora, lasciano a dir poco basiti per le figure che vogliono auto celebrarsi e fornire lume a quanti, della via che usa fare il sole, dal sorgere al tramonto, senza troppo impegni, mirano a fare mujna.
Chi è abituato a segnare ore di lavoro, confrontare ogni elemento con dovizia di particolari, non può tollerare quanti aprono discorso, nei luoghi istituzionali della ricerca, esprimendo oltremodo e gratuitamente per fare cultura senza intrecciare argomenti, in senso di luogo, di uomini e tempo.
Sono noti tutti i luoghi della capitale del regno partenopeo, Napoli e non servono figure istituzionali o emblemi di sorta, che senza alcuna rispetto verso la città, vi si recano per essere illuminati delle cose che altri hanno già provveduto a stendere al sole, con saggezza e dovizia di particolari; senza il bisogno di farsi aiutare da altri conferenzieri, a cui si danno calci sotto la cattedra, per impedire il giusto confronto.
Il centro antico di Napoli capitale, per la sua posizione baricentrica nel Mediteranno, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Arabi, Bizantini, Normanni, Longobardi oltre a tante popolazioni e dinastie di rilievo.
Ognuna di esse depositò temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati forza caratteristica culturale della città, tra questi, vanno ricordati anche gli antichi abitanti Arbër ed Arbën, gli abitanti dell’odierna Albania.
Le prospettive naturali della città partenopea, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, nei quartieri fuori le mura, fissano l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienza in veste turistica.
La città metropolitana di oggi e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbëri, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nei quartieri nati per accogliere forza lavoro fuori le mura.
Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo, per i processi di tutela cristallizzati dall’articolo nove della Costituzione, ed è proprio qui che hanno origine “I percorsi del genio Arbëreshe”, eccellenza, la cui tempra culturale fu affinata nei presidi della cultura da figure come: il Bugliaro, i Giura, il Baffi, lo Scura, i Bugliari, il Torelli, il Milani, il Leopardi e tante altre eccellenze che qui non è il casi di divulgare, le stesse che delinearono un vero e proprio itinerario per la diffusione culturale ad opera di Arbëreshë, qui, lungo i decumani e i cardini del centro antico della città e i rioni storici allestiti presso le porte storiche.
Tutto questo si rileva in luoghi specifici, dove avvennero i fatti, come testimoniano le innumerevoli pagine di storia, rilanciando e ricalcando, come si tentò di fare con poco successo, settant’anni addietro, innalzando un presidio culturale economico e produttivo dell’Albania, per la coloritura del potere a torto è dilapidato..
Attività che attende l’applicazione del progetto delineato sulla carta, non trova figure ligie culturalmente a comprendere il senso, la forma e la finalità di questo progetto pronto par partire.
Napoli non ha bisogni di un Messia, ne di Fatine a mezzanotte, tanto meno di Suonatori di Trombette, in quanto i figli adottati per cultura dalla Dea Partenopea li tiene sempre allenati culturalmente, nei giardini della Sapienza, nel cuore pulsante del centro antico e non lungo la via dei mulinari.
Sono questi figli arbëreshe, gli unici a ricambiare la Dea Partenopee, del gesto ricevuto, solo lei ne è orgogliosa, li mette in mostra tutte le volte che servono perche da secoli non l’hanno mai delusa in ogni genere di manifestazione di fedeltà culturale e storica.
Emulatori di ogni genere, la DEA, li “assecuta cu la scupa” perché distratta una volta, gli avidi innescarono processi in “dolore diffuso” spargendo sangue di cuore materno, lo stesso che scorre ancora, tra le acque dei torrenti Vote e il Galatrella senza più smettere di violare le limpide acque dove bevevano in gioventù i figli del sapere.
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