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ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

ANTONIO INCIDE ANCORA OGGI SULLE ESSENZE DI LEGNO CON ANEMA E CORE

Posted on 21 marzo 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – A Napoli, in quella via dove si ricorda il grande maestro che compose la famosa canzone “anima e core”, si sente la melodia di un battito antico, eseguita dal maestro della scuola napoletana degli incisori.

Tutto si svolge su di un tavolo speciale, con tanti fori per la giusta ammorsatura, dove il maestro con un martello di legno e, mille attrezzi per scalfire il legno, sfida il tempo e batte i ritmi dell’atre più antica dell’uomo e, lascia stupiti gli uomini, più di quanto faccia oggi l’intelligenza artificiale che aiuta le conquiste moderne dei generi umani.

Qui dove Napoli venne scelta come una delle capitali delle fratrie più antiche del vecchio continente e, dove si dice vi sia il tesoro più ricco ancora non ritrovato, il maestro Antonio, continua solitario a incidere secondo la scuola della più antica arte, che rendere case, chiese, corti e palazzi nobiliari degne di questo appellato nome.

Un lucido e geniale ottantenne, con la sua manualità, rende unico ogni ramo fusto o radice stagionata, di essenza naturale adeguatamente modellata poi dal suo fare.

In tutto un antico patto che la natura stipulo con l’uomo, al fine di rendere le cose naturali indistruttibili e non solo utili per riscaldare e fare cenere per lavare storia.

E mentre il centro antico di Napoli è invasa da gitanti, turisti della breve sosta e scolaresche alla riscoperta dei fatui sapori di pizza, spaghetti, dolciumi e manicaretti presepiali, qui in solitaria armonia, i batti di un martello in legno e le scalfitture concesse dei mille scalpelli sagomati, Antonio compone arredi di una raffinatezza unica e irripetibile, prima disegnando, poi incidendo e in fine liberano la forza e il senso di un’arte antica mediterranea, senza eguali.

Una attività che il saggio padre Giuseppe, vedendo crescere Antonio, lo indirizzo a seguire i vecchi maestri dell’epoca, oltre un mezzo secolo addietro e, lui credendo in questa via prospettatagli dal padre, da giovinetto, frequentava la scuola di mattino e i pomeriggi, la bottega del suo maestro, il quale a quel tempo riconobbe il lui, il futuro maestro che presto di affermò.

Napoli, notoriamente venne segnata e riconosciuta nel corso della storia, per i palazzi. i vicoli e le strade sempre affollate, il tutto sviluppava, rioni quartieri e sobborghi, che la storia ricorda per le su arti ed eccellenza, in campo della stampa, dell’oreficeria, della tessitura e di tutte le arti che fanno eccellenza in questo abbraccio costruito.

La Calata Capodichino è nota storicamente per tante numerose vicende, tra le quali l’arte della manualità dell’incidere a realizzare manufatti in legno ricercatissimi.

Ed è qui nello sviluppo di questa china storica, precisamente il un vicolo cieco, senza uscita che ricorda “Anema e Core”, il maestro Antonio segna e scolpisce essenze di legno senza mai smettere di suonare con i suoi mille attrezzi che creano componimenti, che solo l’intelligenza dell’uomo può sprigionare e rendere visibili.

Un vicolo cieco, è una strada da dove non si può sfuggire, essa è un percorso antico che per la complessità delle cose della storia di Napoli fu necessario realizzare.

Antonio questa strada l’ha scelta da adolescente indirizzata dal padre e, da allora la segue senza mai ripensare di tornare indietro, perché l’arte di eccellenza napoletana, una volta che le fai in fondo alla strada, dove questa piega e illude il distratto passante, ma chi la segue e la conosce sa già che non ha bisogni di altre vie di sfogo, in quanto il podio dell’eccellenza non la trovano quanti vagano incerti e, senza meta.

L’invito di questo breve, è rivolto a scuole, turisti e viaggiatori distratti della breve sosta: venite a Napoli; ma non per soddisfare solo il senso del palato o dell’incultura turistica presepiale, ma per ascoltare vedere, odorare, assaporare e toccare, componimenti di incisione unici e irripetibile, mentre nascono e vedono la luce. 

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VALLJE E LA STAGIONE LUNGA (Verà  Arbëreşë).

VALLJE E LA STAGIONE LUNGA (Verà Arbëreşë).

Posted on 15 marzo 2025 by admin

Estates

NAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – C’è una stella pronta a illuminare la storia e le cose degli arbëreshë, ciò nonostante, si preferiscono quanti passano la vita a cercare di capire come vivono gli altri, senza mai riuscire a guardare come vive lui e il suo ristretto prossimo familiare.

Oltremodo recandosi in ambiti dove vive il governo delle donne arbëreshë, privi di ogni minimale conoscenza o sapienza del parlato di questa antico popolo che sostiene la sua cultura con il parlato, il canto e movenze di codice.

Diffondendo così incoscientemente il culto di polvere sottratte e pietre da schivare, convinto che abbia un significato profondo il dialogo con ogni artifizio innaturale, senza comprendere alcun che o cosa, che sia vero motivo che costituisca il fondamento di questa storica minoranza del vecchio continente emigrata nel meridione Italiano.

Il risultato a cui addivengono questi ricercatori della vita di chi è storicamente organizzato, come gli arbëreşë, è molto penoso specie per queste piccole figure cultural-economiche, senza misura di ascolto, per questo, non hanno titolo e intelletto per comprendere il valore culturale o i messaggi con cui è intriso Katundë.

Infatti per identificare per affermare cose, serve saper ascoltare e tradurre gli elementi distintive apposti nei portali delle chiese e, delle case dove hanno vissuto quanti contraeva matrimonio con gli indigeni e non, valorizzando, famiglie, luoghi abitati e sepolcrali.

Una consuetudine ereditata e trasportata nel cuore e nella mente dalla terra madre e, qui nei luoghi paralleli ritrovati, segnarono senza soluzione di continuità ogni cosa, degnamente valorizzando quanti si resero protagonisti. 

Nel rispetto di questo principio, gli arbëreşë, designarono anche un mese a primavera, durante il quale i Katundë ereditari o riedificati, fossero aperti ad ospitare le mutue russale, ovvero, organizzazioni di solidarietà locale, con un forte spirito di comunità integrata, in cui i membri si aiutavano reciprocamente, senza scopo di lucro.

In tutto, solide comunità che celebravano l’antico paese dove erano avvenuti gli alti fatti nobilmente compiuti.

Il tutto aveva un forte valore di fede e speranza, mirando a non perdere il valore dei figli dell’antica patria e, ogni persona chiunque essa sia e dove si trovi, conosca l’opera compiuta da questi, per non perdere la memoria e rendere vivo anche a noi l’entusiasmo per le opere queste portate a compimento per onorare il culto completo e l’entusiasmo di appartenenza.

Tutto questo aveva il fine che le nostre popolazioni, pur se ristrette in piccoli Katundë, mantenevano alti i valori dell’antichità; e siccome le diverse classi non si sono disgiunte tra loro, le ultimo partecipano alla conoscenza in egual misura delle prime e, l’educazione particolare e private diviene diffusa in egual misura a tutti gli arbëreşë.

Valori sociali diffusi siano alle famiglie più agiate, le quali allevano i figli propri e, quelle dei meno abbienti, avevano possibilità in egual misura a tutte le nuove generazioni, di migliorarsi e illuminare l’insieme di Iunctura sociale unico e inimitabile, in altri luoghi del vecchio continente.

Per saper leggere tutto ciò non serve dialogare o mettere in risalto figure come il drago sconfitto dall’indimenticabile Giorgio, ne urlare su campanili senza croce, immaginando che la stagione corta, quella della luna di castagneti e noceti, crei più germoglio di quando produca la stagione lunga del sole e dei campanili, in tutto: “Verà i Arbëreşë”.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-03-14

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REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENUTA IN ARBËREŞË (vallj i vietre i shëprişur thë mhbajtur me ghjuhën arbëreşë)

Posted on 04 marzo 2025 by admin

Arber

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia delle migrazioni Arbëreşë è molto articolata, complessa o variegata e, i tipi possono essere classificati in base ad avvenimenti storici, sociali e di confronto, svoltisi o avuto luogo nello scorrere di numerosi secoli.

In tutto, un componimento latente di flussi costanti, con picchi cadenzati di marce soldatesche; abbandono di terre natie per bisogno di migliorarsi; o di quanti, preferirono abbandonare ogni cosa materiale, per cercare terre parallele e tutelare consuetudini, identità linguistica e religiosa, questa ultima categoria di migranti, sono i più titolati per essere ricordati e ricevere merito per la caparbietà palesata.

A tutte queste fasce migratorie, poi vanno aggiunte le conseguenti attività di sovrapposizione dei propri nuclei familiari o richiamate o facenti parte del flusso posto in essere nel corso degli anni.

Non esistono gruppi di un sol genere, che nelle rive dell’adriatico sbarcarono per trovare vita nuova o agio, infatti sin anche quanti portati a Napoli da re Carlo III per essere la sua guardia personale, la gloriosa Real Macedone, furono seguiti dai propri familiari che vennero allocati nelle marche e, liberi di essere raggiunti dai valorosi e famosi stradioti.

A tal proposito va sottolineato un dato, che nessun gruppo era fatto di un esclusivo genere, ma tutte o erano famiglie in cammino o in attesa di riunirsi, con il proprio genitrice.

E se in qualche macro area, i tempi e le scelte di integrazione hanno intaccato la propria identità e, smarrito la retta via nel mantenere le proprie consuetudini, non si possono nascondere dietro le affilate lame delle spade degli stradioti, per camuffare le nudità femminili, palesate nel presentarsi innanzi le effigi o i giorni della memoria Arbëreşë.

Da ciò si può dedurre che le migrazioni, sono fenomeni complessi, spesso originati da una combinazione di fattori e, numerarli secondo le epoche in cui hanno avuto efficacia, non da merito e distingue l’operato eseguito per dovere, per necessità o per ideali identitari da non smarrire e, chi lo fa numerando solamente, si copre di vergogna tipica “lljtirë” indigena.

Incentrando il discorso nello specifico di queste pieghe avute luogo tra le sponde del fiume Adriatico sino allo Jonio e, di queste le più remote, furono innescate a causa di guerre o conflitti e, i soldati mobilitati dovettero recarsi, in luoghi lontani e, terminata la missione, per diffidenza dei duchi mandatari, furono allocati oltre il faro e ancor di più, per non insediare, con lo scorrere del tempo quelle terre conquistate.

Un altro atto significativo che ha innescato le migrazioni era la ricerca di migliori opportunità economiche è quindi rendersi utili in specifici territori abbandonati al fine di renderli produttivi, partecipando e dando agio alle poche e inadatte braccia  locali.

Le persone si spostano da aree con economie deboli o opportunità di lavoro scarse, verso regioni o paesi con prospettive più promettenti.

Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si guarda alla migrazione per lavoro o per migliorare le proprie condizioni di vita.

A questi evidenti e incontrovertibili avvenimenti, si aggiungono le migrazioni della diaspora, ovvero: “dispersione di individui in precedenza riuniti in un gruppo” guidate programmate e disegnate secondo arche o ideali di libertà, giustizia e uguaglianza.

In tutto quanti sfuggono ai regimi oppressivi, cercando asilo in paesi dove possono vivere secondo i propri valori, senza essere scambiati per invasori, masse soldatesche o fugaci economici, diversamente da quanti mirano alla sola ricerca della tranquillità che la democrazia di un ben identificato luogo parallelo offre, essendo una terra dove si garantisce il germoglio della certezza di libertà politica, sociale o religiosa.

Queste in maniera poco attenta e molto spesso inopportuna, sono assoggettate al popolo che oggi sostiene la Regione Storica Diffusa e Sostenuta dagli Arbëreşë.

Infatti essi sono assoggettati e distribuiti secondo un numero inopportuno di migrazioni, nonostante si disposero nel corso dei secoli, in eventi che dal tempo dei romani ad oriente, poi i veneziani, senza dimenticare, San Marino, Jesi e Recanati.

Tuttavia le migrazioni che istituirono le macroaree della Regione Storica si disposero nelle sette regioni del meridione italiano, dando luogo a cento dieci Katundë, con capitale Napoli.

Un insieme storico diffuso ancora oggi solidamente identificabile grazie all’idioma, che tramanda consuetudini della antica terra madre, oltre la credenza e i patti di iunctura familiare allargata, più nota come Gjitonia o governo delle donne, l’ambito dove i cinque sensi degli Arbëreşë, ebbero il loro germogli dal 1469 al 1502.

Questi sono la parte degli esuli, delle migrazioni su citate e, rappresentano l’insieme migratorio che intercettati gli ambiti paralleli della terra di origine, innestarono le radici e la credenza da preservare, tutelare e tramandare perché minacciate in terra balcana da campanili non più bizantini.

Altre realtà migratori sono sempre pervenute dalle regioni ad est del fiume Adriatico, ma con esigenze diverse, che rispondevano a cadenze soldatesche, o di imperi in terminazione, comunque di altra radice o di episodi migratori latenti che non hanno nulla a che vedere con le arche arbëreşë, della parentesi su citata con anno di inizio e termine di approdo.

I profughi che oggi tutelano l’antico idioma Arbëreşë, da non confondere con l’Albanese moderno, sono una risorsa storica inarrivabile e, solo immaginare che una lingua antica dei Balcani, la cui radice è tra le più antiche del vecchio continente ad Est, vive nel meridione italiano così tanto ad Ovest ancora intatta, dopo oltre sei secoli, non è un caso fortuito.

Constatare che l’idioma ancora si tramandato oralmente senza attività scrittografiche, se non l’uso del canto; apre uno scenario a misura di quanta caparbietà è allocata nei sensi, di questo popolo che non smette mai di stupire i visitatori che qui trovano sonorità e parlato antico.

Parlare di migrazioni dai Balcani numerandole e datandole potrebbe essere interpretato come una riduzione del fenomeno a semplici cifre, che rischia di non rendere giustizia alla complessità e alla varietà di esperienze individuali e collettive legate alla migrazione.

Le migrazioni sono fenomeni sociali, culturali e politici profondi, che non possono essere spiegati solo in termini numerici e, a tal fine diventa opportuno considerare le cause storiche, le condizioni socio-economiche, le politich, le esperienze personali degli emigrati e le dinamiche di accoglienza nei paesi ospitanti.

Tuttavia, se il contesto in cui si discute riguarda dati statistici o un’analisi quantitativa, allora può essere utile includere numeri per comprendere l’entità del fenomeno, ma sempre con una narrazione che tenga conto del lato umano e sociale in essere emergenza.

In sintesi, parlare solo in termini numerici delle migrazioni dai Balcani non è “normale” nel senso di una visione completa e rispettosa del fenomeno, ma può essere parte di un’analisi statistica, sempre accompagnata da un’attenzione agli aspetti qualitativi.

Chi migra per tutelare la propria lingua, le proprie consuetudini e credenze rientra tra i gruppi di genere o persone che preferisce mantenere i propri “motivi culturali” o “motivi identitari”.

In questo caso, la migrazione non è motivata solo da ragioni economiche o politiche, ma dal desiderio di preservare un patrimonio culturale e spirituale che potrebbe essere minacciato nel contesto di origine.

I termini su citati definiscono la tipologia di migrazione e indicano un fenomeno in cui le persone cercano di mantenere intatti i propri valori, tradizioni, lingua e credenze, magari in risposta a un ambiente che non li favorisce o li minaccia.

In tutto il fenomeno potrebbe essere inteso come “esodo culturale” specie quanto interessa o fa riferimento a gruppi della stessa radice identitaria che migrano in massa, al fine di proteggere la propria identità collettiva.

Se gli arbëreşë hanno salvato una consuetudine linguistica antica, chi salverà l’arbëreşë e tutta la sua storia da chi si ostina a riversare aceto che non diverrà mai buono vino?

Anche qui senza fare confusione come accade nella legge 482/99 serve un terzo articolo in questa legge e, sino a quando non si provvederà a seguire “la regola della tabellina del tre”, la stessa che ogni asinello a scuola dopo i precedenti 3 e 6 terminava la prima decina con il trittico del sancito dall’’art. 9 della attuale Costituzione che tra i principi fondamentali recita quanto segue:

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca tecnica e scientifica; tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della popolo tutto.”

A tutto questo comunque e dovunque nel 2022 è stato aggiunto il riferimento alla tutela dell’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, disciplinando i modi e le forme di tutela di cose materiali ed immateriali.

Tale articolo deve considerarsi la vera “testa di capitolo della legge a tutela delle minoranze in specie quella Arbëreşë”, la scintilla, deve allestire e preparare il principio di tutela in senso generale senza avere il banale bisogno di rendere banale, dipingere o alfabetizzare la consuetudine linguistica sostenuta dal canto, più solida e integrata, del vecchio continente mediterraneo.

 

Atanasio Architetto Pizzi                                                                                                         Napoli 2025-03-04

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I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO  (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

I RESTANTI USANO IL CUORE DI QUANTI LASCIANO RADICI E FIORISCONO LONTANO (Kuşë këjndronş harroghetë Kuşë ikenë mhbanë mendë e fietë me ghindietë)

Posted on 02 marzo 2025 by admin

Pecore

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Esistono valori, che i comuni viandanti locali, non potranno mai fare propri e, questi per cavalcare le onde del protagonismo locale usano i battiti del cuore, che in quegli ambiti pulsano perché furono di quanti partirono per apprendere il mestiere del confronto.

La premessa vuole sottolineare o meglio ricordare ad alcuni “lagrimosi culturali” che i temi e le memorie locali rimangono impresse nella mente di quanti partono per migliorarsi e, non di quanti fanno restanza per essere mantenuti dal tesoro culturale di quanti vanno alla ricerca di certezze di confronto.

Il teorema è un’espressione poetica o filosofica, che fa riferimento al principio, che vorrebbe, fare memoria, cambiamento e di continuità storica di un luogo specifico.

Non si tratta di un vero e proprio componimento matematico, ma esso viene inteso come principio indispensabile a rendere chiaro il quadro dello stato delle cose.

Che sottolinea una situazione di un luogo e ricordi o meglio esperienza di radice per chi parte, di contro chi rimane e, fa “restanza”, tende a dimenticare e rendere vivide o violacee quelle esperienze di anomalia locale scambiate per sviluppo.

Certamente quanti rimangono e fanno “restanza oltremodo statica”, non hanno consapevolezza della vita che continua per migliorarsi e, il loro contributo non deve terminare con il cambiamento ad ogni costo senza mantenere alcun legame con il passato.

In contesti più emotivi o letterari, non possono essere racchiusi nella mera idea del cambiamento a tutti i costi, creando così disconnessioni nelle relazioni locali, facendo sì che chi se ne va, abbia ricordi più vivi, solidi e indispensabili, mentre chi resta si adatta a nuove realtà, spesso lasciando andare ciò che è stata radice, ammesso che ne abbiano avuta una.

Chi si vanta di restare o tornare appena assolto un compito in classe con lode, potrebbe essere intesa come paura, di affrontare le opportunità che la vita ti offre fuori dal recinto di casa.

E se chi parte, riflettere solidità priva di dubbi e attaccamento al luogo natio; dall’altra viene intesa come povertà economica o incapacità di quanti partono per confrontarsi con nuovi processi per affinare il proprio germoglio culturale fatto di frutti buoni e genuini.

In questo caso, chi resta potrebbe essere visto come una persona che sceglie di non affrontare le difficoltà e mantenere un legame, magari per senso di irresponsabilità, anche se poi, forte dei suoi luoghi casalinghi in amministrazione, imita gesta altrui, fatte per quei luoghi, che per i restanti restano il bosco della paura.

D’altra parte, è facile vantarsi o atteggiarsi senza confronto, e tentare di enfatizzare una qualità che non si ritiene necessaria come la memoria di ieri, perché ignota.

Spesso, la scelta di rimanere o tornare dipende da fattori più complessi, come il contesto emotivo, le circostanze pratiche o le proprie aspirazioni, molto limitate o circoscritte in ambiti di piccola ristretta.

Se qualcuno si vanta di questo, potrebbe essere interpretato come un modo per cercare di dimostrare qualcosa agli altri, come se fosse una “vittoria da celebrare”, ma che se in cuor loro, sanno che a segnare i ritmi della storia sono quanti partiti per promessa data, conservando nel proprio cuore e nella propria memoria le gesta intatte della storia locale.

In generale, la chiave sta nel riconoscere che ogni scelta ha il suo valore, e non c’è una risposta universale su cosa sia giusto o sbagliato.

Ma il vantarsi o aoto elevarsi, perché in casa propria, potrebbe dare l’impressione di non avere chiare tutte le sfumature della situazione, riducendo ogni cosa in mere affermazioni o canti di superiorità armonizzati.

A volte, la scelta di restare non è una forma di resilienza meritevole, infatti sono proprio queste figure che incantate dai paesaggi dove sono transitati furtivamente pensano di riversare ogni cosa nei luoghi di origine, che a questo punto diventano un mercanteggiare diffuso, dove esporre cose che indigeni di ogni luogo portano per vendere e far violare la memoria che inizia e disfarsi per essere velata.

La distinzione tra chi resta e rinnova un luogo e chi parte per arricchirsi di conoscenza solleva un dilemma che ha una ampia applicazione, in quanto entrambi i percorsi generano impatti radicali e, su piani diversi.

Chi resta e si esalta nel rinnovare dimenticando le sue radici, che lo fanno apparire come agente di cambiamento diretto senza fornire solide certezze connesse con le cose del passato.

Infatti, rimanendo in un luogo, questa persona ha la possibilità di influenzare concretamente l’ambiente in cui vive, portando innovazioni, idee fresche o anche piccole trasformazioni quotidiane che migliorano la qualità della vita e contribuiscono a una crescita collettiva. In un certo senso, questo tipo di persona “radica” il cambiamento, costruendo qualcosa che può durare nel tempo.

Chi parte, invece, va a cercare un arricchimento interiore, un ampliamento delle proprie competenze e della propria visione del mondo.

La conoscenza che si acquisisce, sommata alle esperienze vissute sviluppano la conoscenza e il confronto con la memoria e, quando si ritorna, avendo un largo e più giusto valore agli ameni luoghi natii.

Chi parte quindi, se consapevole ha il potenziale di trasformare se stesso e, di conseguenza, potrebbe essere in grado di portare un cambiamento più innovativo e versatile, a quei luoghi che vivono all’ombra dei restanti.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciamo nel nostro contesto specifico, facendo crescere ciò che è realtà locale vissuta, nei tempi della crescita personale, la stessa che consente e permette poi di portare un contributo più idoneo ottimale e radicato.

Tutto comunque dipende dal definire “valore” e “miglioramento” e se da un lato, chi resta in un luogo e si esalta ad essere o diventare un punto di riferimento, un leader o qualcuno che contribuisce in modo duraturo alla comunità.

La sua capacità di resistere e crescere può essere vista come una forma di forza e resilienza, il cui risultato è sempre compromesso dal ripetersi ed apparire come emblema o difensore di quel identificato ambito.

Dall’altro lato, chi parte e si migliora potrebbe proporre nuove esperienze delle prospettive del passato che sono rimaste immutate e, adattarsi per arricchire il tempo dei domani.

Spesso il cambiamento e l’evoluzione vengono viste come simboli di crescita, se poi sono parte di un ampio progetto di forza al luogo, che non ha termine di assolvere al ruolo di necessità, offrendo opportunità alle prospettive di miglioramento di competenze diffuse con attori i generi di quel luogo.

In fondo, si tratta di capire se il valore risieda più nell’impronta che lasciano quanti partono, facendo crescere le opportunità, di chi resta sperando in un raggio di sole che illumini il luogo in senso generale, non il palco trasversale dove si esibisce chi resta in solitario apparire demenziale.

In definitiva e per concludere, quello che più conta per la valorizzazione e la resilienza, di un ben identificato luogo, deve avere come protocollo i valori consuetudinari di Gjitonia, lugo di cinque sensi dove crescere secondo le antiche consuetudini fondamentali del governo delle donne.

Quello che non forniva solo misure di confronto alle generazioni in crescita, ma sentimenti di rispetto e confronto con tutti i generi, onde evitare di rimanere isolati e diventare un prete senza devoti, che non fa il bene comune per diffonde la consuetudine antica del popolo Arbëreşë, immaginando che ogni Katundë, sia recinto dove allevare belati unitari diretti sulle terre paludose dell’hişkj e non dal un saggio massaro che sa quando dove, come e di cosa farle cibare.

Atanasio Arch. Pizzi              

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IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

IL SOLCO D’ARATO PRIMA DELLA SEMINA (surku thë punuàrtë parë satë mbielëmj)

Posted on 22 febbraio 2025 by admin

ciliegio

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La storia della popolazione arbëreşë, non è fatta dei riflessi della luna negli occhi di una madre, quando allatta i suoi figli, specie se seduta sotto l’ombra che fano le foglie di un albero di noce; ma raggi di sole al mattino, che indicano la via maestra ad un popolo in crescita solidale, in quelle “Terre lagrimose, colme di pia genti Arbëreşë”.

Questo teorema fa la differenza tra la luna il sole e, in tutto il circoscritto del genio del male e il santificare del bene, nel corso del tempo per dare agio alla minoranza, di purificarsi e diventare il gioiello più solido e prezioso dell’integrazione mediterranea.

Nel racconto generale che gli eletti dispongono o stendono a gocciolare di notte e di giorno, senza cautela di raccontare sotto l’ombra di quelle pianta si viene poi allattati dal primo giorno di vita e, di quelli futuri a venire.

Tuttavia la differenza la fanno le cupe e tondeggianti noci, l’affilato mandorlo, a cui si contrappongono il sorridente ciliegio e il verde ulivo.

Una sostanziale differenza che ha come protagonista il colore in primo piano, in specie di quelle piante che non hanno, bisogno di una corazza per presentarsi a primavera innanzi alla luna, ma quando le illumina e il sole svelano la vera natura.

Un po’ come fanno gli isolani d’archivi e di biblioteca per seguire le tracce della storia mirano a sottrarre la scena di quanti vivono d’ascolto e confronto e, in specie minano le conquiste di memoria storica locale.

Quando si semina il grano in quelle piane che nella consuetudine linguistica locale degli arbëreşë, appellate, corredo steso al sole (arethë i shëtruatë ndë dialjtë), si preferivano le terre migliori, nel mentre gli ulivi azotavano quell’oro di coltura, con le foglie sempre verdi.

Un teorema antico, che poi la consuetudine degli arbëreşë, riversava nelle nuove generazioni che crescevano nei stenopoi e i plateiai della iunctura familiare sotto la luce e le ombre del sole che accarezzava Gjitonitë.

Pericolosi diventano quanti si sentono interi, ma poi culturalmente sono solo una metà di quello che serve, in tutto la negazione del vero che viene riferito agli altri condannati all’ascolto della libera e gratuita interpretazione che si espongono sotto il nocivo e liberale arbitrio.

Imparare a sognare quando non si è più bambini perché la speranza di essere eccellenza, si allontana dalle tue aspirazioni culturali, non ti dà rispetto in te stesso, specie quando ti specchi e, ti vedi sempre più nudo e senza alcuna veste di nobiltà sociale, che ti possa confortare per quello che hai dato e non puoi più ordinare.

Chi segue le linee parallele dell’arato deve saper espandere, la giusta dose di seme, altrimenti i covoni non saranno solo di spighe di grano ma anche di inutile fatuo, che serve solo a degenerare quel terreno che sostenere il tuo essere e la casa del bisogno.

Il fatuo nel seminato storico degli arbëreşë è sempre stato presente, ma la saggezza dei nostri avi ha fatto sì che non invadesse più di tanto, il seminato estirpandolo prima che diventasse spiga e fare danno, purtroppo le generazioni che hanno dimenticato questo atto di tradizione, hanno lasciato libero agio a quelle piante infestanti come se fossero genere buono e genuino.

Oggi purtroppo ci ritroviamo con campi di fatuo, dove non riusciamo più ad individuare il genuino, che la storia separa la crusca dalla farina.

Il senso di questa frase vuole dimostrare che il libero racconto democratico, dove tutti sono liberi di esprimere opinioni e un processo naturale che l’uomo espone come giusta causa.

Ma non tiene conto del dato che oltre la linea della porta di casa propria, le cose devono essere e rispettare la storia di tutti gli uomini, le cose che fanno Katundë e valorizzano il senso della regione storica diffusa, sostenuta in arbëreşë.

Ovvero dove termina il solco del seminato di ognuno di noi e, iniziano le terre che appartengono agli altri, per questo vanno rispettate senza essere contaminate da tutte quelle genti che li transitano per dare agio al cuneo di sostentamento, economico e civile, non fatto dalle foglie del nocivo arboreo, ma del verde candido dell’ulivo mediterraneo.

Tuttavia la professione più nobile e diffusa è quella del cantare seguendo la musica o invadere le professionalità  di quanti vogliono emulare e cercano senza risultato, le antiche direttive degli Olivetani napoletani, quelle che si diffusero dal convento lungo il crinale che porta a capodimonte, quando non era ancora reggia.

La Repubblica, nonostante l’articolo nove, promuova lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio, il patrimonio storico, artistic l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, nell’interesse delle future generazioni.

Tuttavia i liberi pensatori, sotto la bandiera del dualismo politico, compiono senza respiro ogni genere di gemellaggio e miscelano la tutela su citata, che si decompone e diventa polvere al vento.

Ed è questo che bisogna concentrarsi a saper avvicinare le menti e i principi senza intrecciarli o renderli tessitura impropria. Va in oltre sottolineato che le istituzioni tutte di ogni ordine e grado sono all’oscuro o meglio adombrati dalle foglie del noce e si finisce nel rendere sin anche pagana il ricordo del termine di tutta la regione storica un tempo sostenuta dalla credenza  arbereshe, che in questa giornata promuoveva le cose buone della natura esclusi tutti i ricavati di sangue o di estrazione animale; buona ricorrenza a tutti quelli che sanno e tutelano memoria che non è per quanti, davanti a una fetta di salame o un bafa di genere aquatico sotto olio, dimentica il dovere del rispetto dei morti e, ingurgitano tutto, in memori di un nulla che si prospetta davanti a queste blasfemie senza radice.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                NAPOLI 2025-02-22

 

pppppp

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I PAESI DI RADICE ARBËREŞË SONO TUTTI STESI SULLE COLLIME CHE MIRANO AD EST (diersëtë thëjatruatë më thë mirà janë ata cë kamë shëlognë) (i sudori di studio migliori sono quelli che ancora devo versare)

Protetto: I PAESI DI RADICE ARBËREŞË SONO TUTTI STESI SULLE COLLIME CHE MIRANO AD EST (diersëtë thëjatruatë më thë mirà janë ata cë kamë shëlognë) (i sudori di studio migliori sono quelli che ancora devo versare)

Posted on 19 febbraio 2025 by admin

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PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

PROGETTARE E RECUPERARE MEMORIA ARBËREŞË NON È ARTE PER PICCOLO DISCOLI (Mendja nenë hësth i ragiatvë pa duerë e crie)

Posted on 15 febbraio 2025 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Un giorno vi dirò, che ho lasciato il luogo della mia radice, per trovare risposte e prospettive che mancavano al progetto di riqualificazione dei luoghi della mia crescita e, di tutti quelli simili o equipollenti.

Forse riderete di me, perché non sono istituto, ma una promessa data, quando il sole tramontava e la luna si prestava a sorgere, andava finalizzata per diventare “Istituzione Storica” del parlato, della consuetudine e del cantato, che ancora oggi ai musicanti inquieti rimane costellazione ignota.

E per poter oggi indicare la strada fatta in adempimenti di: ricerca preliminare, pianificazione definitiva, poi di esecuzione e, solo dopo il termine di questi atti preparatori di analisi, predisporre il cantierabile  per recuperare ogni cosa.

Voi tutti oltre a non credermi, non mi crederete e, né mi consentite di esporre tutto da oltre due decenni, i risultati ottenuti e negatimi anche pubblicamente, ma credetemi è costato tanto sacrificio di sudore lagrimoso, come fa il vento quanto una madre allarga le braccia per tenere stretto il suo nascituro, crescere leale e orgoglioso di essere protetto da quel vento buono.

Oggi è il giorno che vi dirò, che ho voluto bene più di me a questi luoghi lagrimosi, ancora sani, non per chi ci vive, ma perché sono stati costruiti bene e, colmi di sentimenti antichi, similmente a come fa un padre con un figlio, quando lo accompagna a migliorarsi nelle cose pratiche della vitta, anche se un padre non deve mai piangere e né mai smettere di credere in quello che fa per il bene degli altri e continuare a vivere per sostenere e soddisfare del suo operato.

Tutto il progetto nasce per garantire, salvaguardare ogni manufatto o area da recuperare, per questo, ogni scelta è stata fatta secondo un protocollo rigido supportato da adempimenti di attività che non sono mere o semplici arche illustrative.

Infatti i protocolli richiedono esperienze multi disciplinari alte, con il fine di raggiungere il risultato desiderato entro i limiti di tempo, risorse e finalizzate a sostenere dopo averli ritrovati, tutti i segni identificativi senza incutere velature di qualsivoglia inventiva, al fine di perseguire il risultato finale, che deve restare memoria di lugo, uomini e tempo, ma non quello importato oggi dalle terre dell’antico impero ancora in caldera vulcanica, oltre quel fiume di lava denominato Adriatico.

Ogni fase, per questo, assume un ruolo ben preciso e finalizzato a non produrre danni o finire nel campo del fatuo o inutile intervento.

La prima fase serve ad identificare il luogo o l’edificato valore storico cercando, l’originario impianto del bisogno otre a definirne le aggiunte di miglioramento sia strutturale che storico, che perseguono, il fine del migliore risultato di risorsa per il bene del luogo in tutto l’esperienza necessaria a, stabilire chi è responsabile delle prime valutazioni di eventuali rischi, che ne compromettano senso di luogo, storia e necessità dell’uomo.

Nella seconda fase vengono dettagliati i valori astorici architettonici da seguire, le scadenze, il budget, oltre le risorse indispensabili da porre in essere al fine più idoneo o perseguibili.

Questa è la fase in cui vengono prese le decisioni più importanti a riguardo al progetto, pianificare e prevedere eventuali problemi disponendo strategie e tecnologie per mettere in atto quanto predisposto per la gestione e utilizzo delle attività senza smarrire l’originario fine di tutelare forme, luogo, cose e storia in esso contenuti per, mantenere vive le prospettive, del valore pittorico/architettonico in tutto il segno forte che genera quel luogo di memoria e arte che non dovrà mai essere smarrita.

Il terzo ambito del progetto mira a rendere possibile quanto stabilito e, rendere l’operato in svolgimento sempre sotto il rigido controllo del progettista e del gruppo di lavoro preposto al progetto, che deve svolgere attività e controllo sempre presente per gestire le risorse lavorative e gli strumenti idonei per la più giusta applicazione e svolgimento vengono secondo le maestranze di compiti.

Questi sono anche momenti cruciali per monitorare l’avanzamento dell’opera e fare eventuali aggiustamenti in corso d’opera che non potevano essere previsti e contemplati al chiuso delle aule di studio che sono sempre e rimangono teoria di esperienza.

La Quarta fase mira alla realizzazione vera e propria del progetto e, tutto dipende dalla direzione dei lavori e dalla manualità di tutti i componenti del cantiere maestranze e manovalanza al completo, avendo il progettista responsabile conoscenza di ogni attività che qui in questo circoscritto viene posta in esse, sia dal primo atto della eliminazione di tutte le superfetazioni sino al primo getto di lavorazione.

Avendo cura di eseguire sopraluoghi dove si valutano le lavorazioni in atto compreso le modalità di esecuzione di ogni facente parte la piramide dei lavoranti.

La revisione finale, deve solo raccogliere i risultati di valore e rispetto rivolte a tutto il sistema e dei suoi elevati, orizzontamenti, sia in piano che inclinati, il tutto rigorosamente archiviato e documentato in ogni genere di lavorazione eseguita, con fotogrammi specifici e generali di adempimento lavorativo.

Nella fase esecutiva cantierabile, si raggiunge la meta di riflettere su cosa è andato bene e cosa potrebbe essere migliorato per sostenere il valore identitario del manufatto senza metterne in dubbio il suo valore.

Affermare e annotare quanto detto, nasce dall’aver avuto esperienza collaborativa diretta, in progetti di rilievo e recupero funzionale eseguiti con successo e, menzione in tutto il meridione italiano, in specie archivi, biblioteche, musei, cattedrali e conventi, oltre residenze reali e non, acquisendo e maturando, così, una esperienza di valori pratici innescati in gioventù da chi ha avuto genitori attenti, in campo impiantistico e di meccanica manuale, finalizzato all’artigianato generale, poi preservato e consolidato con passione irripetibile nei tempi della formazione scolastica; e quanti hanno avuto modo di avere questi esemplari di gioielli di lume, al loro fianco nel percorso formativo di titolo, questo giunto in un secondo momento e, per questo di sovente  tutti, si interrogavano e gli chiedevano: come mai non sei ancora laureato? E l’ira dei domandatori, era sempre ripetitiva e, si elevava riecheggiante negli studi e, nei cantieri creando non poco imbarazzo verso gli astanti: alla risposta preconfezionata in difesa: si, è vero, non sono un professionista titolato, ma conosco tutti i mestieri questo mi rende perla del semplice titolo cartaceo.

Poi il titolo, giustamente e meritatamente arrivato, ma quello che è cambiato è solo il sostantivo di avvio di una richiesta lavorativa ad opera dei peggiori artigiani, e che ancora oggi crea panico e preoccupazione a un professionista direttore dei lavori, con le rassicuranti parole, che cito per allertare i professionisti tutti, specie quanti non praticano cantieri ma solo cattedre: ci penso io, so come e cosa fare (Muu bighù iù, sacciù cùmë ajè fa!) questo, se non lo sapete è l’inizio di una tragedia irrecuperabile del cantiere dove vi trovate e mi raccomando non sostate al centro di solai o volte pericolanti.

Specie voi che siete docenti e non praticanti di un cantiere.

Tuttavia sento progetti di “gemellaggio e di recupero di piccoli centri” eseguiti o diretti da chi frequenta cattedre frastagliate o allestisce consiglieri infanti, che si credono eccellenza giacche eletti culturali.

Le stesse figure di genere ignoto alle quali se proponi cose con finalità storiche, invece di ascoltarti, preferiscono deliziare il palato e aspettando di saggiare manicaretti dolci, mel mentre il pensiero è rivolto a sognare cose che non esistono e nessuno è in grado di reggere o supportare, nel continuo dissipare risorse o insaccare falsità di loco.

Ma questa è un’altra storia di pena che a breve avrà un inizio, svolgimento e fine ignota, dato che a proporla sono i soliti cavernicoli di cattedre in elevato o ferro di asino piano con due appigli laterali inutili, in quanto a reggere

e rinforzare sono i chiodi piegati saggiamente inseriti nello zoccolo duro dal maniscalco saggio.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                Napoli 2025-02-15

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KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

KATUNDË UNA LAGRIMOSA TERRA DOVE PASSA DOLCE IL VENTO SULLE INSTANCABILI GENTI ARBËREŞË: (katundë e deu i lliotëvetë ku shëcon dallë hairj mhbj ghindvetë arbëreşë)

Posted on 13 febbraio 2025 by admin

 

GjitoniaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – In questo breve tema di studio si vuole definire lo spazi Katundë da cui iniziarono a muoversi e, come servì a sostenere le terre parallele ritrovate, per essere caratteristica e agio consuetudinario degli Arbëreşë, avendo a riferimento i Danteschi valori che descrivevano la “terra lagrimosa dolce”, il luogo dove il vento, passa sopra un pugno di pia gente.

Il che lascerebbe immaginare che un Katundë Arbëreshë, sia insieme umido, ma non è così, infatti le lacrime appartengono alle persone sensibili e, colme di valori emozionali di sentimenti solidi, in oltre il vento, che qui accarezza i generi, rende l‘ambiente sano e colmo di sensibili valori identitari, come una carezza materna viene rivolta al nascituro.

I Katundë in ragione del patto stipulato da indigeni e Arbëreşë, con testimoni la luna e il sole, viene predisposti secondo “arche di accoglienza” con funzioni specifiche da Giorgio Castriota in comune accordo, con il re Aragonese Alfonso V d’Aragona, più noto come il Magnanimo, grazie ai quale dal 1471 sino al 1502 giunsero profughi dalle terre oltre adriatico.

Cui segui una seconda ondata con ottomila profughi Grecofoni/Arbëreşë dopo il 1535, consolidando l’accoglienza migratoria del bisogno, per la salvaguardia del patrimonio culturale, portato nel cuore e nella mente dalle terre Balcane, per essere radicate senza alcun innesto mussulmano, in quelle terre mantenute dagli Angioini sino ad allora aride, impappolate e senza una consuetudine solida e duratura.

Va in oltre sottolineato che in urbanistica, il termine “arche” è usato per descrivere il principio o la base su cui si fonda un centro urbano e la sua pertinenza territoriale in valore.

E facendo riferimento alla struttura originaria di un centro abitato, come un Katundë articolatosi nel corso del tempo, il tutto restituisce uno scenario storico solido, indelebile e impenetrabile.

In questo contesto, si può parlare di “arche” anche quando si analizzano le fasi storiche di sviluppo, osservando come i principi fondatori del Katundë, siano legati ad uno specifico territorio il suo uso, la distribuzione degli spazi privati e pubblici, e ritrovare la connessione di queste funzioni, di come abbiano generato e influenzato la crescita o lo sviluppo di questi luoghi di memoria storica.

Quando si affrontano argomenti con tema i sistemi abitativi e i relativi ambiti Silvicoli, Agro e Pastorali, ritrovati per allestire consuetudini di origine Arbëreşë, bisogna essere molto scrupolosi o meglio attenti e giustamente formati, prima di diffondere teoremi, nomi, sostativi e tempi, ande evitare di dover poi dare ad altri il compito o la pena di correggere ogni cosa, allestendo diplomatiche, che dovranno correggere i teatrini senza regia, con protagonisti tempo, natura e omo, tutti ignudi ed esposti vergognosamente senza rispettare la memoria e storica.

Il sistema abitativo Katundë, (dall’Arbëreşë); “luogo di movimento e operoso”, vero e proprio germogli di risorse umane dove partire, per espandersi lungo le vie di cresta, di risorsa aurica territoriale, fatta di ori silvici a monte e, pastorali in agri verso valle.

Il sistema cosi, riconosciuti, non sono semplici da intercettare e definire correttamente, specie da chi non è formato e sa fare un mestiere specifico, perché le similitudini ad altre realtà storiche equipollenti, non sono di facile lettura e, quasi sempre generano o hanno generato, libero valore storico, attribuendo a quei luoghi, termini e cose senza definizione o appellativi specifici riferito alle tempistiche di sviluppo, privi dei minimali valori del bisogno e tradizioni di questa antica popolazione, del vecchio continente europeo; in tutto un patto stipulato tra uomo e territori, con il sole e la luna a rivestire il ruolo di testimoni.

L’insieme abitativo e le pertinenze di territorio fondamentali per il sostentamento, sono l’insieme che, nel protagonismo abitativo, racchiude nel percorso evolutivo fatto dalla natura, l’uomo e il tempo poi annotate nelle pieghe o trame della storia stese al sole e illuminate anche dalla luna senza veli, per questo, chiare ed inequivocabili.

Generalmente lo spettacolo naturale lo offre la collina, secondo le teorie di Aristotele, annotate nel libro settimo, dove rifermento della collocazione altimetrica dei presidi abitativi e dei relativi abitanti dice:

chi risiede in montagna dove il freddo incide al processo sociale è tendenzialmente chiuso e ristretto nelle sue attività di coesione e produzione.

O ancora peggio chi vive vicini al mare, generalmente incline all’ autarchia e irrispettoso delle leggi, per le troppe frequentazioni, riferendo così chiaramente a quanti mirano a promuovere sé stessi e la loro pletora servile; diversamente da quanti abitano e vivono in ambiti collinari sono notoriamente predisposto alle attività e alle arti valorizzando luogo e genti pronte al sacrificio per il bene comune.

Infatti questi ambiti sono i più strategici ad offrire risorse naturali, in forma acqua dolce di sorgenti o torrentizi, boschi per legna, oltre i terreni più fertili per l’agricoltura e la pastorizia.

Inoltre, i terreni collinari possono essere più favorevoli per alcune coltivazioni rispetto alle pianure troppo soleggiate o le montagne troppo fredde per ogni attività.

Nel contempo la collina offre la posizione naturale difensiva più idonea, rendendo più difficile, il sopraggiungervi dal mare, in tutto un punto elevato, facile da sorvegliare a scapito di ogni sorta di invasore.

Le zone collinari sono meno suscettibili a inondazioni rispetto alle pianure. Essendo situate a un’altezza maggiore, queste aree sono più sicure in caso di piogge intense o fiumi in piena.

Esse beneficiano di un clima più temperato, evitando il caldo eccessivo delle pianure, alture a offrire una maggiore ventilazione e condizioni più salutari, considerate luoghi sacri o simbolicamente significativi in molte culture, e costruirvi un insediamento conferiva prestigio e un senso di “elevazione” rispetto al resto del mondo.

Va in oltre sottolineato, il dato secondo cui gli Arbëreşë sopraggiunsero nel meridione lungo gli abbracci naturali delle coste dello Jonio e preso atto della pericolosità di quei luoghi troppo esposti, oltre le insidie dalle famigerato anofele, per le vicende derivanti secoli prima a loro sconosciute ma che la storia odierna attribuisce al dominio romano, un il danno ambientale prodotta, quando utilizzarono e spogliarono l’appennino meridionale, estirpando alberi per sodisfare le esigenze dei loro innumerevoli cantieri, rendendo i corsi fluviali palladosi, cosi come tutte le piane di deflusso verso il mare.

Questo è anche il motivo o dato di fatto secondo cui, ogni centro abitato, non è mai allocato ad altitudini inferiori ai 350 metri sul livello del mare, lime storico, dove questo insetto infestante trovava il suo ambiente ideale per colpire e trovare agio di lunga vita e solo l’altitudine indicata precedentemente le rendeva inefficaci le sue mortali punture, non erano più terminali.

Questo limite territoriale, in genere, era individuato con il toponimo di “Vote” indicante, un torrentizio disposto prima della via di costà da non superare.

Tuttavia per esigenze lavorative si poteva anche fare, breve permanenza e con particolari momenti climatici non dilungati, oltre una ben nota fascia giornaliera climatica, che assolutamente non doveva essere prolungata oltre misura di esperti o di residenza prolungata e stabile.

Qui chiaramente ci addentreremo, focalizzando la ricerca di Paesi, Vichi, Contrade, Civitas, Casali e ogni altro agglomerato urbano di collina abbandonato o poco abitato al XIV secolo della Calabria Citeriore, un tempo risorsa della Sibari fannullona, poi bizantina e, sogno di conquista dei longobardi, poi trasformate in grange cistercensi e in fine mira degli Arbëreşë senza terra o dimora, in apparenza.

Giacché come accennato prima, luoghi da sottoporre a controllo dei regnati della capitale Napoli, visto i trascorsi di interessi dei principi locali e le loro dinastie con i trascorsi francofoni, non più tollerati.

Da ciò quando gli arbëreşë giunsero in questi ambiti di arche concordate e pre definite, trovarono un sistema religioso, affiancato a un insieme articolato di abituri estrattivi, dovendosi per questo prodigare ad affiancare il sistema di promontorio e quello di nuova edificazione civile più consona alla propria consuetudine.

Quella che in alcuni casi li costrinse a una distanza di sicurezza che se il presidio antico ritrovata aveva valore di autonomia religiosa o civile si doveva rispettare la distanza minima di mezzo miglio.

Va sottolineato che dal punto di vista amministrativo dei territori, incidendo, con gabelle per sostenere credenza e vita civile senza alcun servizio.

Dove clerici locali e principi riscuotevano per conto della credenza papale e quella civile della reggenza del regno napoletano.

Questo in specie era diviso in principati, dove ognuno pensava a favore del proprio orticello per diventare nota produttiva di vanto ai piedi del re, accontentandosi solo di partecipare alla reggenza alta, come sempre figure di secondo piano, mentre quella regia era sempre affidata a dinastie ora francofone, ora ispaniche e sin anche austriache, tutto qui alternandosi a dominare e allestivano il loro trono nei variegati castelli, secondo una costante storica singolare.

E solo pochi storici, furono capaci a rilevare, ovvero le merlature della difesa della residenza reale, nella capitale che non erano rivolte a mira delle vie degli invasori facilitate dal mare, ma verso la citta ribelle, per sottomettere la larga e variegata strada di residenze principesche del regno.

Infatti non c’è mai stata una dinastia che sia originaria di Napoli o che possa essere definita tale, vero resta il dato che quanto la città e la sua regione hanno avuto un’importante storia di dominazioni straniere o dinastia alcuna in originarie del territorio del regno.

Anche “Partenope” si riferisce all’antica sirena mitologica ma comunque di radice Greca, quindi storicamente non c’è mai stata una dinastia autoctona che abbia regnato direttamente sul Regno di Napoli in modo esclusivo.

Infatti le dinastie che hanno governato la città e il regno, furono Angioini, Aragonesi e Borboni, provenivano da fuori Napoli (Francia, Spagna e Austria).

Questo singolare processo di dominazione, ha reso gli arbëreşë partecipi al pari degli indigeni locali, che non si sentivano a casa propria liberi del vivere il proprio territorio.

Nascono per questo pensieri contrapposti, che per i loro conflitti interni non mutano per secoli e bisogna attende i catasti onciari e il successivo decennio francese per vedere uniti territori secondo aree omogenee e vedere scomparire la cassa sacra che lascio ai legittimi contadini nuove porzioni di terreno.

In tutto i rioni riconoscibili in Chiesa, Kallive, Karinë relletë, Bregù a cui nel tempo si articolarono nuovi şeşi in grado di generare il sistema Katundë ad iniziare dalle case additive o vernacolari del bisogno.

I rioni su citati, rappresentano il percorso evolutivo che il borgo ha seguito per restituirci l’attuale assetto planimetrico. Il processo di trasformazione dell’ambiente naturale in quello costruito è avvenuto secondo i parametri morfologici, floristici, orografici e climatici; fondamentali per gli esuli, giacché simili a quelli della terra d’origine.

È in queste macro aree che le costanti dei sistemi urbani: il recinto, la casa e il giardino, hanno trovato l’ambiente ideale per restituire gli ambiti odierni; il recinto delimita il territorio, ove la famiglia allargata aveva il controllo assoluto; la casa, anch’essa circoscritta dal cortile era costituita da un unico ambiente in cui conservare le poche suppellettili e alimenti; il giardino è luogo della prima spogliatura, dimora dell’orto stagionale.

Nel periodo che va dal XV al XX secolo, gli esuli lentamente hanno riposto il modello familiare allargato per quello urbano e poi, in tempi più recenti vive quello della multimedialità.

Quando la famiglia allargata inizia ad assumere la conformazione urbana, inizia la definizione dei primi isolati (manxane), secondo schemi articolati o lineari.

Inoltre lo sviluppo degli agglomerati tendenzialmente accoglie le direttive dell’urbanistica greca che allocava gli accessi degli abituri sulle strette vie secondarie, rruhat.

Gjitonia, sin dal XVI secolo ha resistito alla modernità diventando il luogo della ricerca dell’antica scuola di formazione governato dalle donne indispensabile per la consuetudine, le arti e il parlato arbëreşë oltre i valori di credenza cristiana costantinopolitana.

Essa ha origine dal tepore del focolare, si espande con cerchi concentrici e, si estende lungo le rruhat, sino a giungere negli angoli più reconditi dei cunei agrari e dei silvici luoghi di pertinenza locale.

Gjitonia si avverte, si respira, si assapora, si vede, si tocca, senza mai poter essere tracciata o ricentrata dirsi voglia, per questo, Katundë rappresentano il cardine e rappresenta la terra lagrimosa che sostiene lingua, religione e storia, quell’ambito capace di produrre il modello d’integrazione più riuscito, solido e duraturo del mediterraneo.

Il piccolo elevato vernacolare, shëpia, in origine realizzato con rami intrecciati, poi blocchi di terra mista a fango e paglia, in seguito, è stato ottimizzato attraverso l’utilizzo di materiali autoctoni più idonei come: pietre, calce e arena, realizzando la casa che di volta in volta soddisfa il bisogno abitativo del bisogno familiare.

Dopo il terremoto del 1783 e la conseguente soppressione della Giunta di Cassa Sacra, gli del Katundë ebbero un nuovo sviluppo urbanistico/architettonico e gli agglomerati iniziarono a svilupparsi verticalmente.

È questa l’epoca in cui si migliorano i cunei agrari della produzione e della trasformazione, in ogni Katundë, Paese, Frazione o Contrada arbëreşë o indigena, si elevano cosi dal secolo XVII al XVIII, i palazzi nobiliari, influenzata dallo stile Barocco, con lune facilmente riconducibili ad un’epoca ben precisa.

Gli ambiti urbani, assunsero una nuova veste distributiva che allocava i magazzini e le stalle al piano terra mentre le abitazioni erano al primo livello con uno spazio di tempera per evitare il troppo calore estivi e il freddo dell’inverno.

Va in oltre precisato che dalla fine del XV secolo a tutto il XVI, i frazionamenti delle proprietà abitative, richiesero l’uso delle scale esterne, (il profferlo), in quanto, non tutti avevano la possibilità di costruire nuove abitazioni, modificando radicalmente in questo modo le prospettive di vie, ruga, Vallj, aggiungendo modesti ristretti supportici che consentivano appena il passaggio di asini con le ceste.

Il ciclo di crescita si arricchisce ulteriormente dopo il decennio francese, con la costruzione dei nuovi palazzotti nobiliari, espressione di una classe sociale emergente.

Ciò avviene solo per le classi più elevate perché quelle meno abbienti continuano a occupare i vecchi abituri e la classe media esterna la nuova posizione sociale, imitando frammenti dei palazzi post napoleonici e inserendo in molti esempi ancora esistenti, anche se alcuni sono stati inglobati o resi parte del volume di questi storici manufatti, che in questo modo hanno ingabbiato sia i profferli di accoglienza che i minati di affaccio nobiliare.

Il sistema urbano veniva organizzato secondo pertinenze di Iunctura familiare, localmente denominati o specificamente identificati nel loro insieme; in “rioni di toponomastica storica” organizzati secondo i bisogni di determinati intervalli storici, un compromesso abitativo tra indigeni locali di antica radice di conquista, a cui si aggiunsero, poi in due distinte epoche gli esuli Arbëreşë della diaspora, prima quanti giunsero dopo la morte dell’eroe Giorgio 1471/1502 e dopo gli Epiroti o Coronei del termine del 1533.

In Arbëreşë denominati Şeşi e, non sono meri spiazzi o piazzette dove affacciano gli ingressi di un numero indefinito di case, come comunemente è stato diffuso, da inadatti teoreti, senza alcuna formazione storica, se non quella di riversare aceto contaminato ad opera dei liberi mescitori delle cantine locali, dove il vino veniva unito ad acqua, e spacciato per esempio genuino.

Essi sono un sistema urbano fato di Case Vernacolari (Kalivatë), Vicoli (Rruhat), Sottoportici (Suportë), Larghi senza Uscita (Vagllj i Mbulitur) Vicoli Ciechi, Vicoli (Rruhatpa sitë), Orti Botanici (Kopshëti jone) Scale in Salita (Udatë me Pedastrozullë), il tutto per compilare un insieme per la lenta percorrenza e il controllo di eventuali viandanti non appartenenti alla Iunctura specifica del Katundë.

Tutto l’insieme cosi compilato o realizzato era diretto dal governo delle donne e ed è in questi sistemi urbano che le donne conservavano consuetudini e tramandavano principi sociali e del parlato che poi erano la prova iniziatica delle capacita che i generi in crescita ponevano in essere, riverberando la solidità dei principi trasmessi, o ereditati.

Queste attività per la difesa della propria identità, in comune progredire, ha superato ogni genere di attacco sociale, culturale e sin anche religioso, ma la forza estratta dalla consuetudine di antichi valori,  hanno permesso o meglio consentito di superare e distogliere moltissime attività in tale senso.

Tuttavia dagli anni settanta del secolo scorso e sempre con più arroganza linguistica e antropologica, con editi a dir poco infantili e senza radice stoica, secondo direttive subliminali proveniente dalle rive frastagliate e in accoglienti il fiume adriatico ad ovest, li dove incide la luna e le stelle.

È inutile cercare di illuminare, con menzogna inimitabile il sole, in quanto il nero della notte porta pensieri solidi agli arbëreşë, che stendono al sole le solide consuetudini che incidono le regole su quel “Calendario Marmoreo denominata Gjitonia”, che non potrà mai essere corretto, come si fa con gli scritti moderni, perché la consuetudine arbëreşë rimane scolpito nella pietra senza spazio di alcuna aggiunta.

 

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                            Napoli 205-02-13

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IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

IL GOVERNO DELLE DONNE ARBËREŞË O LOCO DELLE PENELOPI IN ATTESA DEL MARITO (Ghraë thë argallja prisinë e bëjinë tuvallje i Gjitonjë)

Posted on 09 febbraio 2025 by admin

PenelopeNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Pe quanti conoscono la storia e affiancano processi sociali e crescita dei generi, avvicinare questi momenti di vita diventa, somma per allestire processi in grado di rendite alto il valore dei luoghi vissuti, specie se per continuare a conversare e, non perdere il patto stipulato con testimoni, il sole e la luna, al fine di fare Casa, Famiglia e Gjitonia.

Gli studiosi del Mezzogiorno hanno molte volte orientato la loro attività di ricerca, secondo percorsi, tesi ad aprire i confini della storiografia e, raccogliere tracce che confermino la presenza di uomini e donne, li abbandonati secondo autonomie sociali al fine di affrontare e rispondere in forma di mera soluzione, matematica.

Idee, mentalità e immagini letterarie, diventano così i simbolismi di solidità, che porta ad altri interessi, anche se, in linea generale possiamo definire antropologici, dove tutto si materializza in ambiti di studio, da attraversare, ma purtroppo come è successo nel passato, avendo come compagni lettori o traduttori locali, sconosciuti, e quasi sempre non sono lucidi osservatori, ma ignari viandanti che non hanno arte o memoria di nulla.

Tuttavia vi sono stati grandi intellettuali, come Giuseppe Maria Galanti, con cui alcuni fortunati sono riusciti a dialogare per ricevere una visione generale dei modelli sociali qui in analisi e studio.

Penso, fra gli altri, a Giuseppe Galasso e le indicazioni verbalmente espresse in vari incontri, all’Istituto Italiano di studi filosofici a Napoli e, la caparbia lena di suoi discepoli, hanno reso possibile il germoglio del postulato a titolo. E rendere gli Arbëreşë attori fuori dalla portata di banali e negazionisti antropologi, che credevano “Gjitonia” fosse e un mero prodotto post industriale di mero vicinato.

Ovvero, la trasformazione avvenuta dopo la grande espansione dell’industria pesante e della produzione di massa che ha caratterizzato il XIX e gran parte del XX secolo, che comunque sono fuori dal nostro intervallo di Studio.

A tal fine e per analizzare il processo sociale sostenuto dal governo delle donne è utile iniziare con il citare le vicende storiche più antiche,

Dove emerge la figura di Penelope tessitrice, che in casa, mentre Ulisse attraversa tutti i mari e le terre del mediterraneo, lei fedele tesseva e disfaceva il sudatorio che dove servire per avvolgere il padre.

Penelope (“anatra”) per essere scampata da giovinette dall’essere annegata, anche se per alcuni il nome è connesso all’evento della tela (dal greco- pēné), in quanto protagonista principale dell’infinita tessitura casalinga.

Infatti, attese per ben due decenni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia e dato per disperso, crescendo da sola il piccolo Telemaco evitando perennemente con garbo il dover scegliere uno tra nobili pretendenti e, grazie al famoso stratagemma: che di giorno tesseva e, la notte lo disfaceva, per essere fedele alla promessa di famiglia.

Mantenendo, a debita distanza con l’ironica promessa che avrebbe scelto il futuro compagno al termine del lavoro.

Alla fine, Ulisse tornò, uccise i provocatori della moglie e si ricongiunse con essa; tuttavia questi brevi accenni, danno la misura di un ambito, anche se meno regale, e simile alle tempistiche giornaliere, che ogni moglie arbëreşë, ha vissuto e trascorso, nelle innumerevoli Gjitonie, che caratterizzarono in antichità i Katundë.

Dalla mattina prima che il sole sorgesse, sino alla sera prima del tramonto del sole, il marito partiva per i campi e rincasare dalle sue imprese quotidiane, mentre le donne rivestivano il ruolo di tessitrici preparando corredi ed elementi tessili con i telai tessendo seta e filamenti naturali nuovi e disfacendo quelli più danneggiati, e nel contempo allevavano i propri figli e sin anche quelli altrui, al fine di consentire che ogni famiglia avesse opportunità di domani migliori, secondo il patto sociale.

Donne protagoniste in prima linea, che sfidavano avversità di genere e, davano agio a ogni figura che qui cresceva, in tutto, ambiti non circoscritti e senza confini, se non quelli del rispetto e di cinque sensi, che qui si vivevano e si respiravano ad oltranza, per le nuove generazioni.

Gjitonia era anche una tessitura solida di iunctura familiare o insieme costruito fatto da Kallive, Vicoli, Orti Botanici, Vally, Suppostici, e Vicoli Ciechi, che costituivano percorrenza lenta regolata dalla articolata e difficile percorrenza, colme di accessi delle piccole case del bisogno.

Il vicolo non conduce a spazi liberi se non Vally o negli orti botanici di pertinenza, in tutto “percorsi angusti”, articolati con scale apparentemente disorganizzato, perché mai facile o veloce percorrenza.

Strade che mirano a rallentare il comune viandante, per essere meglio osservati, prima di accedere in aree di sosta.

Sono gli stessi valori urbanistico che caratterizzano dal punto di vista storico un Katundë, generalmente tessuto su tre assi, verosimilmente in direzione ovest/est, posti in solidale intreccio orientate in direzione nord-sud, generando l’interazione sociale paritaria gestito dalle donne.

Gjitonia mantiene viva la continuità sociale e il confronto in ogni forma o sfaccettatura, diretta o indiretta, perché composta da spazi privati e pubblici in condizioni dove sono regolate sin anche la temperatura, l’umidità o altre caratteristiche di tessitura che proteggono l’onore delle donne, fatto di: Vichi, Case Archi, Strade chiuse e Orti Botanici.

Il sistema così articolato divenne nel tempo riferimento di un’ecologia strettamente legata a un habitat preciso, fatto di “tessitrici specialiste” di un ambiente intimo, ristretto e fortemente diretto e disposto al confronto, dal noto governo delle donne.

Furono molte le figure nobili o meglio femminili che qui transitarono del Gran Tour, infatti qui non transitavano gli uomini ma le donne e furono tante che dopo aver vistato Roma, Napoli, Pompei ed Ercolano erano attratte da questa apparizione al femminile dei piccoli centri antichi ancora vitali e sostenuti dalle donne, quando visitavano il meridione, apprezzando i manicaretti, le pietanze e i prodotti alcolici fatti con i derivati del territorio locale, gli stessi che poi divennero, dieta mediterranea per tutto il continente antico.

Si realizzava in questa parentesi storica un confronto epocale dove donne nobili e alto locate di tutta Europa si recavano in questi luoghi per capire costumi colori e avere misura di un modo assai dissimile con cui crescevano le rampolle d’Europa colme di agio e ricchezza.

La Gjitoni dal punto di vista delle agiatezze era un luogo molto essenziale, ma il senso del rispetto e il valore dei cinque sensi, qui sicuramente era molto più alto, altrimenti perché queste grandi donne della storia che miravano alla parità dei generi, partivano, da Londra, Parigi, Barcellona e altre capitali d’Europa per ascoltare e vivere atti e sensazioni, possibili solo in questi luoghi, riecheggianti di cinque sensi.

Quanto adesso trattato e accennato, è una piega di storia conviviale mai da nessuno approfondita, ma da oggi in poi, “intellettuali”, “antropologi” e ogni “sorta di lettore libero”, avranno da sudare non poco nello scartabellare, leggere e comporre, dopo aver avuto piena consapevolezza del significato e il valore di Gjitonia, che non è stato mai Mero Vicinato Indigeno, ma luogo della tessitura delle donne Arbëreşë.

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                            Napoli 2025-02-09

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GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 07 febbraio 2025 by admin

photo_2025-02-06_21-28-11NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèù cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immagino che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande per accoglie sposi;

Eseguito per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa poi molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, perché voleva cantare volando e gridare:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

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