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LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Protetto: LA VIA DELL’OLIO “Kavaljoderë” Nella soglia della via?

Posted on 20 giugno 2020 by admin

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IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Protetto: IL COSTUME ARBËRESHË; È LA BANDIERE DELLE SEDICI MACROAREE DELLA REGIONE STORICA NON È UN ESPERIMENTO SARTORIALE PER LE RAMMENDATRICI DEL PAESE DI FRONTE

Posted on 02 giugno 2020 by admin

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STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA  (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

STORIA TRA ALBANIA E NAPOLI: MONUMENTI E ARCHITETTURA (Dal centro antico di Napoli, al Padiglione Albania della Mostra d’Oltremare )

Posted on 29 maggio 2020 by admin

Padiglione Albania

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Napoli e le sue provincie sin dai tempi dei fondatori sono state, per le caratteristiche climatiche, ambientali e strategiche, luogo di approdo, accoglienza e convivenza tra popoli con diverse ideologie.

Tra queste, resiste imperterrita, allo scorrere del tempo, la popolazione della minoranza storica Arbëreshë, che silenziosamente è protagonista incontrastata sia nelle provincie dell’antico regno e sia nella capitale partenopea.

Il centro antico della storica capitale dell’Italia meridionale, per la sua posizione baricentrica nel mediterraneo, facilitò l’approdo a Romani, Greci, Bizantini, Normanni, Francesi, Spagnoli, Austriaci e tante altre popolazioni e dinastie di rilievo.

Tutti depositarono temi indissolubili, i cui lasciti sono diventati la forza della città, tra questi a partire dal XII secolo,  vanno ricordati anche gli antichi abitanti dell’Epiro Nuova e dell’Epiro Vecchia, l’odierna Albania.

Le prospettive naturali, le strade, le piazze, gli edifici e gli elevati di culto; dal cuore ordinato e poi via, via, secondo un apparente disordine, raccontano attraverso le Carmina Convivalia l’identità dei residenti, di cui si nutrono i viandanti dalla breve esperienze turistica.

La città metropolitana di oggi e il centro storico e quello antico di ieri, meritano una lettura approfondita, specie nei luoghi, dove furono seminati i germogli dell’integrazione Arbanon, racchiusi ancora oggi nel silenzio più intimo, tra i decumani del centro antico e in tempi più recenti nella piana del quartiere di Fuorigrotta e più in dettaglio all’interno dell’area dell’odierna Mostra d’Oltremare.

Dei due episodi storici di convivenza e cooperazione, il centro antico non corre alcun pericolo per i processi di tutela cristallizzati, giacché luoghi di storia protetta; diversamente accade nell’edificio che pur testimoniando, la prima pagina del rilancio culturale economico e produttivo dell’Albania di settant’anni addietro, non ha avuto lo sperato momento di gloria, cosi com’era stato immaginato dai suoi progettisti.

L’edificio fieristico denominato Padiglione Albania, fu edificato negli anni trenta del novecento, nella Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli; dedicato specificamente all’Albania (stato Skipëtaro), unico padiglione, per i rapporti storici che lo legavano all’Italia, a essere contraddistinto con il nome proprio della Nazione.

Forte dell’esperienza barese, all’interno della Fiera del Levante, l’urbanista Gherardo Bosio, progettò il Padiglione di Fuorigrotta, affiancato dall’architetto Pier Niccolò Berardi.

L’opera espositiva a tema, esclusa la breve parentesi dell’inaugurazione, sembra aver assunto le caratteristiche delle pietre tipiche Albanesi e resistere solo per essere contemplato per la sua lapidea durevolezza.

Esso nasce come biglietto da visita delle eccellenze Albanesi, il cui tema architettonico metteva in evidenza le tipiche abitazioni denominate “Kulla” abitazione grazie alla quale le famiglie allargate Arbanon difesero la propria identità linguistica, metrica canora, consuetudinaria, e religiosa.

Diversamente dal progetto che mirava a valorizzare le caratteristiche: storiche, geografiche, della produzione e del lavoro, che avevano contraddistinto, l’Albania sia dai tempi dell’impero romano.

L’edifico si presenta come una struttura in pianta rettangolare, in bugnato e arricchita da aquile di epoca romana ai quattro angoli; la facciata principale ospitava, un ampio loggiato ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti intitolato “Il trionfo navale celebrato in Roma da Gneo Fluvio”.

Il salone interno, si presentava rivestito da lastre di marmo apuano, ulteriormente impreziosito da lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura un particolare irraggiamento.

Il percorso espositivo si sviluppava secondo priorità riferite all’Artigianato e all’Industria della Nazione Albanese dell’epoca, proseguendo, attraverso due scalinate, in marmo posti alla destra e alla sinistra rispetto all’ingresso, si giungeva al primo piano.

Nella scalinata di destra, dominava l’opera pittorica “Albania Romana” di Primo Conti, accompagnando il visitatore verso la Storia dell’Albania; la scalinata di sinistra, sovrastata da un dipinto di Gianni Vagnetti, conduceva alla sezione riservata alle opere che si andavano a realizzare in Albania.

Pregevolissimi erano i materiali archeologici secondo l’allestimento di Luigi Penta: essi consistevano in quattro statue collocate al piano terra, provenienti dallo scavo archeologico albanese dell’acropoli di Butrinto.

Tra queste la scultura della Dea di Butrinto, della quale la sola testa ebbe ragione dei bombardamenti che di li a poco tempo l’avrebbero deturpata.

Il secondo piano ospitava otto teste che non subirono danno e dopo la guerra furono custodite per 20 anni dalla Soprintendenza Archeologica di Napoli prima di essere restituite all’Albania nel 1967.

Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto gli americani occuparono la Mostra per allestirvi il 21st General Hospital allocandovi nei suoi spazi le sale operatorie.

Con la fine della guerra, il polo fieristico rimase abbandonato fino al 1948, quando si diede avvio al progetto per la ricollocazione fieristica del polo, conclusa nel 1952 con la conseguente inaugurazione con titolo il Lavoro Italiano nel Mondo.

La manifestazione segnò anche l’inizio di una lenta e inesorabile manomissione del tema architettonico originario, stravolto per aver modificato alcune strutture identitarie dell’antico progetto, perché profondamente danneggiate dai bombardamenti.

Oltre ciò, nel corso del rifacimento il padiglione venne convertito, con poca attenzione del suo originario tema, intitolandolo al Lavoro Italiano in Oceanica.

Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse, dando così avvio ad un secondo abbandono dell’ edifico, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.

Alla fine degli anni ’90 furono messe in atto le prime manovre per il ripristino dell’area fieristica, che culminarono nel 2001 con la gestione di Comune di Napoli, Regione Campania e Camera di Commercio.

Da allora sono stati fatti grandi passi in avanti verso la definitiva riqualificazione dell’area, ma ciò nonostante il Padiglione Albania, fu abbandonato èd ebbero inizio le drammatiche vicende di abbandono e l’ovvio degrado.

L’ingresso all’edificio, infatti, è a oggi circoscritto da un muro in cemento che ne impedisce vista e accesso, la cui naturale conseguenza è la perdita immateriale del suo significato storico e l’inesorabile cedimento del suo particolarissimo bugnato. 

Tutta la vicenda del padiglione Albania cui si deve porre rimedio e dare lustro, sino a oggi si possono sintetizzare nel dato, che non rientra ne fa parte di questa analisi,specie quelle legate all’ultima vicenda che ha visto l’intero piano di riqualificazione dell’comparto, oggetto del ritiro dai fondi europei previsti per la sua riqualificazione.

Alla luce di ciò e di tutte le vicende storiche che legano Napoli, il meridione d’Italia e l’Albania, devono porre in essere attività in concertazione tra le istituzioni, affinché il padiglione assuma quella funzione di fratellanza storica, economica, sociale, culturale, religiosa e politica per il quale venne innalzato e contro ogni avversità degli uomini continua a resistere imperterrito.

Il Padiglione Albania, allocato all’interno della mostra d’Oltremare, non è un semplice involucro fieristico reversibile, e adattabile a ogni genere di avvenimento, in quanto, nasce come emblema storico di cooperazione e diffusione delle eccellenze di oriente e di occidente cordialmente convergenti nel bacino mediterraneo.

Un monumento realizzato a tema per unire l’Italia ospitante e l’Albania ospite, una caratteristica parallela che unisce i due ambiti territoriali posti di fronte e quanti hanno avuto la possibilità di farla brillare, non possedevano lo spirito storico culturale per comprendere il ruolo che esso doveva assumere.

Oggi le istituzioni Albanesi e Italiane dovrebbero rendere merito alla caparbia durevolezza di questo manufatto, segno di unione di due popoli e terre parallele, predisponendo misure adeguate per confermare il legame tra le due nazioni, essendo l’Italia, anche la patria ospitante la minoranza storica più numerosa del meridione italiano: gli Arbëreshë.

Per questo, urge istituire un comitato tecnico, politico e scientifico, al fine di concertare, appropriate iniziative per restituire al manufatto gli  originari temi divulgativi dei territori oltre adriatico sia dal punto di vista sociale e sia produttivo, degli Albanese a Napoli.

Basterebbe spolverare protocolli tecnici e porre in armonica cooperazione i Ministeri della Cultura, del Turismo, degli Esteri e dell’Industria, oltre Regioni, Provincie e Comuni, per rendere l’edificio, un luogo d’incontro per la minoranza storica arbëreshë, che con le sue eccellenze è stata sempre in prima linea con le vicende storiche partenopee, ancora oggi solidamente connesse alle realtà sociali culturali ed economiche meridionali.

Il padiglione Albania alla mostra mediterranea potrebbe diventare l’emblema di un trittico culturale senza eguali, per questo, attraverso il giusto progetto di restauro funzionale, si potrebbe allestire attività in rappresentanza di una Regione Storica Arbëreshë e della Nazione Albanese in terra d’Italia.

Un vero e proprio manifesto fieristico espositivo,da cui far emergere l’espressione culturale, senza soluzione di continuità, secolare, al fine di rendere merito al modello  sociale, culturale, linguistico, consuetudinari e religioso, tra i più solidi del bacino mediterraneo, frutto della buona cooperazione di radici solidali.

Il padiglione Albania monumento unico nel suo genere, rappresenta, il luogo in cui convergono culture diverse, per confrontarsi, per far emergere le cose buone dei due paesi di fronte, proprio come “l’Aquila bicipite”, che rappresenta un solo corpo, forte e solido, con le prospettive di orientamento ricolte sia a oriente e e sia a occidente.

Uomini culture religioni e operosità messi a confronto per migliorarsi e spargere esempi attraverso gli elementi caratteristici della regione storica arbëreshë, l’esempio mediterraneo di cui Napoli e l’antica Albania, hanno reso possibile, da sei secoli e senza soluzione di continuità sino a oggi.

 

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NASCERE E CRESCERE SECONDO IL FOLCLORE ARBERESHE

NASCERE E CRESCERE SECONDO IL FOLCLORE ARBERESHE

Posted on 24 maggio 2020 by admin

AAAAAAAA1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – L’insieme delle nozioni popolari, distinto dal patrimonio e dall’orientamento culturale superiore ed egemonico, nelle manifestazioni della vita culturale genericamente popolare, s’identifica nel folclore.

Il termine è formato da due parole, di origine anglosassone e rispettivamente sono: “popolo e sapere”e mirano ad associare per tramandare le tipologie di tradizione in forma oralmente, concernenti, usi, costumi, miti, narrazioni, credenze, musica, canto, il tutto riferito a una determinata area geografica, di una ben identificata popolazione.

Quando tutto questo insieme di nozioni si ha la fortuna di coglierle nel corso dell’adolescenza, in armonia con i dettami caratteristi e caratterizzanti il sociale tipico di quel identificato territorio, è segno che il tassello del folclore è stato coniato.

Un bagaglio la cui radice culturale ti è affidata dalla tua genitrice, la stessa che per essere rimasta, orfana ha recuperato l’amore materno mancato, nell’accogliere di buon grado la nuova figura, riconoscendo attraverso consuetudini antiche le caratteristiche locali dei cinque sensi di vita locale che non ha potuto ricevere dall’originario amore materno.

Più di un secolo di storie avvenimenti e consuetudini, canti, appuntamenti religiosi e manifestazioni ripetute ogni anno senza soluzione di continuità; questo e null’altro sono l’insieme di radici che poche persone possono aver avuto in eredità; da qui ha origine la radice di ricercatore, di studioso ben distante dalle false ideologie, quelle che messe a confronto tra uomo territorio e natura, si polverizzano nel tempo di un fuoco di paglia e il vento le porta via.

Essere un arbëreshë, privilegiato, erede di radice del folclore, non è un fatto che capita per caso, perché oltre ad essere abituato a cogliere odori, colori, sapori, e pieghe di vita, di chi ti segnava la strada, indossando con garbo e dedizione l’abito tipico secondo il rigido protocollo immateriale, bisogna essere in grado saper leggere e interpretare i segni dell’identità che ti lasciava.

Specie se si tratta dell’insieme di “cultura, idioma, consuetudini, metrica, in armonica credenza greca bizantina”; la radice fondamentale che poi è un insieme inscindibile cui non devi ne aggiungere e ne sottrarre nulla, ne tanto meno sottrarre o cambiare quantità e qualità.

Se poi la figura paterna è un ottimo fabbro, che per le sue capacità di arte, sa come temprare, sino a rendere solida, inattaccabile e indeformabile, la propria indole, è segno che i principi per progettare e seguire la giusta rotta nel corso della vita diventa certezza.

Nascere e crescere nel quartiere simbolo dell’operosità arbëreshë, con il suffisso e l’identificativo “Ka lemi”, al fianco di gjitoni che giornalmente verificano la tua parlata perché, (a detta loro), corri il rischio di essere scambiato per un figlio di zingaro provenienti dai paesi limitrofo e finisci di essere portato via, è la misura che conferma l’appartenenza alla tipica gjitonia arbëreshë.

Allora è segno che provieni dal mondo fatto di “biblioteche viventi”, “una fonti raffinate”, “istituzioni inestimabili”, in tutto sei il figlio di madri che ti avvolgono e ti allattano del loro sapere, secondo una ben identificata tavolozza di colori, con cui poi in seguito potrai lasciare il segno disegnando un quadro unico e irripetibile, opera di folclore, quella che ad oggi manca alla regione storica, la cui conferma non di “alchimisti litirë” ma da “ rari genitori e gjitoni arbëreshë”.

Quando poi arricchisci e affinai con titoli a tema sei perfettamente in grado di tracciare le arche idonee da cui partire e dare senso, sia dal punto origine: la tua famiglia, e poi ai relativi cerchi concentrici, perché possiedi un tesoro inestimabile, in senso di valori intangibili che ti consentono di raggiungere sin anche il tangibile da illustrare agli altri.

Una cinta di valori, storicamente ordinati e indissolubili, principi inequivocabili, con priorità rivolto al senso, di sociale, consuetudinario, idiomatico e religioso, gli stessi che danno forza al folclore, la famiglia, alla fratellanza, alla gjitonia, al costume, alle tradizioni e  ogni elemento che caratterizza la minoranza e il suo ambiente naturale. 

Alla luce di ciò, ritengo, affermo e ripeto che la storia degli arbëreshë “non è stata mai fatta”, ora soltanto può iniziare, perché gli avvenimenti che prima parevano slegati e inesplicabili, finalmente descrivono una trama legata che trova ragione, senso, e verità di essere.

Più di un secolo e mezzo di storia consuetudinaria conservata e catalogata in fascicoli che nessun dipartimento, universitario contiene e ne mai potrà riuscire ad uguagliare, sino a quando si persevera nell’allocare i più preferiti dai più formati.

Questa inesorabile scelta è una deriva non volgere attenzione nella storia generale, scritta secondo i fati, gli avvenimenti, gli uomini e i Katundë, cosi facendo è stata ulteriormente spregiata, da  proponimenti senza alcuna forma di protocollo attendibile o verificata sul territorio.

Quale attendibilità la storia degli arbëreshë può avere, se tracciata in disarmonia con i rigidi protocolli consuetudinari delle famiglie matriarcali arbëreshë, secondo cui ogni giorno e ogni cosa ha un significato in ritualità uniche e insostituibili.

Essa rappresenta un riversare continuo di atteggiamenti di vita sociale negli ambiti arbëreshë e in ogni dove diverso si ripropone, diventa una fucina di un metallo le di cui pieghe e sfumature appartengono esclusivamente a quella fascia mediterranea, la stessa, sempre un passo avanti rispetto alle altre genti del globo terrestre.  

La regione storica arbëreshë, comunemente denominata Arbëria sta in cima ai pensieri e agli affetti di ogni studioso, sia ad Est che ad Ovest del mare adriatico e dello jonio, di queste terre sono stati considerati patrioti quanti dicevano di amare la terra natale, amministrando direttamente gli statuti, che dovevano essere il beneficio dei poveri, celebrando i fasti di queste terre in ogni maniera, ornamento e lustro.

Chi a tutt’oggi ha legato al folclore unico e inscindibile di Idioma, consuetudine, metrica del canto e religione, viene considerato o accusato di possedere idee indigene  per un buon arbëreshë.

L’accusa venne fatta in seguito al primi articolo  divulgato in tal senso relativo all’interpretazione storica della kaliva e del significato del baliaggio, recensito, da una conversazione apparentemente benevola, ma che voleva difendere le ilarità storiche monotematiche divulgate.

Cosi come i canti popolari che accomunano e allargano i confini stessi della cultura arbëreshë, ritenendo che quelli odierni di estrazione “Turcofona” nel vasto quadro della cultura dell’Arbëria indifferenziata, possa creare presupposti di dialogo o dialoghi in cima ai pensieri e agli affetti di ogni sorta di studioso.

La Biblioteca Storica o le biblioteche storiche non stanno ne a Napoli, Barcellona, Palermo o Venezia ne tanto meno in Turchia, esse risiedono nei paesi arbëreshë,  sono i lasciti delle nostre madri, quelle madri che hanno saputo  esse sapienza locale, “biblioteche viventi”, “fonte”, “istituzione”, in tutto, tavolozze con cui disegnare il quadro unico e irripetibile, opera folclore; poi gli altri disperdono e non vestono di garbo.

“Per le madri arbëreshë che sapevano vestirsi e non si vergognavano di essere esempio antico , folclore!”.

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MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

MAIUS II N SHEN THANASII PATRI

Posted on 23 aprile 2020 by admin

NATALIZIO 2 MaggioNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Anche quest’anno si è in fermento per la festa che rappresenta l’apice di coesione e di credenza di tutta la comunità Sofiota.

Il ricordo va a tutti i nostri cari che nel corso dei secoli hanno reso possibile tutto ciò e, allora come oggi nell’approssimarsi del due di maggio, si prodigavano per rendere questo momento di credenza condivisa unico e irripetibile.

La Festa sempre intensa e colma di valori, ogni anno con una caratteristica che  precisa torna alla mente e il ricordo va ad ognuno di loro che sono tanti.

Si sfornavano ceste di taralli, per ben accogliere le visite di rito e di amicizia, o scendere di casa, nel corso della processione e offrirli, numerosi, come sostegno ai fedeli in penitente  devozione.

Si ordinavano le strade, si adornavano finestre, balconi e loggiati, con essenze floreali e si stendevano raffinatissime coperte.

Ogni anno l’evento era caratterizzato o per meglio dire caratterizzato  con  novità pianificate dalla brillante, radicata e preparata Commissione , la quale atteso cil consenso univoco della popolazione, si adoperava per porla  in essere diventando l’elemento pregnante di quell’anno, quello che va in oltre sottolineato: in  esclusiva forma devozionale.

L’operosità e l’inventiva produsse gli indimenticabili moduli illuminotecnici, fatti con chiodi, ferro filato, una tavola di legno e portalampada a vista, furono questi apparati che   volto nuovo alle quinte del paese,  durante la notte grazie i piccoli contributi energetici attinte da ogni famiglia per devozione.

Come l’anno che volle dare al paese una pigmentazione mediterranea, dipingendo a calce, le quinte delle case dove sarebbe transitata la processione, comprese quelle della piazza: producendo così una nuova prospettiva cromatica.

Altri anni si preferì attivare le risorse addobbando la chiesa, con arazzi e tendaggi per dare senso al sacro volume in tono caldo e sontuoso, (la chiesa a quei tempi era priva dai preziosi dipinti della scuola cretese).

I multicolori Palloni, intelligenti opere realizzate con pochi e rudimentali apparati; carta velina, colla di farina, ferro filato, resti di candele e pezzi di sacchi in canapa.

Gli stessi che nel corso dei decenni, sono divenuti un vanto in tutta la provincia, grazie alla caparbietà di quanti hanno continuato a realizzarli con il compito di lasciare la memoria ell’operosita alle nuove generazioni.

Ricordo la funzione religiosa (mèsha llalbit), che l’instanzcabile “Zoti Kappa” la mattina del 23 aprile, primo giorno delle novene, ufficiava nella Kona.

Immancabilmente la mattina del ventitre mia madre, Adolina Kongorelit, di buon ora, iniziava la vestizione delle Stolje senza nulla lasciato al caso, come tradizione arbëreshë pretende e scendeva quando si sentiva chiamare da Marja Vukastòrtit,  e avviarsi a piedi verso la Kona, in compagnia di altre afferrate e garbate devote, è d’obbligo ricordare: Melina Ngutjt Serafina Kurthëvet, Annetta Abelith, Anmaria Pasionatit, Koncetta Miluzith, Rusaria Pixhònit, Martoresa Timbunit, Vittorina e Lilina Zingaronit, capeggiate da suor Melania e le sue consorelle.

Esse si dirigevano verso la Kona ove li attendeva l’indimenticabile Padre Capparelli assieme al fedelissimo Benito Fabbricatore (i bëri Mindìut) e al canto di Djta Jote iniziavano le lodi al santo e la funzione religiosa.

Non so se oggi questa tradizione si ripete o è stata accantonata come tante altre, ma l’entusiasmo e la convinzione che queste donne avevano sono rimaste radicate nei valori e nella credenza che i Sofioti hanno nei confronti di Sant’Atanasio.

Mi auspico che quest’anno rimangano fuori dalla chiesa gli inni e le lodi da stadio che il saggio Archimandrita Giovanni Capparelli ha sempre rifiutato e richiamato la popolazione intera a non esternare all’interno del sacro perimetro, dove esortava tutti a cantare gli inni religiosi e BASTA!

Mi rivolgo alla Commissione, affinché questa FESTA conservi gli opportuni caratteri religiosi, con l’auspicio che gli insegnamenti del saggio Padre Capparelli , oltre a quello delle devote sofiote che hanno sicuramente lasciato il senso della festa e non vadano calpestati da quanti non hanno la misura di cosa unisce il Santo alla Comunità o magari lo ignora del tutto.

Per le disposizioni clericali laiche quest’anno non daranno spazio ai consuetudinari riti fuori e dentro il perimetro dal cuore del paese, nella Kona, o durante la storica rievocazione dell’estate arbëreshë dal Ottava rispettosi delle limitazioni imposte.

Tuttavia si spera che gli adempimenti all’interno e all’esterno del perimetro religioso siano attuati, dalle persone figlie e figli del garbo e con senso della devozione, e non preferiti quanti hanno sempre vissuto ai margini, perché bravi a fare come il diavolo, tutto subito e male, a scapito della  credenza che vuole i tempi della metrica e la consuetudine.

Sant’Atanasio unisce storicamente tutti i Sofioti il due Maggio: quest’anno la processione sarà unica e irripetibile in quanto raccoglie allo stesso modo tutti noi fedeli credenti.

Tutti i Sofioti del mondo nel 2020 avranno modo di condividere quest’appuntamento in forma irripetibile, con “il cuore o con la mente”, senza distinzione ne di luogo e ne di genere, per una volta nella storia saranno tutti uguali, sin anche chi a Napoli per imposizione veshëkavile deve badare alle proprie cose.

W W W Shen Thanasi çhëshë i Madë!!!!!

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GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

GLI ARBËRESHË, LA STORIA DIFESA CON LA PELURIA

Posted on 22 aprile 2020 by admin

Diavolo_Gesu-290x300NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La minoranza storica arbëreshë nel corso della storia del mediterraneo, ha espresso il valore innato, nel predisporre modelli sociali economici, che poi sono oggi l’espressione delle città moderne o dette, metropolitane.

Le stesse che poi in seguito ampiamente dimostrate, a quanti abituati a vivere di espedienti senza radice, gli oppositori  di queste idee innovative, nonostante anche essi avranno, prima o poi,  modo di beneficiarne in senso di applicazioni sociali, politiche, economiche e della scienza esatta.

Gli arbëreshë notoriamente sono ricordati, semplicemente, per le vicende di confronto e scontro, sia in terra natia e sia negli ambiti paralleli della regione storica del meridione italiano, dal XIII secolo.

Qui in questo breve si vogliono distinguere le categorie sane dalle “litirë” le stesse che non saranno ricordati come prescelti se non per essere stati capaci di produrre danno, danno e solo danno.

Questi ultimi nelle narrazioni diffuse, appaiono descritti senza cultura, similmente agli animali che per difendersi dal freddo non usano l’intelligenza ma attendono che la natura li munisca di peluria o altro apparato naturale di equilibrio corporeo, come ad esempio, artigli e la mala lingua, per soddisfare il bisogno di alimentarsi.

La natura degli uomini, si può riassumere in una serie infinita di linee parallele, ciò tuttavia, allocare gli arbëreshë in tipologie cosi estreme, non è esatto, anche se per certi versi quando si subiscono le angherie di quanti, vestendo giacca cravatta e guanti, nascondono la peluria e gli artigli, forse un’icona parallela dove intercettarli sarebbe il caso di evidenziarla per riconoscerli.

Come per esempio l’affascinate idea di illuminismo moderno della “Regione storica diffusa arbëreshë” e il progettato polo di valorizzazione, in cui far convergere necessariamente, teoremi e direttive da sottoporre al vaglio di un gruppo multidisciplinare.

Il progetto per la tutela della minoranza arbëreshë, assieme ad altri pronti per essere innalzati, sono stati preparati, senza che nell’arco di venti anni, nessuno di essi sia andato a buon fine; “OPPOSIZIONI” di varia natura, ne hanno impedito la diffusione.

Alla luce dels clima politico, che nel corso degli anni pur se profondamente mutato, è rimasto solidamente ancorato al suffisso cultural-economico, imponendo la costruzione di un istituzione di falsi cultori, gli stessi che affrontano l’inverno con la peluria cresciuta naturalmente, per difendere se stessi e il loro ambiente naturale cavernicolo.

Se non si corre ai ripari, è normale che poi a difendere la credibilità arbëreshë, non rimane altro che rivolgersi a imperterriti cavalieri dell’architettura e dell’urbanistica, figli di quella rara consuetudine che cura e conosce gli ambiti attraversati bonificati e innalzati dagli arbëreshë.

Diversamente dai tuttologi per gli atteggiamenti acquisiti, non riescono sin anche di attraversare il Surdo e il Settimo, ormai in secca, per partecipare alla disputa, che ha luogo nella Chiana, sotto le pendici della mula, dove i litiri dall’alto dei loro tacchi a spillo, dicono di saper fare i paesi arbëreshë con le gjitonie dentro.

Sono fieri sui loro cavalli, quanti usano le proprie capacitò intellettive, predisponendo gli idonei apparati, costruiti e innalzati, nel rispetto dell’ambiente, del tempo e degli uomini, secondo disciplinari realizzati dalla intelligenza, quella storica conservata nel cuore e nella mente, senza sprecare energie per tenere in vita l’apparato digerente. 

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VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Protetto: VALJIE, GJITONIA, SKANDER, QUARTIERE, BORGO, TANTO PER CITARE L’APPARIRE!

Posted on 12 aprile 2020 by admin

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CHI RICORDA?  da ( “Lungro a quadretti”)

CHI RICORDA? da ( “Lungro a quadretti”)

Posted on 02 aprile 2020 by admin

img2LUNGRO (di Alex Rennis) – A tutti noi dell’asilo infantile di Lungro, in prossimità delle elezioni del 18 aprile 1948, è stata consegnata questa immagine da portare a casa ai nostri genitori : la testa di Garibaldi – figura scelta a rappresentare il Partito d’Azione sui manifesti di allora – che, girata di 180 gradi, si trasformava ( e si trasforma !) in quella di Stalin, a ricordare che votando Garibaldi si sarebbe votato per il P.C.I., per Stalin, per la Russia e contro l’Italia. Ecco: l’ho ripescata tra le cose dimenticate in un cassetto, ma ricordo benissimo quella campagna elettorale. Giorni frenetici, scontri in comizi, ma anche qualche scontro fisico fra comunisti e democristiani del paese. In particolare, in una campana elettorale di alcuni anni dopo, ricordo il comizio di un ex prete, padre Tondi, che dopo aver gettato la tonaca alle ortiche ( come si dice) , si era iscritto al P.C.I , aveva visitato la Russia e veniva portato in trionfo ad illustrare “ le magnifiche sorti progressive” che viveva l’allora Unione Sovietica, da realizzare anche in Italia con la vittoria del PCI. Ma la DC del tempo non se stava con le mani in mano: ed ecco il simpatico cosentino Don Luigi Nicoletti partire in giro per i paesi a sostenere la DC e contrastare, così, il Tondi traditore. Arriva a Lungro e non parla in piazza Casini, ma in corso Skander proprio dalla loggetta in alto di fronte al negozio di Dominique, oggi casa Kaciqj (buonanima), dove Nanandi Paçafrangut, con pochi altri suoi amici, aveva preparato nientepopodimeno che una specie di microfono, ricavato da un gracchiante giradischi, appena amplificato con la tromba “La voce del padrone”: ben poca cosa, ma meglio di niente! Iniziamo? Iniziamo. Accanto a don Luigi c’è papàs Stamati ( eh….che grande parroco e poi illuminato Vescovo di Lungro !!!) che presenta l’oratore del momento; ma appena don Luigi si accinge a parlare scatta una trappola che i comunisti lungresi avevano preparato davanti al Dopolavoro. Una ciuccia in calore – per caso ??? – era stata legata nei pressi del portone e – sempre per caso ???- in quel momento irrompono sul piazzale due somari: in un baleno scoppiano ragli aggressivi, accresciuti dagli sghignazzi dei comunisti disseminati qua e là e la rabbia dei democristiani che accorrono a spegnere la scenetta. Finalmente don Luigi può parlare e, indicando i protagonisti: …. “ Eh!!!! Madonna mia bedda,   n’haiu dittu na sola parola e l’avversari i mia già protestanu ! Cazzarola !!1 “ All’ascolto di quest’ultimo sfogo…dialettico, papàs Stamati ha un moto di sorpresa e conseguente strofinio alla sua rada barbetta. La reazione   non sfugge a don Luigi, che subito, invece di scusarsi, rincara la dose : …” e no, don Giova’, ngùnu cazzicìellu quànnu ce vo’ ce vo’ !” Il resto lo lascio immaginare. Ma che dire di cosa è successo a Lungro la notte dell’ allarmante falso annuncio della vittoria PCI ? Non dico più. Forse in altra pagina farò sapere.

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“MIA IMPRESSIONE”  (2 Maggio 1958)

“MIA IMPRESSIONE” (2 Maggio 1958)

Posted on 07 marzo 2020 by admin

MiraccoRACCONTI DI IERI ( T. Miracco) – Per i festeggiarne a S ; Atanasio, nostro Protettore abbiamo visto, durarne tut­to il novenario, le donne indossare, con solennità devozione, i ricchi e sfarzosi costumi della nostra terra, gente venuta dai paesi lìmitrofi prostrarsi ai piedi del Santo; compatrioti; venuti dalle lontane Americhe cercare nella spontaneità di questa festa il fascino e il profumo del passato.

Questi ultimi ci hanno riempito il cuore di commozione.

Abbiamo visto e sentito, cosi, Atanasio Spezzano, giunto la vigilia della festa per sciogliere un voto versa Santo, raccontare gli avvenimenti più salienti della sua vita americana .

Mentre li diceva in chiesa davanti ai presenti scoppiando in lacrime e si accomunarono a lui nella preghiera.

Erano passati ben 35 anni dalla sua partenza, ma la fede aveva completamente colmato il vuoto.

Accanto ad Atanasio Spezzano stava assorta nella preghiera la nipote Pasqualina Cosentino venuta da Parma.

Abbiamo visto la signora Anna Maria Pellegrino, in Baffa fedele alle nostre tradizioni, scattare continuamente fotografieche, diceva saranno le cose che più le faranno ricordare “il nostro loco” In California, paese che la ospita da trent’anni.

Abbiamo visto Luigi Baffa assistere alle tradizionali corse coi sacchi e lo abbia mo sentito, mentre ricordavi con commozione, gli anni che lo videro partecipare alle stesse manifestazioni.

Cera una moltitudine di Signore e Signorine che fa­cevano a gara per portare a spalla la statua del Santo in processione, e giovani e anziani far corona alla sta­tua mentre attraversava la campagna per raggiungere la cappella costruita grazie alla solerte attività e costan­za del nostro concittadino», Canonico D. Pietro Monaco.

Nè possiamo tralasciare lo spettacolo di fede offertoci dalla nutrita schiera degli studenti; fa sempre piacere vedere i giovani partecipare con lo spirito di una manifestazione religiosa; ci fanno guardare a domani con più fiducia, con maggiore serenità.

E’ inutile dirvi che il cuo­re, il mio cuore di improv­visato cronista, stava per scoppiare di commozione al­lorquando mio figlio il  grande mi fece omaggio della foto qui sopra riprodotta con la seguente dedica: “A te, pa­pà, perché tu sappia che da oggi 2 maggio 1958, continuerò io la tradizione da te iniziata quando avevi la mia stessa età” – Infatti è stato sempre, per me, un privile­gio portare a spalla la statua del nostro Santo – Che il Santo ti protegga e ti elar­gisca le stesse grazie ricevu­te da tuo padre e da quanti hanno fede in Lui, figlio mio !

Nella raccolta dei fondi con i salvadanai si sono fat­ti onore, ma particolarmen­te la nostra lode va alla si­gnorina Ferraro Rosaria che ne ha consegnati tre ad Amodio Maria Domenica, a Gallo Angelo.

Baffa Costantino (Zio Co­sta), in rappresentanza dei Sofioti residenti in America,mentre la nostra stima per l’incesssante attività ha senz’ altro distinto e gli ha fatto realizzare una copiosa messe di putti.

Nè si può tacere Vammi revole e incrollabile Fede dì tutti i componenti il Comi tato, elencati in altra parte di questo numero, tutti de­gni di elogio. L’entusiasmo e la fede del Segretario An­gelo Bugliari sono a tutti noti, riteniamo pertanto inu­tile parlare della sua instan­cabile attività.

Tutti noi del Comitato facciamo ora circolo intorno al nostro beneamato Arci­prete Don Giovanni Capparelli, Presidente del Comita­to, per gridargli la nostra gratitudine ed i più sentiti ringraziamenti.

Sì, Rev. Arciprete, nella realizzazione di questa ma­gnifica festa siete stato per noi l’anima, la personifica­zione della fiducia, meritate perciò il nostro affetto.

Ani­mati dal Vostro incitamento e dalla Fede che ci lega al nostro Grande Protettore Vi promettiamo sin da ora che saremo sempre al Vostro fianco per far sì che que­sti festeggiamenti assumano una risonanza sempre più vasta sì da richiamare al paese natio tutti i Sofioti redenti all’estero che portano nel cuore gli stessi palpiti, gli stessi sentimenti che in questo piccolo lembo di Calabria ci fanno fratelli.

VIVA S. ATANSIO

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QUANDO L' ÓMAGGIO DEI SOFIOTI AL SANTO ERA SENTITO (2 Maggio1958)

QUANDO L’ ÓMAGGIO DEI SOFIOTI AL SANTO ERA SENTITO (2 Maggio1958)

Posted on 07 marzo 2020 by admin

ALTRI TEMPI ( A. Bugliari) – Il “calendimaggio” sotto i pagani, si concludeva con le feste di primavera: oggi, in alcuni paesi delle colonie Italo-Albanese, a causa della trasformazione, attraverso i tempi, nel rito cristiano, si ripetono quindici giorni do­po l’Ascensione con Wlamia e Moterna {fratellanza e so­rellanza).

A Frascineto, dette feste si celebrano i primi tre giorni di Pasqua; a Civita si celebrano i primi tre giorni di maggio.

A Santa Sofia questa festa cristianizzate, diedero ad un atto di culto di venerazione  per il proprio protettore S. Atanasio il Grande il famoso Patriarca di Ales­sandria, tanto veneralo in Occidente ed in Oriente.

E non è privo di significato il fatto che la processione, seguendo una tradizione antichissima, reca il Santo nel sacello eretto a Sua devozione in una tontai­na zona di campagna, sul colle ameno di “Monogò”.

Anche quest’anno è tornata la primavera: all’alba del 23 aprile, annunziata dal suono festante dei sacri bronzi, dallo sparo dei forti petardi, il popolo reverente è accorso netta Chiesa Matrice, dando così inizio ai festeggiamenti preannunziati col manifesto che si riporta in altra parte di questa pubblicazione.

Durante tutto il novenario la statua del Glorioso Santo Atanasio, si è vista rifulgere di vivida luce, e nel giorno della festa il 2 maggio, è passata nella Campagna in fiore – in un’aureola d’incomparabile bellezza, in un’apoteosi di fede e d’amore – accompagnata da una fiumana di popolo, giunto anche da lontano, fra inni osannanti, preghiere, suoni festosi.

E’ il rito che si ripete, è la gloria immortale di S. Ata­nasio che si rinnova più radiosa e che valicando i confini di madre natura, si diffonde nell’armonia dei cieli e si perpetua fra il suo popolo nel massimo splendore.

E’ il Nome che si tramanda da generazione in generazione, per giungere lassù fini a Lui nella luce dei cieli.

Dopo la celebrazione della messa in rito greco – bizantino, il lungo corteo si è snodata dalla chiesa Matrice verso il colle dove sorge il suo cello, attraverso l’ubertosa campagna; eccezionale spettacolo che può eternare solo il pennello di un gran pittore.

Rifulgevano le donne albanesi dai caratteristici costumi; meravigliosa policomia di colori dei mosaici di stile bizantino, di seta e raso prezioso che QUESTE DAME DEL LAVORO E DELLA FEDE, partano con superba maestà, con gelosia tradizionale, segni di una storia di una millenaria civiltà.

E’ un quadro palpitante di devozione, d’implorazione, di benedizioni e di promesse.

E’ l’incontro di un popolo. con la natura e la divinità; è un abbraccio di virtù, di sacrifici, di penitenza, che vi­vifica la figura del Santo – maestosa ed imponente – che ci fa più degni e più or­gogliosi di appartenere alla Chiesa di Cristo.

Al passaggio del corteo, gli atti di fede si ripetono, l’of­ferta cospicua a modesta, non importa, si moltiplica: è un amplesso di dedizione e d’amore, lo dicono i visi di ognuno, di tutti, commos­si fine alle lagrime, mentre i petardi vanno lassù fino in cielo ed un tradizionale pallone di carta affidato all’atmosfera porta fino agli An­geli, ai Cherubini, ai Serafini, la voce del popolo fedele che canta gl’inni al suo San­to Protettore.

Quando di ritorno entra nella Chiesa Matrice, un grido un grido solo sempre dal cuore di tutti e valle in valle e giunge lassù nell’arcana armonie e nella gloria divina dei cieli: Sant’Atanasio.

E’ un incantesimo che tra­sforma l’umano tormento in gaudio ineffabile !

L’ultimo raggio di sole di questa splendida giornata di maggio, in una visione di divino splendore s’irradia sulle creature e sul Creato: la festa è finita; è per tutti una gioia ampia, mista di beata malinconia che s’avverte di più sentendo dindondare i sacri bronzi dalla tor­re campanaria; suoni che vuotano l’anima dal quotidiano cuore, colmandola di melodia connessa all’eternità.

Il santo dal suo trono benedice gli astanti, i lontani, i fratelli all’estero, promettendo grazie e benedizioni: noi genuflessi preghiamo, promettendo di onorare sempre più degnamente il nostro protettore.

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