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L’ARBËRESHË NON È UN ACROLITO

L’ARBËRESHË NON È UN ACROLITO

Posted on 08 maggio 2021 by admin

AcrolitoNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Un arbëreshë non ha bisogno di atti archivistici per sapere di esserlo, perché già conosce quanti e quali valori lo identificano culturalmente e lo rendono protagonista nella storia del meridione.

Un arbëreshë è tale prima, durante e dopo le vicende che hanno visto protagonista Giorgio Castriota e se oggi tutta la regione storica lo ricorda è il segno che è stato un un buon “gjitonë”.

Un arbëreshë è venuto nel meridione da persona desiderata per assolvere, almeno tre compiti; pochi sono consapevoli e molti non lo sanno, quali sono.

Alcuni arbëreshë impiegano il tempo che passa a intrecciare i due distinti estratti della stessa ginestra, non in forma scritta dell’idioma, che non serve a nulla, ma con la manualità tipica di chi sa tessere senza sprecare filato.

Un arbëreshë non è colui che termina e inizia la sua giornata, levando le mani al celo e favellar una lingua ignota come diceva il comune viandante.

Un arbëreshë cresce aggrappato al candido merletto della madre, fa i primo passi sostenendosi nelle pieghe delle zoha e  inizia a camminare sicuro di farcela, si libera perché conosce bene la solidità di quelle pieghe che lo hanno aiutato a crescere.

Un arbëreshë, conosce la storia che gli appartiene, non ha bisogno del parere di figure altre, specie se stravaganti registi, distratti alchimisti o ironici giullari.

Un arbëreshë non è un esperimento linguistico, perché è un modello completo e trova la sua linfa nei comportamenti di libertà impressi nella sua natura di essere umano.

Se un arbëreshë nasce nel paese capitale della cultura, si forma sotto il sole e l’aria della capitale NÀrbëreshë, non ha bisogno della crusca del mugnaio o inutili alchimie.

Un arbëreshë non è l’uomo che dopo aver pulito una casa abbandonata, si siede davanti all’uscio e parlare una lingua altra, sperando che tutto gli sia offerto dal cielo e la casa cresca per opera di altrui genti.

Un arbëreshë, per quanti non hanno consapevolezza, è un componimento mediterraneo di alto valore sociale e culturale, solo lui può dire chi è, cosa vale, e quante missioni è in grado di onorare, perché vive di codici che gli altri non sanno e ne possono comprendere.

Un arbëreshë è la radice solida dei labili e discreti albanesi, questi ultimi in specie, si devono astenere, dal riferire argomenti e principi di radice culturale, perché non concepiscono come portare sulle spalle e idealmente nel cuore e nella mente la radice dell’antico ceppo.

Un Arbëreshë può essere di esempio e guida agli albanesi, il contrario è impresa ardua, anzi impossibile; tutte le volete che nella storia hanno provato l’esperimento, dai Balcani sono emersi scuotimenti, guai e vicende paradossali, che certamente non sono annotati per la nobiltà di atteggiamenti.

Un arbëreshë è fiore; sboccia si moltiplica e consolida la sua raffinatezza, ogni volta che il sole appare e accarezza le colline a ridosso del “fiume Adriatico”, affluente preferito del mare Jonio; il processo naturale, ripete senza mutazioni di genere, il singolare avvenimento dalla prima luce dei tempi .

Un arbëreshë non balla, canta solamente, lo fa per lavorare meglio e con profitto, si lega ai suoi simili dandosi la mano; il segno di leale operosità e se per dovere lavorativo deve distaccarla, avvicina i cuori in un ideale battito di fratellanza circolare.

Un arbëreshë danza è balla,per valje, tutto nasce dall’imposizione di cambiare religione e lui onesto per non ferire, distrae quanti credono di esser riusciti nell’impresa, e il giorno dopo si rendono conto che nulla hanno cambiato; bizantina rimane ogni cosa.

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DAL VENERDÌ PRIMA DELLA PASQUA (Valje, le ridde tra Arabi e Saracena?)

DAL VENERDÌ PRIMA DELLA PASQUA (Valje, le ridde tra Arabi e Saracena?)

Posted on 08 aprile 2021 by admin

TRADIZIONI TRASVERSALE

NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – È da venerdì che senza alcuna soluzione di continuità, si postano commenti, foto e video dell’evento caratterizzante  martedì, seguente la Pasqua  arbëreshë.

Non un ripensamento, non una riflessione condivisa è stata realizzata, se non libere  interpretazioni, fuori dai protocolli arbëreshë.

Dopo due anni di mancata rievocazione  la mante avrebbe dovuto reagire per correggere quanti  distrattamente hanno inteso, l’appuntamento di martedì, come espediente per confermare, la deformata del costume, divenuta libera interpretazione o sintesi globalizzata di inesistenti avvenimenti.

Da tempo studi specifici rivolti alla minoranza  arbëreshë, hanno palesato quante inesattezze sono state ritenute vere,  mentre dubbi avvolgevano tutte le conclusioni relative, inducendo, per questo a desumere che tutte queste dovevano essere sovvertite, a cominciare fin dai primi fondamenti e preparare saldamente un  duraturo protocollo identitario, per le generazioni future della minoranza.

Questa nei fatti è diventata un’operazione assai impegnativa, nell’attesa che i tempi maturassero per non dover aspettare un’altra generazione per impadronirsi del disciplinare.

Per questo il tempo che rimane per agire, lo si utilizzi a fini di una pianificata tutela, vista la pausa di riflessione che a ben vedere supera le pieghe che ha un costume arbëreshë.

Le Valje, Vaglie o Valie raggiungono storicamente il loro apice nel periodo di post Pasqua, notoriamente esso rappresenta il primo appuntamento religioso condiviso dalle chiese Latine e Grecaniche.

Le vicende conseguenti il Concilio di Trento intorno alla metà del XVI secolo, disposero scelta di indirizzo  a favore della chiesa latina con espedienti più pregnanti nel territorio di competenza; i vescovati alla luce di ciò, imposero  in senso generale con più forza i loro riti e così fu anche a scapito degli arbëreshë.

Tuttavia non tutti i paesi di minoranza arbëreshë, accolsero di buon grado tale direttiva, specie in quelle macro aree, ricadenti in diocesi, con patti storici con la Romana Chiesa.

Dai tempi di quell’imposizione, dal 19 marzo l’inizio dell’estate secondo il calendario bizantino e in particolar modo per gli arbëreshë, sino a Pasqua inoltrata, tutti gli appuntamenti religiosi diventarono occasione per mostrare la propria identità, in forma d’ironica protesta, nei confronti delle autorità civili e clericali, naturalmente fuori dai perimetri religiosi e all’interno dei centri antichi.

In origine protestare per la propria identità non era impresa facile, per cui, facendo apparire le manifestazioni come la festa della fratellanza (Vlamia) tra indigeni e minoritari, divenne il modo per camuffarle il messaggio tra parlanti l’antico idioma.

Il canto e le movenze, che attraverso il bagliore di raffinati costumi, inviavano messaggi di profonda ironia e ogni genere di rancore palesato, verso le autorità locali che ignare applaudivano divertite.

La Valja per questo è da ritenere la massima espressione dell’identità arbëreshë; in quanto, attraverso la metrica che sostiene l’antico idioma, (canto fra generi), valorizzato dell’arte sartoriale, che nel corso dei secoli si veniva a comporre, rappresentano le forme più espressive in senso tangibile ed intangibile per i minoritari facente parte della regione storica.

La Valja è la massima espressione canora per gli arbëreshë, essa non va associata a ipotetiche battaglie dell’eroico Giorgi Castriota, che in questo caso non centra nulla, o addirittura Ridde tra Arabi e Saraceni, ne tanto meno danze senza garbo, dove ad essere compromessa è la storia del costume settecentesco arbëreshë, la prima espressione in forma di arte materia.

A tal fine e per terminare questo breve, si ritiene opportuno azzerare tutti gli eccessi e le anomale interpretazioni, che ormai non hanno senso e motivo per replicarsi in futuro e  per il bene della continuità storica vanno a breve giro di Valja accantonate, sperando che  la memoria perda questa brutta composizione senza  finalità identitaria.

Il prossimo anno tornerà la nuova estate per gli arbëreshë, per tanto a partire da oggi, “urge instaurare un tavolo di lavoro”, per un saggio ravvedimento, tanti giorni quante sono le pieghe della veste che rappresenta il padre sommate a quelle dello sposo, sono di auspicio che i tempi sono maturi.

A tal fine è urgente riunirsi attorno al seme della radice e quello del nuovo fiorire, per disponendo con dovizia di particolari, gli ingredienti indispensabili per le nuove generazioni di fare valjia, senza “mai inginocchiarsi” innanzi a gonfaloni stesi, in segno di resa.

 

 

 

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LA RISIGNIFICAZIONE ARBËRESHË NON È UN BELVEDERE një i bënur i rij, nëngë ësht dëritsor i motitë

LA RISIGNIFICAZIONE ARBËRESHË NON È UN BELVEDERE një i bënur i rij, nëngë ësht dëritsor i motitë

Posted on 23 marzo 2021 by admin

RicollocazioneNAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – I centri antichi di origine arbëreshë, per le note caratteristiche distintive hanno subito, senza soluzione di continuità, in forma di demolizioni, sostituzioni e risignificazione, in sostanziali porzioni dell’abitato costruito o addomesticato.

Allo stesso modo e senza alcuna tutela, sono stati sottoposti a ogni genere di colorita angheria culturale, cento e nove ambiti costruiti, che diffusamente disegnano la regione Storica, in modo indelebile dal XIII secolo.

Comprendere come abbiano potuto, i detti Stati Generali di Tutela, rimanere imperterriti nel vedere violato il loro ideale di tutela, non è dato a sapersi; tuttavia resta un mistero, il dato secondo cui, nel mentre si prodigavano ad annotare espedienti di ogni genere, le quinte e la terra che li sosteneva e li avvolgeva, spariva dall’orizzonte percettivo.

Il culmine è stato raggiunto, quando mentre i medesimi stati, s’impegnavano a produrre foto e compilare esperimenti grammaticali, le istituzioni, dismettevano un’intero centro antico, di inestimabile valore urbanistico e architettonico, perché gli abusi edilizi moderni realizzati senza controllo, non avevano trovato la misura di equilibrio con l’ambiente naturale.

È vero che questo è stato un singolo episodio, ma comunque tutti gli altri cento e otto rimanenti, subivano angherie generalizzate come ad esempio, la densità del centro e il peculiare rapporto con l’orografia, che ne impediva la rotabilità veicolare, attuando per lo scopo, gli operatori locali, demolizioni e ricostruzioni, delle genuine quinte storiche, abbarbicate ancora al valore storico, dei poco noti  sheshi.

Nella transizione che va dal loro innalzamento sino all’unità d’Italia, i katundë di origine arbëreshë, come gli altri indigeni,  seguono una crescita in linea con le esigenze e le direttive di esperienza, a diretto contatto con l’ambiente naturale, basati su una temeraria e duratura economia agro silvo pastorale, che terminava la sua filiera breve, proprio all’interno del centro antico.

La deriva abitativa ha avuto inizio dagli anni cinquanta del secolo scorso, per rispondere alle richiesta di manodopera delle industrie del nord Italia e dell’Europa.

Ha inizio così lo spopolamento delle generazioni più giovani e attive, le quali come ricompensa, inviavano risorse economiche ai loro cari, avviando così il processo di decadimento del valore architettonico del genius loci.

Notoriamente anche se organizzati secondo peculiarità di macro area, oggi sono impropriamente appellati Borghi, ma questo è il minore dei mali, infatti, dagli anni settanta del secolo scorso è stata messa a nudo una piaga ancor peggiore; essa consiste nel aver adoperato strategie di abbellimento architettonico e strutturale a dir poco elementari, i cui esecutori si possono individuare sia negli uffici preposti, dediti al controllo e il rispetto delle normative, ma più di ogni altra cosa è stata la poca professionalità degli esecutori, in forma di pensiero ed esecuzione, i cui sottoposti manovali, venivano imprestati dall’agricoltura, che in estate riposa.

Strada dopo strada e casa dopo casa, è stata messa in mostra la peggiore strategia per intervenire all’interno o ai margini dell’edificato della centro antico.

Se tutela deva esse, certamente non lo è stata, giacché ha prevalso la risignificazione degli oggetti d’intervento a fini  globalizzati, dove ha prevalso la regola che tutto era da abbellire e tutto poteva essere stravolto o sin anche demolito per rilanciarne, l’uso in forma moderna.

Se il centro antico su cui si vuole intervenire per ricollocarlo secondo un preciso itinerario storico e turistico dell’era moderna, è opportuno indagare lo stato dei luoghi, del territorio, le sue peculiarità, il suo aspetto, l’architettura e la scienza d’equilibri all’interno degli scesci; labirinti fatti di prodotti di natura locale e costruito, capaci a difendersi, nel confronto con il territorio limitrofo, gli uomini e la natura.

Tutto questo non si può accomunare in una sola parola, ma differenziare ogni cosa secondo le epoche, le esigenze sociali di chi li ha innalzati a fini e scopi precisi, secondo un precisa esigenza locale su base sociale, non globalizzato, ma peculiarità esclusiva del luogo.

Un borgo ha la sua storia in Germania, in Francia e nei paesi a nord dell’Europa dove sorsero per esigenze dissimili, da quelle della lingua di terra che si stende nel bacino del mediterraneo; è qui che  sorsero Castrum, Casali, Motte, Villaggi, Frazioni, Terre, Vichi, Poggi, Oppidum, Civitas, Vichi e molti altri componimenti urbani ancora, tutto secondo una precisa espressione di tempo, di luogo, di economia e politica territoriale, ben intrecciata con il territorio.

Allo stato delle cose per rilevare descrivere e pianificare il futuro sostenibile per i centri antiche delle colline italiane, bisogna tornare con i piedi per terra, anzi direi che andrebbero appoggiati nelle traversa dei bachi di scuola per renderli solidi e stabili, al fine di rimanere composti, come dicevano i nostri vecchi professori, per poter leggere attentamente e con profitto quanto di storico si acquisiva leggendo.

Quanti hanno seguito quei consigli oggi sanno distingue gli agglomerati da recuperare perché sanno riconoscerli e collocarli nel giusto itinerario della storia, perché buoni tecnici osservatori.

Quanti  hanno di fatto, preferito restare scomposti,  fanno i giullari, motivo per il quale, si occupano del territorio, di recupero, di consolidamento e  del costruito storico,  fa per  spettacolarizzare, o creare boschi impropri o accanimenti impropri verso in costruito storico.

Sono pochi gli addetti di buon gusto e auspicio che sentono di essere  parte di un processo di sostenibilità, per questo restano  composti e con i piedi saldamente a terra, sapendo che così facendo, rendono più sicuro l’equilibrio della storia,  secondo  regole che rispettano natura, uomo e architettura .

L’edificato del centro antico, non è soltanto la casa da cui affacciarsi all’interno del labirinto “sheshi”, in quanto, essa stessa è artificio di quella quinta e di quel preciso e identificato costruito.

L’insieme del costruito storico nasce per ospitare tare contadine/operai quando furono edificati, nobili/borghesi in seguito, per terminare oggi ad essere il vanto della proto industria locale e memoria storica dello scesci.

I centri antichi si possono leggere in diverse forme di abbandono e decadenza, in tutto ambito di residenza fittizia per proprietari che, nella migliore delle ipotesi, ne cedono i locali  o vi dimorano pur con notevoli spese, perché residenti  in luoghi più a contatto con i servizi.

L’architettura storica, in cui il mantenimento delle caratteristiche estetiche è considerato con sempre crescente accanimento terapeutico, assurge oggi a ruolo di teca espositiva o, nei casi più gravi, si è vista compromessa ogni dignità di esistenza o rapporto con la storia.

Essa viene lasciata al degrado più assoluto perché non rientra nei piani di bilancio economico del comune o della regione, le stesse che a ogni tornata elettorale la promuove come riscatto dell’identità da recuperare, per poi allo stato dei fatti, finiscono imperterriti per incutere ancor di più decadenza formale estetica e materica; un quadro d’insieme decadente a favore  dell’ambiente naturale che giorno dopo giorno avanza e copre o cancella ogni segno e forma, opera degli uomini.

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UNA DIPLOMATICA ARBËRESHË

UNA DIPLOMATICA ARBËRESHË

Posted on 11 marzo 2021 by admin

Diplomatica

NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – È stato scritto che esistono due storie, quella, ufficiale menzognera, comunemente diffusa, insegnata e raccontata ovunque, senza remore; poi c’è la storia segreta, “quella vera”, dove si trovano le gesta di uomini, avvenimenti colmi di attività in forma di lealtà tradite, sotterfugi e fatti impronunciabili.

Quale di queste due ha determinato gli ambiti per la permanenza identitaria arbëreshë, in questo breve, sarà lo scopo che si vuole perseguire, tracciando, con cura e dovizia di particolari politici, sociali, religiosi, con padronanza linguistica, al fine di confrontare minuziosamente carte, territorio e uomini.

Una vera e propria diplomatica dei tempi moderni, come si usava fare per scoprire le menzogne dei grandi imperi, gli avvenimenti, gli uomini e le nazioni che ne ebbero i conseguenti benefici, in tutto dei vincitori, specie di quanti senza gloria e meriti, si è seduta, “sulla cattedra”, privi dei basilari concetti di come e quando utilizzare la seggiola trafugata ai giusti.

Per discutere, parlare esporre o dialogare della regione storica arbëreshë, serve consapevolezza, prima di ogni altra cosa, per smettere di appellarla, arberia, in quanto, il sostantivo non ha alcuna attinenza con gli arbëreshë perché, riferisce di una parte minimale del territorio che fu dell’Epiro nuova e dell’Epiro vecchia, ai tempi in cui la capitale dell’Impero romano era Costantinopoli e sino al XV secolo.

Un paese Arbëreshë non è semplicemente un borgo o burgensis napoletano (‘o buvarése), dove abita gente che parla, balla, fa mercato e prega secondo consuetudini diverse, regolati dall’esclusiva metrica linguistica.

A tal proposito è bene precisare che i paesi arbëreshë sono cerniera dove avviene il confronto perenne di accoglienza culture, i cui presupposti ideali per convivere trovano le radici in antichi principi culturali.

Gli stessi che esperti dipartimentali di storia antica e moderna, riferiscono che se fossero stati noti ai romani, essi ancora oggi avrebbero tenuto vivo il loro impero dismesso.

Per questo i Katundë non devono essere considerati museo, piattaforma da cui emergono idee alloctone perché poi ristorate da quanti ignorano il valore del territorio, del costruito e di ogni adempimento vivo all’interno dei centri antichi della minoranza storica.

Un Katundë rappresenta la culla del confronto culturale e il suo futuro non può essere pianificato comunemente, perché solo seguendo la retta via, dettata dalla radice sotto terra riflessa nello sviluppo esterno la rendono, tassello indispensabile del modello d’integrazione tra i più solidi e duraturi del mediterraneo.

Da ciò, ogni volta che si vuole sporcare un muro, trasformare un’abitazione, chiudere una strada, modificare finestre porte apponendo materia anodizzata, sostituire un tetto, violare la toponomastica, piantumare essenze arboree alloctone piantare campi di ulivo o coprire addirittura i corsi storici fluviali, si commette una grave violazione alla propria identità storico/culturale.

Allo scopo, per evitare che si ripetano queste libere consuetudini senza gloria e tempo, occorre un confronto genuino e civile, tra vecchie e nuove generazioni, premesso che, queste ultime ancora non certificate, abbiano ventennale padronanza linguistica, siano in possesso di titolo idonei e umiltà culturale sufficiente, per acquisire i valori da ereditare.

Un “paese arbëreshë” non è un” borgo” e quanti li chiamano per una moda senza senso, ignorano il significato di questo sostantivo, almeno nell’uso che esso aveva nelle vicende storiche di espansione nel regno di napoli dal XIV secolo in avanti.

Un “paese arbëreshë” non si gestisce con gli orientamenti politici, né con le classi comunemente dominanti o organizzate, come avviene nei modelli fallimentari che mutano le idee, secondo chine, stagioni e mode che scorrono senza lasciare memoria.

“Katundë” non a caso vuol dire “il luogo del movimento” e non è ruotare attorno a se come fine prioritario, in quanto luogo del movimento è anche la culla del confronto, dove la radice delle proprie idee rimane intatta, nonostante si apra verso forme di dialogo, ma senza mai capitolare o sopraffare il proprio patrimonio.

Un paese arbëreshë è il luogo in cui si muovono uomo e ambiente naturale; l’uomo costruisce le sue dimore per mitigare le esigenze della natura, questa risponde e offre presupposti climatici, come premio delle comune sostenibilità, gli stessi che l’antica teoria di Aristotele diceva essere la migliore crescita per i buoni popoli, rispetto ad altri non proprio mediterranei.

Un “Centro antico” arbëreshë non è “la gjitonia come il vicinato”, il quartiere, il rione, le porte che menano sulle piazze o su una storta o dritta via, non è neanche il semplice luogo dove si scambia il lievito quando arriva il tempo per panificare.

Quando si discute e si espongono le caratteristiche tipiche dei centri antichi, da con confondere con i centri storici, si tratta di gjitonia  e in queste poche righe si vuole dare una solida e sintetica definizione:essa è il luogo dei cinque sensi arbëreshë, .

Essa non è altro che un laboratorio dove si intercettano le antiche radici del gruppo familiare allargato, lo stesso che nel corso dei secoli ha migrato per imposti modelli economici e sociali: prima nel concetto di famiglia urbana; per terminare oggi, nelle settiche paludi del modello metropolitano che isola persino i conviventi.

Un “casale” arbëreshë, non ha quartieri, potendo però fare un parallelismo con i rioni che nella fattispecie arbreshe si possono per certi versi e non completamente al concetto di sheshi; insieme di strade, vicoli e larghi definiti dagli elevati edilizi dell’antico ceppo.

È  l’insieme di sheshi allocati secondo regole strategiche che definisce l’insieme urbanistico del centro antico dei Katundë arbëreshë, che ha seguito solo dopo che vennero ritrovato i caratteristici ambiti paralleli della terra di origine, realizzando i tipici sheshi, organizzati in maniera  impenetrabile vicino la chiesa, nel punto di strategico di avvistamento, nel luogo più soleggiato e quello dell’unione.

Storicamente hanno gli stessi toponimi e disposizione in tutti i paesi delle regione storica che in sette regioni meridionali sommano più di cento agglomerati, che in egual misura sfuggono nell’essere alla lettura e alla finalita per la quale furono organizzati  

Questo è solo un accenno dedicato a quanti immaginano che parlare per nome e per conto degli arbëreshë e della loro storia, basta andare a scartabellare le carte degli archivi delle diocesi che furono bizantine, per poi proporre percorsi storico identitari che lasciano in tempo che trovano, perché esse stesse sono la negazione di se stesse.

Parlare o definire le tracce storiche degli arbëreshë ha bisogno di studio, intuito, tempo e pazienza, tanto meno si può paragonare a un punto di vantaggio, segnato nella rete di un campo di calcio, dove chi grida di più è ha la bandiera da sventolare crede di essere l’unico ad aver visto la rete gonfiarsi.

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GJITONIA

GJITONIA

Posted on 15 febbraio 2021 by admin

CasaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Per giustificare il non essere uguale agli altri e poter entrare di diritto, nella lista della legge 482 del 1999, si è voluto dare un titolo a una delle minoranze storiche Italiane, assegnando per questo l’identificativo: Gjitonia Arbëreshë.

Da allora in avanti senza indagini mirate, in forma storica, linguistica, sociale, architettonica o urbanistica, fu allestito un volgare e improprio mercato di enunciati, tra i più gratuiti, incauti e incoerenti che la storia dei popoli Europei possa vantare.

Comunemente tradotta come vicinato, è stata perennemente associata a manufatti di falegnameria, architettura, urbanistica e ogni sorta di apparato senza spazio, senta tempo e senza uomini, che nel contempo conteneva, arbëreshë, in poche parole il tutto di un nulla.

Tra le più inopportune ricordiamo: Gjitonia una parte del paese; Gjitonia come il vicinato; Gjitonia il luogo del criscito; Gjitonia prima del parente; Gjitonia il trittico architettonico; Gjitonia il rione; Gjitonia il quartiere; Gjitonia le porte prospicienti una piazzetta o una strada oltre a un innumerevole quantità di temi di concetti copiati e riportati male, al fine di colpire l’immaginario collettivo, ancora senza pace.

Non ultimo quello di riportare il concetto di vicinato estrapolato per la vergogna sociale che avvolgeva i sassi di Matera, quando le genti di quei luoghi, vivevano ancora nelle caverne agli inizi degli anni cinquanta del secolo scorso.

In altre parole il teorema del vicinato mediterraneo, rielaborato in forma arbëreshë, da quanti della minoranza non sapevano di lingua, di consuetudini o possedere almeno rudimenti di storia moderna.

Che la gjitonia sia un applicativo sociale tra i più raffinati del mediterraneo è una cosa, cercare di associarla volgarmente ad aspetti di natura materiale o immateriale di altre popolazioni, è un errore che denota, il poco rispetto verso gli uomini e la storia della minoranza arbëreshë.

Quando per un arbëreshë la si nomina, gjitonia risveglia concetti antichi, la cui misura non ha una dimensione,  una metrica possibile, essa insinua le sue radici nel protocollo Kanuniano, che sino al 1936 non era ancora stato scritto e per questo solo chi era arbëreshë poteva conoscere.

In altre parole, i principi etici, prescrizioni legali presenti ancor prima dal medioevo nelle terre dei Balcani, la cui compilazione scritta è tradizionalmente attribuita a Lekë  Dukagjini; si tratta di precetti tradizionali divenuti i principi della vita sociale, una vera e propria legge civile.

Si potrebbe definire, lavoro di sgrossamento intellettuale per il beneficio della comunità, tramandato soprattutto in forma orale, formando per questo la base della regola sociale, giuridica e commerciale, in quelle zone impervie dove a fatica penetravano i poteri statali o imposti da stranieri.

Da ciò si deduce che quando gli arbëreshë approdarono nelle terre del regno di Napoli, una volta intercettati i luoghi per la dimora, secondo disposizioni e agevolazioni regie, furono lasciati ad organizzare spazi e luoghi secondo le proprie consuetudini e adempimenti sociali.

Non vi è dubbio alcuno che l’elemento pulsante che si allargava e si restringeva ciclicamente era il gruppo familiare allargato secondo le disposizioni del Kanun.

La famiglia allargata, formata da padre, madre i figli, le proprie compagne/compagni e le rispettive proli, un gruppo che non minore di una dozzina di addetti tra maschi e femmine, ognuno dei quali e delle quali , erano affidati specifici ruoli.

Il gruppo nel tempo quando cresceva, sino a poco più di venti unità, si sdoppiava e creava un nuovo gruppo in prossimità .

Il modus operandi andò sempre più progredendo e integrandosi nelle attività sociali in continua evoluzione, specie seguendo i processi economici e sociali delle nuove epoche, da ciò il modello di famiglia allargata dovette cedere il passo al modello di famiglia urbana.

È proprio questa famiglia che dal XVII secolo diventa il modello sostenibile, vera e propria resilienza dei legami familiari allargati di un tempo.

Passaggio epocale da gruppo familiare coeso, si assiste allo sgretolasi in forma numerica dei componenti che non è più numeroso, come un tempo per rispondere la sostenibilità economica vissuta, ma si restringe e costruisce i propri spazi privati.

Quando la famiglia da gruppo allargato diventa gruppo sociale urbano non più isolato come ai tempi del Kanun, va alla ricerca dell’antico ceppo familiare e l’elemento che garantisca il riconoscimento di quegli antiche legami.

Notoriamente  intercettato nelle armonia condivise dei cinque sensi ed è qui che si avverte il senso di Gjitonia tatto, odori, sapori, suoni, e forme senza un confine circoscritto, condiviso,  come quando la famiglia allargata, aumentava per poi stringersi e riconfigurarsi in se stessi.

A tal proposito trova ragione l’enunciato: la Gjitonia dove vedo e dove sento; inteso come, il luogo della ricerca degli antiche legami familiari ai tempi della migrazione, a patto, che si avverta la sinfonia dei cinque sensi condivisi.

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SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

SPERANDO CHE FINISCA L’INFERNO

Posted on 13 febbraio 2021 by admin

PIsa1NAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Quando la tutela della diversità storica, culturale, civile e religiosa, palesemente mira all’apparire, coinvolgendo per questo testimonianze di secondo ordine è il segno che il diffuso interesse è complementare al singolo.

La metodica del gruppo ormai è palese in tutte le manifestazioni, per quanti conoscono e hanno consapevolezza dei ricorsi storici e di come vengono allestiti.

Alla luce di ciò ogni volta che si esprimono teoremi, concetti o divagazioni su cosa, siano gli elementi caratteristici e caratterizzanti i minoritari o i luoghi in forma di città aperte, si termina in ogni sorta di alchimia attribuita alla macro area d’interesse, utilizzando la solita metodica, che inizia, si svolge e termina, in un nulla di fatto.

Se poi si sostituisce l’inverno all’estate, generando, come di sovente avviene, uno stato che non esiste, si può affermare con estrema precisione che il vaso di pandora è pubblicamente aperto e il comunemente dilaga senza vergogna.

Ancora oggi dopo una lunga stagione di leggi, provvedimenti e atti, allestiti rispettivamente sotto la falsa bandiera della tutelare, del tangibile e dell’intangibile, si dispongono le più variegate purpignere (vurvinë), avendo cura che siano ben distanti dalle latitudini di interesse, anzi addirittura non mediterranee.

Poi se si cerca di approfondire quale sia la ricetta, si entra in un mondo di paradossali favole; percorso di ricerca, in cui lo scrivere del favellare è sempre anomalo.

La compilazione dei temi è a dir poco elementare, volendo essere magnanimi, si potrebbe dire da scuola media di primo grado, questi in specie trattano divagazioni che spaziano dal comune idioma, alla trattazione senza titolo, di elementi urbanistici, architettonici, sociali e materici per terminare, nel luogo senza identificativo.

Oggi si fa un gran parlare dei temi di accoglienza, fratellanza, integrazione o non discriminare i generi, in pubblica piazza o sul palco per apparire, poi nel chiuso delle istituzioni, si lavora alacremente per trovare gli elementi che dividono, annotando cosa rende diversi gli uni dagli altri, sia essa una minoranza storica o maggioranza territoriale, terminando nell’intercettare addirittura cosa rende ogni individuo diverso dall’altro che gli sta accanto, con la frase:  noi  diciamo così.

Si parla senza consapevolezza della diversità culturale di macro area in ogni centro abitato, pubblicando addirittura adempimenti editoriali di parlata locale, con la nota di espressione d’area, in altre parole si va alla ricerca di cosa divide e non di cosa unisce.

Sarebbe più utile rilevare cosa caratterizza o cosa accomuna tutti i centonove agglomerati urbani della regione storica, specie le aree dove trovano espressione identica il costruito, sia dal punto di vista delle architetture e sia della disposizione urbanistica.

Non si è mai discusso di quali siano stati o sono gli elementi idiomatici che accomunano la regione storica e poi magari solo in seguito a consolidamento avvenuto, accennare le intimità che caratterizzano le varie discendenze attraverso le innumerevoli parlate.

Si esprimono pareri paradossali, che a tutt’oggi non danno ragione al fenomeno sociale, detta Gjitonia, associata comunemente a Quartiere, Rione, o parti distinte del centro, in senso generale, senza distinguere la parte antica da quella storica, tutti comunemente per poi terminare, nel concetto di vicinato; componimento estrapolato da ricerche risalenti al 1954 per altri temi minoritari.

Si esprimono teoremi sulla Valja ritenendola forma di ballo di macro area, senza riflettere sul dato che si tratta solo ed esclusivamente di un canto tra generi senza musica.

Così come non si ha consapevolezza dei Riti di Pasqua, l’inizio dell’estate, l’appuntamento storico del genere umano che lascia l’inverno alle spalle e da inizio alle attività produttive.

Un rito antichissimo importato dalle terre dell’Epiro, il modo antico di suggellare l’integrazione la convivenza tra modi di essere non uguali, unendo in leale convivenza minoranze e maggioritari, al ricordo dei defunti, che in quelle terre trovano perenne dimora, Vlamia.

Questa fa parte di quella manifestazione che ogni paese da luogo e che storicamente era appellata “Verà”: momento solenne dove i minori in costume e con il viso mascherato, accoglievano gli indigeni prima di recarsi in fraterno rispetto, verso i luoghi di sepoltura; e come segno di accoglienza, ironizzavano con canti in lingua diversa facendo apparire il ballo come manifestazione di giubilo, celando lo scherno.

Su questa rotta di adempimenti inopportuni, continuare per grandi e piccoli errori, senza mai terminare nel restituire valore alle cose, al più presto chi di dovere si assuma la responsabilità del tutto perso e nulla  tutelato.

Se si continua ad abbellire la propria meta, senza intuire che quando gli edifici collassano, trascino tutto ciò che lo compone senza preservare nulla.

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IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

IL SUONO, GLI ODORI, LA CONSISTENZA DELLA PASTA E IL SUGO FATTO IN CASA

Posted on 31 gennaio 2021 by admin

cera un voltaNAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – La domenica, sino a quando ho abitato con i miei genitori, di sovente mi svegliavo piacevolmente con i ritmati tonfi che provocava l’impasto di (miell) farina, (ujë) acqua, (kripë) sale, (valë) olio e ( thë verdat e vesë) rossi d’uovo, lavorato a mano da mia madre, sopra l’apposito spianatoio, (Kiangùni).

Quando si raggiungeva, con il continuo rivoltare e stendere, la consistenza desiderata, si copriva il panetto, lievemente d’orato, con un canovaccio per lasciarlo riposare; a questo punto, mia madre, si recava in cucina a preparare il sugo, insaporito rigorosamente di carne d’agnello (shëtiërë).

Prima (valë)l’olio, poi (gudur)uno spicchio d’aglio intero sbucciato, (gnë fjetë dhafnie) una foglia di alloro; a questo punto iniziava a tagliare la carne, che avrebbe di li a poco rosolato, mescolando il tutto lentamente a fuoco lento ,assieme ai sapori naturali già elencati.

Quando la superficie della carne creava una lieve patina di crosta, era il segno che avrebbe incamerato gli aromi interni,  quello era il segno di aggiungere le quantità di passata di pomodoro, conserva di casa, che con la lieve cottura avrebbero insaporito il tutto.

I segreti per l’idoneo matrimonio, tra carne e sugo, grazie ai testimoni vegetali a questo punto, erano tre: il fuoco lento, coprire la pentola lasciando uno spiraglio per dissipare con misura i vapori e chicca finale, non aggiungere mai acqua.

A quel punto la casa diventava il paradiso di odori, il segno olfattivo della festa che inebria ogni angolo appena il sugo in iniziava lentamente a borbottare, nel chiuso della pentola.

La lentezza della cottura consente di tornare in sala da pranzo a dare forma alla pasta, procedendo nel toglieva il canovaccio sopra il prezioso impasto e dopo un’ulteriore stesa e ripiegatura  con la spatola (shëtërë) si inizia a realizzare piccoli frammenti di impasto: prima a forma rettangolare e poi cilindrici allungati.

A questo punto le piccole porzioni, si lavoravano con (hekuri) il ferretto, così come segue: si spargeva con maestria sul piano di lavoro farina e con manualità antica s’inizia ad arrotolare i cilindri d’impasto arrotolati al ferretto sul piano di lavoro; questo per non consentire che la pasta aderisca a esso, è lievemente curvo, tale che nella rotazione che consentire al fillilë di prendere la sua forma tipica, si sfili facilmente.

Cosi per un numero di azioni ripetute senza mai perdere il ritmo, prima sullo spianatoio lasciati a prendere la forma, poi si depositano in file ordinate, disponendoli sulla parte libera del tavolo su di una tovaglia opportunamente infarinata.

Terminata l’operazione, si copre tutta la disposizione delle file di pasta con il canovaccio e si ricontrollava la pentola del sugo, che nel lento borbottio raggiunto la consistenza ideale, ristretta e mai con chiazze acquose.

Per impiattare, si mette la pentola con acqua sul fuoco e appena raggiunta il punto di ebollizione s’immergono i fillilë facendoli bollire per pochi minuti e quando l’esperienza ritiene che siano cotti al punto giusto, si scolano per bene disponendoli nel piatto di portata.

La preparazione del piatto a questo punto può iniziare, insaporendo il tutto con il sugo ristretto, un pezzo di carne di coronamento ricoprendo tutta la superficie con una nevicata di pecorino locale, non prima di aver deposto una foglia di basilico di adorno.

Il sugo si preferisce farlo ristretto al punto giusto, perché la pasta essendo fatta in casa, è avvolta da acqua di cottura che si insinua all’interno incavato e rilascia nel momento dell’impiotamento, questi liquidi fondamentali andranno ad amalgamandosi con il sugo di superficie, insaporendo magicamente il tutto con il formaggio a la carne.

Guai a preparare il sugo per i fillilë, molto liquidi, perché poi si finisce di fare una annacquata diffusa, quello che comunemente succede in quei piatti di quanti/e dicono di saper fare e non sanno.

Fare la pasta in casa  secondo la cucina arbëreshë è un atto antico,  tramandato da madre in figlia, per questo non è certo nelle disponibilità di quanti hanno fatto altro in gioventù, gli/le stessi/e che oggi pur di apparire dicono di saper fare, ma questa è un’altra storia solo per fotografie di una pietanza annacquata, che fa sorridere quanti sanno e capiscono che il fare le cose arbëreshë è un’altra cosa.

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SHËPIA E GJITONIA

SHËPIA E GJITONIA

Posted on 11 gennaio 2021 by admin

PARLATE PARLANTI COMMEDIE EINAPOLI (di Atanasio Basile Pizzi) – Le Arche materiali e immateriali, che racchiudono il senso della consuetudini arbëreshë, trovano dimora, lì dove un tempo allocava il focolare per poi espandersi lungo lo sheshi sino all’infinito.

Quanto sarà esposto in questo breve, non contiene alcun  errore in senso di  costruito, luogo e ambiente naturale, lascia però volutamente libertà di espressione ai correttori storici seriali, che si adoperano pur di apparire, riferendo di forme grammaticali alquanto discutibili.

Per questo daremo avvio al discorso, parlando del modulo abitativo, additivo tipico arbëreshë, cui dare seguito alle espressioni della radice sociale di luogo e del ricordo; un tema che sino ad oggi ha ricevuto violenza in senso di valore sociale a dir poco inaudito in senso del significato, di ruolo, di veste e di attività.

Notoriamente il modulo abitativo (Kaliva, Moticela, Katoj) dopo l’epoca insediativa, di confronto, fu innalzato non più secondo i canoni estrattivi o del nomadismo, ma in muratura di pietra, calce e sabbia per la discendenza stanziale.

Esso fu realizzato in mura perimetrali, generamente con il lato opposto all’ingresso contro terra, il volume, completato grazie alla lamia di copertura,  in coppi, contro coppi e travatura in legno; un’unica pendenza verso la parte anteriore dove l’ingresso gemellata con una minuscola finestra, veniva igienizzato naturalmente.

Una superficie utile che variava dai sedici a venticinque metri quadrati, con unico accesso e piccola apertura per la ventilazione, ma soprattutto per il controllo della via.

Le connessioni tra  pietre sia internamente che esternamente erano regolarizzata da intonaco di calce con aggiunta di argilla e sabbia di lavinai, mentre l’ingresso di giorno fingeva anche da finestra con la tipica porta a due battenti verticali la cui parte superiore dava il consenso alla inferiore.

Una piccola apertura era gemellata non in senso di luogo per l’affaccio, ma per completare la visuale di controllo della strada e comunque non rientrava nella tassazione dell’area occupata e del vano di accesso.

Planimetricamente all’interno in origine il fuoco era centrale e lungo il perimetro era allocato un numero di giacigli tale da soddisfare le esigenze familiari, oltre le poche e misere suppellettili e attrezzi.

Nella parte prospiciente la strada , il modulo si affacciava con il fronte rettangolare corto che variava dai quattro ai cinque metri, raggiungendo un’altezza di poco più di due metri, mentre nella parte più interla l’altezza del volume poteva raggiungere anche i quattro metri di altezza, e consentire al piano inclinato di copertura un idoneo deflusso delle piogge.

Il modulo rispondeva alle esigenze del gruppo familiare arbëreshë che, diversamente dagli indigeni, si affidava alla forza lavoro del gruppo allargato, un numero di addetti pari alla dozzina, superata la quale, si dipartiva, realizzando nuovi moduli aggregandoli; nelle prima fase edificatoria in ordine articolato, in seguito in epoca seguente secondo la disposizione lineare.

Entrambi i sistemi aggregativi realizzavano i cosi detti e comunemente citati “sheshi”, un dedalo di stradine che conducevano in più spazi comuni.

Una vera e propria murazione difensiva, entro cui prima di accedervi, si doveva passare attraverso le dogane degli abitanti, che non lasciavano passare nessuno e niente per caso, se non prima aver chiesto ragione del passaggio e a chi appartenessero.

Lo sgretolarsi continuo dei gruppi familiari allargati, per la citata metodica di sostentamento, in seguito per lo scorrere delle generazioni porto a smarrire la memoria dell’antico o meglio originario ceppo familiare, i quali restarono comunque legati agli antichi patti di parentela la “Besa”, emulandola per certi versi nelle regole della gjitonia.

Essa per questo diventa, prima di ogni altra cosa, ricerca delle antiche origini, definendo gli ambiti di confronto, che potevano essere vicini e lontani dal focolare domestico, nel continuo indagare in forma di appartenenza parentale, sia in forma locale costruita e sia dell’ambiente in cui a fare da protagonisti ed essere i definitori finali, erano i cinque sensi diffusi e il conseguente bisogno di condividere le attività sociali, produttive ed economiche della vita, come era avvenuto in origine.

Ecco che Gijtonia, diventa il luogo per la ricerca dell’antico ceppo, cuore pulsante, ritmo dei cinque sensi e memoria di crescita dell’antica radice.

Con lo scorrere del tempo dalla fine del 1500, il modulo abitativo, dopo aver coperto lo spazio degli antichi recinti, si sviluppa in altezza e inizia una storia di architettura e scienza ben diversa; la Gjitonia rispettando l’ originario valore di parentela, si ammoderna e inizia ad accoglie classi sociali non più secondo una disposizione di classe lineare, ma diversificate e in forma verticale.

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TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

TI INVITANO A PRANZO NELLA GJITONIA E NON TI DICONO IL GIORNO

Posted on 16 dicembre 2020 by admin

CatturaNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Comunemente si sentono storie struggenti di valori privati, monetizzati però dal pubblico, di ciò, la realtà che appare è nella sostanza ben diversa da come si vuol fare apparire; peccato, veramente peccato che queste “Attenzioni”, in specifiche aree geografiche, sono esclusive per soli animali, non preservando alcuna forma di rispetto o scrupolo in tal senso, nei confronti di quanti vivono un disagio “endemico” nonostante di genere indispensabile per recuperare valori dell’identità locale, in forma di convivenza e buon senso.

Ciò nonostante, invece di tacere, si apre la scena con protagonisti animali a quattro zampe, per millantare forme di emergenze, non si sa se indotte, tra le mura domestiche o reali accadimenti di trama sociale.

Tuttavia, accade che a essere esclusi dalle dinamiche locali, siano gli uomini, gli stessi denigrati e valutati senza rispetto alcuno, pur se culturalmente preparati oltre ogni misura e garbo.

Questi brevi accenni, tanto per non perdere la rotta o il filo del discorso, chiedono almeno un ragionevole approfondimento verso la parità dei diritti animali e del genere umano, in tutto, “uguaglianza”; specie se le misure poste in essere hanno radice privata, poi saldate dalla cassa pubblica.

Scrivere è facile, poi si dovrebbe anche comprendere il peso delle parole, sparse nell’etere, alla fine sono proprio queste che vanno a impattare nel cuore e nell’animo di chi porta la croce, dove ancora oggi, nonostante l’esilio degli ebrei sia terminato, si continua a emulare imperterriti quelle orme discriminanti, vissute lì sotto loro sguardo a nord.

Certamente queste si potrebbero ritenere storie di luoghi lontani, o mai accadute, per quanti credono che solo i loro atteggiamenti siano utili per il bene dei generi, rispettosi della formula, “armiamoci e partite” oppure, “ti invito io e paghi tu”.

Metrica antica, o formula opportunistica, tanto per aprire la scena, senza arte o ampia visione del luogo; questo anche sulla scorta dei limitati strumenti culturali a disposizione dei commediografi, che per scelta di vita e non imposta volontà, termina la sua figura lì dove finisce l’ombra.

L’auspicio, di questo breve, mira al confronto culturale senza discriminazione di generi viventi, come solito dire a quattro occhi, avendo ben chiaro che alcuni attori, sin da piccoli usano: per orientarsi l’occhio della mente, per poi focalizzano ogni cosa con quello che appare.

Queste ultime in specie sono le doti che in modo inconfutabile consentono di cogliere il senso completo di questa amara stupida e ridicola vicenda; guarda caso, si coglie sin anche la misura di quanto siano distanti i fondamenti della cultura che conta e valorizza una ben identificata comunità e le gesta inutili che sortiscono preferiscono occuparsi di realizzare “lettiere per  randagi che non le usano nemmeno”.

Il titolo di coda, rileva la deriva che vive chi vorrebbero apparire, lievitando in non si sa in quale icona di un ipotetico trittico terreno, senza avere consapevolezza  di essere, corvo che vuole cavalcare l’aquila.

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L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

L’ARBËRESHË È UN ARBANON CHE SAPEVA NUOTARE

Posted on 27 novembre 2020 by admin

PaestumTaucher

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La testimonianza di pittura greca è l’emblema di ogni luogo, ogni dove e ogni uomo che vive questa vita; specie per chi studia, non confronta e divulga favole Arbëreshë dal XIII secolo, giacché, la raffigurazione è la  sintesi perfetta da cui si sarebbe dovuto partire.

Il tuffatore, la sfida che l’uomo per sua scelta si appresta ad affrontare da solo senza supporto alcuno, accompagnato dalla sua originaria veste, senza la certezza di cosa troverà dietro quello specchio d’acqua sfiorato dalla luce e privo di increspature che creano ombra.

Si tuffa nudo, senza vesti, costumi o emblemi allegorici, forte solo del suo animo, la sua sapienza ed il suo corpo; con le sole nudità si appresta ad affrontare un nuovo mondo, sicuro di poter presto riemergere e confrontare vecchie con la nuova sensazione.

Così è stato per gli arbëreshë nel XIII e così lo è per tutte quelle persone che non restano fermi ad aspettare che siano gli eventi ad avvolgerli e preferiscono affrontarle lealmente con le proprie forze.

Si dice che chi si tuffa nei mari, per emigrare porti con sé costumi e beni, purtroppo questa vecchia rappresentazione funeraria greca, “radice saggia”, da torto a tutti i comuni pensatori, perché il tuffo verso una nuova era si fa solo con l’anima, la sapienza e il corpo, il resto a venire sarà una dimensione, in cui si confortano le virtù del tuffatore (l’Uomo) con la nuova dimensione ospitante (la Natura).

Il tuffatore si espone convinto del suo gesto, si adopera nell’impresa, sicuro delle sue capacità, uno slancio, una postura per incunearsi senza stravolgere la superficie della nuova era, non ha dubbi mette in gioco se stesso e non teme risvolti malevoli.

Egli va alla ricerca di nuove misure naturali che possano accogliere il suo essere, non per le cose materiali che non porta con se, ma per l’immateriale che non conosce e gli consentirà di migliorare e aggiungere cose nuove, al bene del cuore, della mente e del suo corpo, in tutto del suo genere.

Questa è una parabola perfetta per gli arbëreshë e per quanti comunemente raccontano e diffondono le conseguenze di quel tuffo, augurandoci che almeno sappiano interpretare ciò che vedono e solo quello che è.

Questa immagine oggi diffusamente si può applicare alle mille vicende che si vivono lungo le coste del Mediterraneo, ma questa è una piaga più ampia per questo, la raffigurazione deve essere un monito per tutti.

Per concludere è bene che all’interno della regione storica sia ben chiaro l’evidente stato dell’atleta,   in procinto di iniziare l’esodo; e mentre si libera nell’aria mostra tutto quello che è, non è vestito e non trascina  “bauli con le vesti della sua futura sposa” ne librerie, colme di “alfabetari”  per le discendenze.

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