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LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

LA CULTURA DEL NON CONFRONTO IN BASKIA

Posted on 21 maggio 2022 by admin

La cultura fa beneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il termine cultura deriva dal verbo latino “coltivare”, esteso in seguito a quei comportamenti che imponevano “cura verso gli dei”, per diffondere l’insieme di conoscenza.

La definizione generale, rappresenta l’insieme dei saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti di un determinato gruppo umano, in leale confronto con altri; eredità storica indispensabile a definire i rapporti all’interno di gruppi sociali coesi, pronti a confrontarsi con il mondo esterno per il proseguimento della specie.

Naturalmente opinioni e modi di interpretare le cose, frutto di un civile confronto, in grado di affinare le cose, rendendo tutto l’insieme della conoscenza più solido, per la comunità e come vuole la parola cultura, coltivare per aver germogli idonei per le nuove generazioni.

La cultura per questo rappresenta il segno distintivo di ogni comunità ed è tutt’altro che una condizione, immobile, inerte, la cultura non deve essere mai statica o trarre linfa da se stessa, perché si nutre di confronto, si sviluppa nel dialogo e nelle relazioni con quanti sono disposti al costruttivo vivere comune.

La cultura non è nulla più che la metrica, secondo cui il metronomo del tempo batte i ritmi della storia, rappresenta la chiave che apre le porte che uniscono passato, presente per progettare il futuro, rimanendo protagonisti dei cambiamenti che ci fanno rimanere sempre a casa nostre senza bisogno delle cose altrui.

La Cultura va arricchita sempre, e resa partecipata, questo è il fine che ogni buon amministratore dovrebbe perseguire, specie quando si apre alla conoscenza e al rispetto delle differenze, le capacità altrui, che non vanno intese o considerate antagonistici, perché sanno e conoscono meglio degli altri il patrimonio che rende tutti più ricchi, di umanità e solidità delle proprie  cose innanzitutto.

La storia dimostra e racconta di grandi passi fatti dalle civiltà evolute, nate solo ed esclusivamente da incontri di confronto multidisciplinari definendo cosi il meglio, non fatto di forme circolari egocentriche, ma di sfaccettature, come si usa fare con i diamanti più rari che la natura genera.

La storia a tal proposito rende noti regimi totalitari, “in note di vergogna riconosciuta”, anche se poi in piccoli anfratti non molto illuminati, di sovente si cerca di imitare quelle gesta, immaginando che l’appartenenza politica li salvi dalla vergogna.

La degenerazione dei regimi totalitari, raggiunge l’apice della “pena sociale”, non per quanto predisposto da quanto/i gestiscono il potere, verso figure e categorie di ricca cultura, ma dal popolo spettatore notoriamente svogliato, sin anche divertito nell’accogliere la propria deriva culturale che gli piove addosso .

In altre parole gli utilizzatori finali dei futuri sbagliati in costruzione, sono proprio questi che non avendo consapevolezza delle cose, accolgono di buon grado quando gli viene negato,in forma di ripicca altrui, per il bene e il futuro delle relative prole.

Per concludere, se il popolo spettatore, non si ribella e prende consapevolezza di cosa gli vene sottratto giorno dopo giorno, prima o poi dovrà pagare pegno diffuso, immaginate cosa dovranno pagare gli ideatori e i figli che si concepiscono o nasceranno nel tempo della cultura non condivisa o addirittura negata.

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LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

LA CULTURA NON È ALTRO CHE IL LIEVITO PER FARE IL BUON PANE

Posted on 16 maggio 2022 by admin

Carmina non da PaneNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La sentenza secondo cui “Carmina non dant panem” o “Litterae non dant panem” diffusamente nota, non tiene conto di un dato fondamentale, Ovvero, di come si fa il pane, essendo la cultura solo il lievito di questo alimento antichissimo e fondamentale, a ben vedere, la farina impastata con l’acqua rimane inerme e senza vita, sino a che non interviene la reazione di questo elemento per dare forma volume e sostanza al fondamentale alimento, avviando così l’affascinate evoluzione.

La cultura non va intesa come una pietanza fumante a disposizione di pochi eletti; essa o meglio il Lievito, rappresenta l’elemento, in tutto, la misura per regolare il rapporto tra il pieno della farina e la reazione, che produce il lievito; l’energia capace di innalzare la forma e restituire valori indispensabili ai cinque sensi dell’uomo.

La cultura non si mangia, non si mette in tasca, giacché rappresenta l’energia incamerata nei vuoti, i labirinti, le cavità per reazione del lievito.

La sostanza di reazione, ovvero, la cultura, produce crescita all’impasto, altrimenti inerme e senza mutazione, esso va a nutrire di aromi incameranti, gli unici in grado di rinvigorire i cinque sensi del genere umano, il cui finale effetto si traduce in educazione o volontà di fare cose buone, in senso di fragranza, delicatezza del prodotto più antico dell’uomo, l’unico in grado di illuminare la mente delle persone preparate a gustare, il manufatto  fissato con il calore buono del fuoco.

In altre parole, il lievito rappresenta le tradizioni dei nostri genitori, in particolare delle nostre madri che con saggezza e antica sapienza sapevano calibrare impasto di farina con il lievito madre, “il lievito madre appunto”, quello che da madre in figlia è giunto sino a noi portandoci suoni, odori sapori e sostanza che allieta la vista attraverso quelle bianche cavità che pur se diverse e mai uguali, riportano le cose del passato al nostro cospetto in maniera identica.

La cultura assomiglia alle monete di Licurgo che potrebbero paragonarsi ai pesanti libri del passato, quelli più voluminosi scritti dalla consuetudine, infatti, il principale legislatore di Sparta, contrario all’accumulo di ricchezza, educava, la comunità a non superarsi gli uni dagli altri, visto che la disuguaglianza culturale è la causa principale che porta a squilibri sociali e genera prevaricazione.

Tutto ciò frena il libero transito a fare lavoro per quanti si dedicano all’arte per formare il genere umano al rispetto delle proprie, le altrui cose e all’ambiente naturale.

Oggi si ritiene la cultura come un alimento da mangiare, senza avere consapevolezza che le cose buone le ha fatte la manualità, saggezza delle nostre madri, le biblioteche di casa nostra.

Sono state esse a incamerare nelle piccole cavità della lievitazione con il riverbero delle loro voci e con la saggezza del rivoltare e calibrare, quello che di li a poco avrebbe germogliato il prezioso impasto, colmo di storia, tradizioni e rispetto verso gli altri meno fortunati.

Il genere umano si ciba di pane con o senza glutine, ma tutti assaporano i contenuti ideali, espressi nelle forme nelle pieghe e in quelle sottili membrane del lievito comunicatore.

Chi si ciba del pane e non trae spunto dai suoni, i riflessi, i sapori e le prospettive minuscole provenienti dalle cavità prodotte, dalla cultura, nel pane, termina:

  • con lo stendere bandiere a terra;
  • andare vestita da sposa con l’inconsapevole bjrëllokù al collo:
  • alzare le vesti di gioventù, del padre e del marito.

Lenta e inesorabile si consuma il calibrato olio, la fiammella poi barcolla ma resiste, arriva il turno dell’acqua, che addormenta la fioca luce, quando il sole prende la via della notte.

P.S.- Bjrëlloku; fascia scura aderente attorno al collo della sposa, con ciondolo in oro, allestito con dovizia di luogo e particolari i giorni seguenti le nozze, conferma della spartizione del dolce.

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SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

SULLE BALZE DEL POLLINO ( Katundi Civita)

Posted on 07 marzo 2022 by admin

275297823_5222999894391398_3049577895678805196_nNAPOLI (di Giovanni Panzera) – Sulle balze del Pollino, in Calabria, vi è la massima concentrazione di paesi popolati da profughi albanesi, costretti a fuggire dalla fine del XV secolo dalle proprie terre per l’arrivo degli invasori turchi, frenati, fino a quel momento, da Giorgio Castriota Scanderbeg, morto nel 1468.

Per distinguersi dai fratelli rimasti in Albania sotto il gioco musulmano, gli emigrati stanziatisi in tutte le regioni del “Regno delle Due Sicilie” hanno assunto il termine di arbëreshë. La mancanza di contatti continui tra le due etnie ha creato un solco che si è sempre più allargato tanto che oggi hanno poco in comune.

Sono andato a visitarne uno dei più caratteristici: Civita. Appena mi è comparso all’orizzonte, mi sono fermato perplesso a studiarne la posizione. Ma a chi è venuto in mente di stanziare un gruppo di persone su quel terrazzamento con un burrone a monte e uno a valle? La montagna alle spalle potrebbe franare e sotterrare le abitazioni; oppure il paese potrebbe scivolare verso valle con le immaginabili disastrose conseguenze.

All’ingresso del paese vi è una scultura in pietra che rappresenta un’aquila, dominatrice dei monti del Pollino; osservate la posizione, ha planato, si è posata su una roccia, l’ha afferrata con i potenti artigli, la testa con il becco adunco tra le zampe per abbassare il centro di gravità, ha le ali spiegate unite verticalmente perché il volo è terminato e fra poco le raccoglierà sul corpo.

Poco oltre vedo l’immancabile busto dell’eroe albanese, dell’ ”atleta di Cristo”, di Giorgio Castriota, soprannominato Scanderbeg, Alessandro, in ricordo delle sue imprese contro i persiani al pari del giovane eroe macedone.

Il paese, pur essendo integrato nella civiltà del paese ospitante, conserva usi e costumi di quello originario. Ho visitato il locale museo, nel quale campeggiano oggetti, costumi, ritratti, riproduzioni, pannelli storici delle tradizioni albanesi, come quelli sparsi in tanti borghi dell’Italia rimasti isolati tra le balze dei monti; sono entrato nella chiesa di rito greco-ortodosso, la religione dei padri, come quelle che ho incontrato nei decumani di Napoli, ricreate dagli immigrati dei paesi slavi e balcanici; ho ascoltato le voci e i discorsi in lingua arbëreshë, a me sconosciuta, come i tanti stretti dialetti, che, nonostante l’Accademia della Crusca, si continuano a parlare nelle singole regioni italiane; ho letto i cartelli bilingue, non dissimili da quelli dei paesi al confine con la Slovenia, l’Austria e la Francia.

C’è, però, una differenza fondamentale: il territorio. Gli altri paesi si trovano in zone concentrate a ridosso dei confini. Quelli arbëreshë, invece, sono diffusi in tutte le province dell’ex “Regno delle Due Sicilie” formando una comunità, che dovrebbe essere più connessa di quello che in realtà è.

La popolazione ha resistito alle vessazioni di principi e tiranni, anche per la protezione di Irina Castriota, principessa di Bisignano, pronipote e ultima erede legittima di Scanderbeg. Tutto bello, tutto integrato, in questo paese arbëreshë, cioè italo-albanese, degno rappresentante di questa vasta comunità diffusa.

Civita, però, ha qualcosa che la rende unica: “il ponte del diavolo”. Giù, oltre il burrone a valle, scorre un torrente, il Raganello con le sue gole, i rumorosi balzi tra le rocce, i restringimenti e le zone dove si allarga e riposa, meta di escursionisti dediti agli sport fluviali. Nella piazza del paese si trova il mezzo che vi precipita giù lungo una strada impervia con una pendenza da capogiro che l’esperto giovane autista percorre in una manciata di minuti. Ed eccoci arrivati al “ponte del diavolo”: dal disegno dell’arco si denota e deduce l’origine romana. La vista è stupenda; affacciarsi oltre il parapetto e farsi rapire dallo scorrere dell’acqua che si infila e si contorce tra i grossi massi è uno spettacolo irrinunciabile, nel quale la natura si mette a nudo e mostra i suoi tanti segreti. È un paesaggio da favola trasportato nella realtà di un paese che è impossibile cancellare dalla memoria: Civita.

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LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

LE FIGURE DELLA SOSTENIBILITÀ POLITICA, CULTURALE, SOCIALE E RELIGIOSA DEL MIO PAESE

Posted on 12 dicembre 2021 by admin

Banda65

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Nel rievocare le vicende storiche di un ben identificato paese, (Katundë), generalmente si fa riferimento agli amministratori per definire epoche, fatti salienti, avvenuti tra le pieghe dei vicoli del centro antico, dove azioni e fatti hanno avuto luogo a germogliare.

In questo breve, per questo, non si faranno elenchi di primi cittadini, come di sovente avviene, in quanto, per gli argomenti e atti trattati non tratteremo di delibere, atti pretori e avvenimenti politici, ma riferiremo del consuetudinario storico e le certezze popolari per la sostenibilità dell’identità locale.

Alla luce della premessa fatta, renderemo note le gesta e l’impegno di comuni cittadini, i quali senza la necessità di essere eletti, si sono impegnati, o meglio, caparbiamente proposti per le loro attitudini, senza secondi fini e per questo  la memoria è andata smarrita, nonostante abbiano lasciato elementi identificativi indelebili per l’essenza di appartenenza locale valorizzandone i momenti salienti di sostenibilità culturale, quando le videro deteriorarsi.

Figure che per la loro convinta abnegazione ha reso possibile il riverberarsi secondo antiche consuetudini l’essere Arbër e non finire scambiati per indigeni o comunità arbëreshë confinante.

Di queste figure notoriamente esistono tre tipologie, che non vanno confuse o classificate unitamente, in un solo elenco, esse si possono classificare così come segue:

  • I Manovratori, sociali falsi tutori culturali, mirano a distruggere figure terze; i cattivi.
  • Gli Ingordi che appaiono non come fedeli, ma vili figure striscianti e velenose; gli ignoranti.
  • I Giusti, cresciuti vicino al focolare materno e per questo sono memoria storica pura; la radice.

La prima categoria: i cattivi o”irriducibili”, la più dannosa, genera sin anche la seconda, gli ignorati, ”giullari ” i quali creano veli invisibili utili a coprire le malefatte dei primi.

Malefatte prodotte alla luce del sole, in pubblica piazza, queste generalmente appaiono come vangelizzatori  esperti, si camuffano nella voce dell’olimpo locale, nonostante sia palese la loro falsità, in quanto attingono il liquido del sapere dalla radice senza avere educazione, formazione culturale per riverberarle con adeguata misura e utilità, in altre parole attingono fango.

Poi sono, quanti cresciuti attorno al focolare, gestito dalla regina della casa, in altre parole la memoria storica vivente, gli eredi delle cose buone, l’essenza del passato, in definitiva, tutto quello che non può essere compreso dai comunemente con il solo udito, perché serve l’armonia dei cinque sensi, che non fa parte della loro natura.

Della prima e la seconda categoria, tutti dediti all’ignorare i cinque sensi, non prendono consapevolezza del fatto che non saliranno mai sul palco della storia, per cogliere l’essenza dell’armonia che crea fratellanza e fini comuni, la forza del buon mutuo soccorso culturale, radice sempre pronta a germogliare della cultura Arbëreshë.

Diversamente dai pochi che fanno parte della terza categoria: le solide fondamenta delle azioni messe in atto dal quarto decennio del secolo scorso; i primi, che del male e del personalismo a tutti i costi, ne fanno una regola di vita,  un breve accenno va fatto:

  • Se da giovincello tradisci il tuo migliore amico e invece di scusarti preferisci per cinque anni, percorrere fianco a fianco la stessa strada della scolarizzazione, ogni mattina e ogni pomeriggio, per ben dieci chilometri a piedi, rimanendo sempre fedele al tuo tradimento, cosa può dare da grande un individuo simile, quando capita di gestire il bene comune, continuando caparbiamente ad essere lo stesso scolaretto arrogante e inutilmente intelligente.
  • Se si cresce sotto la guida del cattivo, innalzi presidi della cultura e del ricordo, non per unire figure per il confronto, ma solo per trovare risorse da quelle cose che gli ignari donano e da ignorante tieni tutti nel circoscritto della detta corona.

Dovendoli prima o poi, porre all’attenzione delle nuove generazioni, i citati seguono percorsi trasversali utili alla cultura, traducendosi in pura ignoranza, la stessa che circola tinta di vergogna, ma e da vita, al cuore e alla mente, di queste figure ignobili; venditori pubblici per profitto privato, coperto dai veli di penosi manufatti in filati, stesi di notte ad asciugare per vergogna e di giorno coprire , le male fatte prodotte a nome e per conto della comunità.

A questo punto è giunto il momento elevare le figure sane, cresciute vicino al focolare materno, lo stesso che per natura, non genera il male, in quanto per la solidità culturale genera  bene comune, fatto di memoria ed essenze buone quelle che si raccolgono nell’orto botanico di casa propria, posto appena fuori di casa ma non lontano dal camino.

Per riferire dei “buoni” della storia del piccolo paese è bene ricordare che ristabiliti gli equilibri e rimarginate le ferite del secondo conflitto mondiale, inizia la nuova stagione di eventi forte e solidale, oggi poco rievocata nei meriti e le figure protagoniste in prima linea, le stesse  che posero in essere, sulle orme della memorie del passato quanto di meglio il centro storico e le contrade posseggono ancora.

A ridosso del quarto decennio del secolo scorso, ebbe inizio, la campagna identitaria dei luoghi Italiano, traducendo sin anche la denominazione ”Touring Club Italiano (TCI)” in “Consociazione Turistica Italiana (CTI)”, ebbe avvio la stagione delle attività, con finalità di sviluppo turistico del Sud, anche il piccolo centro antico facente parte della regione storica diffusa arbëreshë pianificò attività della radice locale affiancandole al nuovo in evoluzione.

Tra queste va ricordata la memoria toponomastica, per rendere merito alle genti del passato, costruite strade, servizi primari, quali acquedotto sistema fognari ed elettrificazione pubblica e privata, in oltre si adoperarono per intervenire nelle contrade e portare l’energia elettrica e innalzare chiese,  contestualizzare costumi, religione e persone del passato, istituendo feste secondo il calendario bizantino, furono istituiti il Gruppo Folcloristico e la Banda Musicale.

Pur se questi emblemi della consuetudine odierna ancora in atto, sono pochi a ricordare o rievocare le gesta, sin anche nell’assoggettarle a un evento o una opera da essi finalizzata, nonostante siano state l’esempio indelebile dell’identità locale ancora viva.

Nomi come R. Baffa, G. Baffa Caccuri, P.Caruso, G. Capparelli, T. Miracco, A. Bugliari, i Ceramella, D. Baffa Trasci, M. Decaro, P. Miracco, G.Pizzi, A. Trotta, F. e A. Filippelli, E. Azinnari, D. Preite, O. Colistro, R. Baldini, sono figure di un fiorente periodo, colmo di aneddoti perché pietre miliari del valore storico locale, impegno personale, camice sudate, scelte fondamentali, caparbia convinzione, sono gli ingredienti, il cui fine conduceva esclusivamente al bene fatto di memoria solidale del paese.

Un vero e proprio romanzo che ha avuto come scenario le quinte del centro antico, lo stesso che in altro tema, sarà resa più chiaro la storia, visto lo stato delle cose e gli avvenimenti attuati, per la tutela e la valorizzazione locale, onde evitare di essere confusi con i litirë.

Oggi sono troppi a non conoscere quali siano i figli di quel focolare antico che le sapienti madri, anche se non in vita, continuano ad amministrare fermando i tempi tenendo quel fuoco acceso che si traduce n memorie dei caparbi figli.

(*) I Paesi arbëreshë storicamente si identificano come Katundë, letteralmente luogo + movimento, confronto, cooperazione,  è inopportuno indicarli come Borghi o altro appellativo “Fuori Luogo”, sia dal punto di vista Storico, di tempo e di luogo, sia perché inizio dei centri abitati nati senza murazioni o confini e impedimenti di altro genere.

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GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

GJITONIA: IL LUOGO DEI CINQUE SENSI (Gjitonia: ku shogh e ku gjiegjgnë)

Posted on 30 ottobre 2021 by admin

SCACCIAMO LA VOLPE ARBËRESHË3NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – “Gjitonia” modello consuetudinario e sociale della minoranza Arbéreshè, rappresenta per essi, il luogo dei cinque sensi, una barriera immateriale, priva di porte, elevati o fossati; essa vive grazie al patto di mutuo soccorso in favore dell’idioma, le consuetudini e le credenze, tutte da tutelare.

Simulazione di parentado, stringe rapporti di collaborazione materiale e immateriale, nella continua ricerca di un remoto legame di sangue, risalente ai tempi della famiglia allargata Kanuniana (si dice Gijtoni è come un Parente).

Essa rappresenta il fuoco domestico condiviso, il cui calore vuole unire idealmente,  propagandosi attraverso l’uscio di casa, poi lungo gli incroci e i vicoli sino a giungere nei palcoscenici di confronto, scontro per terminare nel mutuo soccorso dell’operatività agro silvo pastorali.

Un percorso ideale che riverbera patto, lungo e confini indefiniti dei “Rioni”, dove ripete più volte, allargandosi e restringendosi come un cuore che pulsa, colmando e svuotando valori gesta e attività mai stipulate in forma scritta preventiva, in quanto promessa .

Gjitonia non è mero vicinato indigeno, è la radice di una cultura antica, come un fiume che trasporta senza consumare le cose nel tempo.

Riconoscerla  non è semplice, in quanto, bisogna viverla avendo padronanza di tutti gli ingredienti basilari, essa non non ha tempo, ma segna le attività attuate nel confronto con altri simili, il tutto, se opportunamente predisposte è  avvertito e vissuto anche nei tempi  brevi del turismo di massa, specie quando è fatto con criterio raffinatezza e garbo storico in accoglienza.

Gjitonia non sono le strade, le porte prospicienti la cosa pubblica, le piazze o le strade, giacché è l’insieme ambiente naturale, costruito e uomo a rendere possibile questo fenomeno così denominato in Arbéreshè.

Oggi, all’interno dei Katundë di minoranza storica, si potrebbe vivere identicamente, questa favola sociale, nonostante la globalità e la modernizzazione, che si dice che l’abbiano spenta o addirittura terminata.

Vero è che non è la dimensione del luogo, o le forme delle porte, le pieghe urbanistiche o le epoche a fare Gjitonia, in quanto, essa rappresenta la via maestra per la convivenza sostenibile, tra generi e culture dissimili.

Lo “Sheshi” del futuro ha cambiato le dimensioni, accorciato le distanze con i media sempre più presenti;  tuttavia il fenomeno sociale non è mutato, ha bisogno solo di essere applicato secondo le antiche metodiche, ovvero, l’uso del patto di mutuo soccorso, che  in tutte le latitudini si concretizza e diventa “ Integrazione”.

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GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

GIACULATORIA INNALZATA! ( per gli Arbëreshë ghe vieshëe e shëluer)

Posted on 19 settembre 2021 by admin

Miracco ii

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – La chiamano l’Athena della cultura minoritaria e qui, come accadeva nell’antica Grecia, fattori di genere, abilità fisiche, condizioni economiche, qualità culturali rendevano concreto “l’esposizione”, ampiamente accettata e contemplata per secoli.

Oggi accade che le figure più in vista, sono scelte secondo una strana  “giaculatoria” innalzando  valori di culturali, frutto di studi altrui, come si faceva tra scolaretti quando si copiava il compito del compagno di banco, per poi nel cortile, a missione compiuta gridare:

NE HO FATTO FUORI UN ALTRO!

La premessa serve a individuare lo stato di fatto del luogo dell’inadeguatezza storica, ove senza soluzione di continuità, si carpiscono i concetti e le scoperte culturali di quanti sono cresciuti e formati a Napoli, come  successo nel decennio francese e invece di elevarli per rendergli merito, si buttano a terra volgarmente come una Vieshë buttata li per disonorare .

Sono sempre i comunemente a dominare la scena, con falsità, tenendo ben stretto a denti stretti, il filo che lega bugie su bugie,  una trama labile e perversa; essa da un momento collasserà, per il troppo carico di bugie, falsità e tradimenti;  nessuna intercessione celeste si produrrà per sostenere, quel luogo di pena infernale, castello di carta in salsa di favola e tradimenti.

Se un paese è appellato, capitale di cultura, similmente alla capitale della Grecia antica, le eccellenze che vi nacquero, andrebbero sostenute e poste in prima fila, non abbandonate per poi avvicinarle con lo scopo di creare canali di favore ed esporre i maltolti culturali agli ignari di turno, perché miseri formati, i quali per incompetenza storica preferiscono atto poco nobili, il cui risvolto  termina con il lascito del tempo che trovano.

Una carovana di saltimbanchi dei corridoi degli archivi pronti ad allargare la deriva; la cui meta si finalizza nell’atto di fare scena irreale, pesci da circo fuori d’acqua,  si agitano sventolano le pinne a modo di fazzoletti al vento, aooariscono muti senza nenia, un elevato inutile che subito dopo precipita a jàcere.

Se il luogo della “giaculatoria” è inteso come porto sicuro, per gli instancabili pescatori di storia, questi dovrebbero essere protetti, non perennemente buttati a mare e come se non bastasse, nel momento del massimo confronto culture, preferirli alla povertà di contenuti, alla ricchezza culturale ereditata.

Da quando l’uomo è diventato civile, a trionfare non è stato la “giaculatoria” del buttare, perché la forza del contro canto innalzato con sentimento e credenza è più pregante e vince perché sostenuta cose con senso e radice:

VERGOGNA! VERGOGNA! VERGOGNA!

( Turpë! Turpë! Turpë!)

Si potrebbe ipotizzare che fare errori è umano, ma quando la deriva della non cultura, persiste da oltre un millennio, si potrebbe ipotizzare che  luogo, l’aria, il vento, il sole o l’acqua che sono malevoli, ma una buona dose di colpa senza ombra di dubbio spetta al genere umano che risiede.

Chi vi soggiorna è una comunità abbandonata a se stessa, nonostante abbia avuto innumerevoli possibilità per emergere non è stata mai in grado di attingere cose buone, preferendo  sempre il faceto e volgere lo sguardo dove tira il vento e la sabbia fine imperterrita da fastidio alla vista e con la sua consistenza appiattisce la prospettiva culturale.

  • Se oggi il luogo è noto sin anche per viltà  germana, non ha consapevolezza del perché il re preferì reclutare a meta settecento, un prete locale,  eccellenza di fedeltà cristiana e sociale a cui affidare la credenza e le anime di quanti componevano l’esercito noto come Real Macedone;
  • Se nel vasto Regno di Napoli nel 1798, in questo luogo, nessuno ha avuto il coraggio di innalzare l’albero della pace, nonostante un suo figli era ministro di quel governo, che doveva essere unico e indivisibile;
  • Anzi va aggiunto che quando quel governo terminò la sua breve parabola e il figlio“esposto, fini per essere cattivamente afforcato”, preferirono ignorare l’accaduto, rievocandolo addirittura solo un secolo dopo la disfatta, rimanendo nel contempo a vivere come topi nelle proprie dimore estrattive;
  • Se per cinque giorni, pochi anni dopo lo scorrere di quel secolo, ignorarono il Vescovo, per essere terminato rimanendo tutti fermi vigili e nascosti, dopo essere stato spogliato di ogni bene, in quelle cinque vergognose giornate che non terminano mai;
  • Se non si ha memoria del prete, che per la sua morale religiosa e civile fu nominato Vescovo di rito Bizantino nel tempo in cui il sole traccia un giorno, perché serviva elencare cosa fosse ancora indenne dell’istituzione fiore all’occhiello del bizantinismo meridionale e deciderne le sorti;
  • Se non si ha consapevolezza di segnare, marcare o circoscrivere dove è avvenuto il primo delitto istituzionale del meridione in età moderna;
  • Se ancora oggi non si ha alcuna consapevolezza di cosa rappresenti e denoti la vestizione tipica femminile arbëreshë, giornaliera, di festa e di matrimonio, unico componimento artistico non scritto, perché consuetudine ereditata oralmente;
  • Se non si ha consapevolezza delle cose da preservare per evitare questo stato di cose che non avrà mai fine cosa si puù mettere in campo di costruttivo senza aver preso provvedimenti relativamente a tutto ciò?

Tutte queste citazioni assieme a tante altre che rimarranno ignote, per la troppa fiducia i verso proponimenti di seggiola jàcere; allo scopo servirebbe cambiare totalmente registro e aprire la scena  a quanti la ricerca sono in grado di confrontarla con il territorio, essi sono gli unici capaci a farlo perché hanno seguito percorsi accademici e curriculum specifici, quelli indispensabili a leggere forme di progetto storico di natura e uomo.

Per terminare e rendere merito a un “figlio alto” che pochi conoscono ma molto ha fatto, , si vorrebbe rilevare il valore di questa figura locale del secolo scorso; egli dopo aver costruito il focolare  per la madre Carmela, si sedeva con lei  e annotava ogni cosa per confrontarla con i lucidi anziani che lui spesso si recava a trovare.

Il fine di questo antico modo di tutelare era quello di comprendere in maniera razionale, come realizzare i solchi dove depositare i semi della cultura identitaria locale, nel giardino, dell’INA Casa,  e pochi anni dopo la sua dipartita quei germogli sono diventati,  quello di cui disponiamo oggi  e senza misura disperdiamo; lui si chiamava “T. Miracco”.

Di lui non c’è via, non c’è luogo, non è stata predisposta la ben che minimale manifestazione, evento o nota in suo ricordo, nonostante oggi, la consuetudine locale vive  delle sue regole, nella festa padronale e a tante altre manifestazioni durano per  l’impegno profuso quando si applicare alle cose arbëreshë.

La sua opera, avremo modo di approfondirla, con più particolari, in quanto era una vera forza naturale e trainante della consuetudine arbëreshë; va accennato che segnò la nascita e il proseguo della Banda Musicale, del Gruppo Folcloristico, le regole che seguivano prima, durante e dopo il matrimonio, i festeggiamenti religiosi locali, la pronunzia, senza mai tralasciare ogni piccola ricorrenza, indispensabile allo svolgersi delle stagioni arbëreshë.

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LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Protetto: LE CASE, LE CHIESE, IL BOSCO, IL CIELO, LA METRICA, LA STORIA E LE ARTI ARBËRESHË

Posted on 13 settembre 2021 by admin

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NOTE SU GRECI - INVIATE COME LETTERA AL DIRETTORE DEL MATTINO-

NOTE SU GRECI – INVIATE COME LETTERA AL DIRETTORE DEL MATTINO-

Posted on 04 settembre 2021 by admin

GreciGRECI (AV) (di Antonio Sasso) – Un aneddoto che tanti Arbëreshë ricordano e ripetono spesso, è quello relativo a Scanderbeg in punto di morte. Si fece portare un mazzo di rametti ed invitò i presenti a spezzarlo. Nessuno ci riuscì. Chiese quindi ad un giovane di provare e gli suggerì il sistema migliore. Ruppe i singoli rametti e quindi il mazzetto si sfaldò. “Con questo gesto, io, vi volevo dimostrare che se restate uniti nessuno potrà mai spezzarvi, ma dividendovi anche un solo bambino potrà condurvi alla morte”. Detto questo spirò. Credo che questo sintetizzi in pieno l’animo della gente di Greci. Dopo sei secoli sta ancora lì, conserva la lingua, oralmente trasmessa, tradizioni e cultura ed una gran voglia di continuare a lottare per non interrompere questo affascinante amarcord. Più il rischio spopolamento diventa reale, più lo sforzo si moltiplica. Più la generazione avanti negli anni diminuisce, più le nuove ritornano a dare linfa vitale, anche se per periodi sempre più brevi. Il legame con la terra dei propri avi, le consolidate radici, la forza interiore, lo spirito bellicoso che contraddistingue i Grecesi, i forti contrasti che caratterizzano i rapporti interni- a volte gli uni contro gli altri armati – i dissolvono nel momento in cui qualcuno osa chiedere dov’è Greci. Quando si parla di Katundi un unico sentire, un unico ardore, una grande complicità! Da questi impulsi nascono conseguenzialmente, alcune considerazioni. Ognuno nel proprio ambito, sfruttando al meglio le conoscenze e le amicizie, ha cercato rapporti che potessero dare visibilità alla Comunità Arbëreshë. Così si spiega la cortese disponibilità dell’Ambasciatore- prof. Neritan Ceka-a fare la prefazione ad un mio libro e mi piace riportare un brano: “ leggendo il racconto è come vedere quasi un film il passato di Katundi, che somiglia ai paesi albanesi della mia infanzia. Sono innamorato di Katundi sin dalla prima visita nell’agosto del 2014”- e ancora “abbiamo dimenticato le sofferenze e le privazioni e abbiamo conservato gli odori e i colori di una vita semplice e diretta”. Le Istituzioni, in occasione della visita del Presidente d’Albania dott. Ilir  Meta , coincisa con l’inaugurazione del busto di Giorgio Castriota Scanderbeg sono state molto attente e la popolazione tutta ne ha preso atto. E’ stata una festa di popolo! La visita graditissima del Console generale di Albania, il 25 u.s., festa di S. Bartolomeo, Dott. Gentiana Mburimi è un’ulteriore conferma dell’impegno generale. Personalmente ho rapporti cordiali su Facebook con il Ministro della Cultura Albanese Prof. Elva Margariti. A suo merito, mi piace ricordare la presenza dell’Albania all’ultima Biennale di Venezia e i tanti siti recuperati. Questo poi è un anno particolare in quanto ricorre il trentennale dello sbarco della nave “Vlora”. La popolazione di Greci è stata in prima fila ad offrire solidarietà ed ospitalità. Immediatamente si è messa a disposizione al grido di “gjàku i shprishur su hàrrùa” ed ancora oggi sono presenti famiglie, perfettamente integrate, di quel momento storico. Non ultimo è d’uopo ricordare il comune sforzo profuso dalle Acli regionali e dall’arch. Pizzi – anche lui arbëreshë di Napoli – per perorare l’intitolazione di una strada e della relativa targa in via S.Chiara a ricordo degli anni vissuti a Napoli dalla Regina albanese Andronica Arianiti Comneno – vedova di Scaderbeg. Su interessamento del Sindaco De Magistris, la Commissione toponomastica partenopea ha espresso parere favorevole ed una delegazione composta dal Comune di Napoli, dalle Acli e dall’arch. Pizzi, è stata ospite del Comune di Greci il 21 luglio 2021. “Oggi il Paese è bello, sempre più ameno e dolcissimo da gustare: ma quanto è vuoto ahimè! Lo spopolamento sistematico lo sta riducendo ad uno stato di quiescenza che l’anima sola può far rivivere!”  

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IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E  LA CHIESA ARBËRESHË

IL COSTUME, DELLA MEDIA VALLE CRATI UN PONTE CHE UNISCE LA CASA E LA CHIESA ARBËRESHË

Posted on 19 luglio 2021 by admin

Senza titolo-1NAPOLI (di Atanasio Pizzi  Basile) – Dopo anni di costruttive interpretazioni comparando e letto le cose che compongono il costume, arbëreshë della media valle Crati (lato preSila), con scritti del bizantini, Alessandrini, si continua a predisporre manifestazioni, orfane dei più minimali principi di vestizione, quali il senso di civile coabitazione urbana, connessa ai valori religiosi della comunità arbëreshë, in tutto il ponte ideale che unisce cosa di casa e credenze di chiesa.

Gli archi e le linee che uniscono, credenze religiose e attività della consuetudine arbëreshë,  riferire del costume tipico la vestizione, l’uso e il portamento, diventa complicato e non di facile attuazione.

Predisporre come come iniziare a indossarlo, serve a terminare con agli elementi utilizzati, sia si tratti, di giovane ragazza, sposa promessa,  la settimana a seguire il matrimonio, e nel resto della vita prima in sposa e poi madre, il vestito giornaliero e terminare con l’allestimento per visite o accoglienza, non sono temi che possono essere trattati senza adeguata formazione .

Le vestizioni, comunemente confuse e di sovente tessute tra di loro, fanno emergere lacune a dir poco paradossali, il cui traguardo conduce irreparabilmente a rendere poco credibili le vesti. 

E’ per questo che senza soluzione di continuità, smarriscono ogni valore in forma di senso o motivo per il quale sono state realizzate dai maestri sarti, alla fine del XVIII secolo, sotto la vigile guida dei saggi lettori, greci bizantini.

Nello svolgimento degli avvenimenti moderni, bisogna stare attenti, quando s’indossano le vesti, in quanto esse richiedono una conoscenza di base, qui di seguito sintetizzata: definire la distanza dal suolo del gallone che non deve salire oltre la pinta delle scarpe; l’aderenza che deve rispettare, avvolgere senza farle apparire le forme anatomiche e mascherare di forma leggibile; gli elementi di rifinitura utilizzati, siano essi veli dorati o di porpora, ori, collane, orecchini o fasce in stoffa, più o meno, colorata hanno un tempo un luogo e una misura per essere esposte.

Del costume esistono diverse trattazioni, unirle tutte e renderle coerenti non è impresa facile, specie se poi a cimentarsi in questo complicato protocollo, sono giovani leve, che non conoscono nulla e non sanno neanche i rudimenti del protocollo; in alcuni casi, nel passato, è stata sfiorata la decenza, a tal proposito  non andate oltre, invitando per questo, figure di ogni ordine e grado, di riflettere, studiare per poi confrontarsi prima di apparire,  come generi fuori da ogni regola di senso.

Il costume arbëreshë della media valle del Crati, (lato presilano) è un trattato consuetudinario, religioso, linguistico, metrico, tramandato oralmente, quanti hanno avuto la fortuna di crescere a fianco o abbarbicati tra queste vesti materne, possono riconoscere il senso del protocollo e ogni piccola diplomatica di riferimento.

Cercare di sovvertire le regole o elevarsi a tutori, valorizzatori o rifinitori di questo protocollo, solo perché di fresca laurea o perché si è in grado di usare una macchina da cucire, al suono di strumenti anomali, fanno male alla regione storica arbëreshë e alla storia di  vestizione.

Quando s’indossa un costume della tradizione arbëreshë, della media valle del Crati, (lato presilano), serve essere lucidi, portatori sani di una tradizione, la cui radice affonda in tradizioni greco bizantine antichissime e non posso essere lasciati alla misura e i tagli dei comunemente che non avendo consapevolezza le cercano altrove e nell’attesa di trovare il bandolo della matassa, inventano.

La parte bassa del gallone pieghettato della zoga, deve mantenersi regolare su un piano orizzontale ideale, le pieghe terminare in vita, senza lasciare ombra, per intercettare o ipotizzare le parti anatomiche femminili, sia dei fianchi che dei glutei.

Il merletto debitamente inamidato, deve aderire alla giacca, quest’ultima a sua volta deve mantenersi aderente alle spalle ai fianchi e lungo la mezzeria dei seni per svoltare attorno alla base del collo.

Questi e molti altri, sono i minimali adempimenti che ogni indossatrice dovrebbe rispettare prima di esporsi in pubblica festività.

Senza dimenticare che il velo dorato ha un significato, diverso da quello porporato e ogni accessoriò di conseguenza completa il senso della vestizione.

Per questo non vanno intesi esclusivamente come mero arricchimento di bellezza o esibizione per carpire consensi, ma messaggio unico e indivisibile di una tradizione antica, che non deve e non può essere assolutamente smarrita per colpa dei noti comunemente.

Certamente non è in questo breve, che si può esporre quanto di sacro e profano è racchiuso in ogni elemento o atto che si compie prima e dopo la vestizione, ma avere un minimo di regola, serve almeno a non lasciare che il tempo intorbidisca ogni cosa.

Come accaduto per le architetture e dell’urbanistica o rimasto ben poco della credenza di Gjitonia, scambiata per quartiere, rione o vicinato, ragion per la quale, il costume sotto l’aspetto materiale è un componimento ancora intatto, difendiamo e divulghiamo, l’immateriale di memoria e il suo valore identitario.

Ritenere che esiste un costume moderno motivando la sua radice nella “llivera”, non è corretto dato che nessuna sposa andava vestita il giorno delle nozze come accadeva nell’aia, quando si separava il grano dalle impurità delle spighe.

Nessuna sposa andava in chiesa a maritarsi, portando il nastro nero apposto al collo, perché quello era un espediente, di gravidanza, che si utilizzava, almeno due settimane dopo, la sera delle nozze.

Questi e tanti altre regole di vestizione, complementari e fondamentali; o si conoscono compiutamente o si lasciano divulgare da quanti né anno consapevolezza, sia del significato storico, sia di quello civile e sia religioso, altrimenti si peccato e si dissipa la consuetudine di radice, se non addirittura si sfocia negli acquitrini del volgare che infanga e sommerge ogni cosa.

Altra cosa fondamentale, da non sottovalutare, è lasciare al libero arbitrio, di giovani operatori, stilisti o disegnatori, o generi diversi, la riproposizione moderna del tema costume, giacché, per il  valore storico è opera complessa, tutto si può fare ed è lecito applicarsi liberamente in questa disciplina, ma almeno cerchiamo di non farlo nelle manifestazioni di tutela e prima di tracciare linee o spalmare colori, si faccia ricerca storica, così ogni figura avrà consapevolezza di cosa inizia a violare con matita e senza alcuna misura di sorta.

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COME RIPETERE L' ESTATE TURBATA

COME RIPETERE L’ ESTATE TURBATA

Posted on 13 luglio 2021 by admin

Firma1NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Avere vicino chi fa finta di stenderti la mano, senza coerenza, perché abituato a saltare da un pensiero a un desiderio, senza pace, porta la mente a un evento antico proposto con le stesse cadenze di agosto; ritrarre la mano onde evitare legami, è il minimo dovuto verso quanti si apprestano ad esporsi in altare.

Poi se tutto termina proprio li dove il vile avvenimento ebbe luogo è il segno che essersi allontanato da quei luogo, è stato un gesto saggio e distingue “uno”, rispetto i tanti parenti di quella vergognosa pagina di storia.

Cercare un posto lontano, è il gesto più coerente da attuare, per elevarsi rispetto a questi eterni pendolari della cultura religiosa e di consuetudine civile scambiata per llitirë.

Regione storica di artificiosi paradisi, palloni che non volano e nel silenzio, ovunque vanno scuotono le anime e producono rovine peggio di come il Vesuvio fece in Pompei.

Palloni gonfiati silenziosi, mossi da sibillini rumori orizzontali, colmi da insoddisfazioni perenni a cui si sommano personali turbamenti e vestizioni  di genere senza garbo e senso.

Fuggire dal mondo prodotto da questi esseri colmi di falsa boria, abbarbicati ai valori dell’ignoranza, per questo pura finzione disperata, è il gesto più nobile che possono fare le persone normali e di buon senso, che di agosto prendono le distanze.

Come in un gioco perverso, sono gli stessi comunemente che subiscono il fascino del profano scambiato per sacro, spargendosi, sin anche la testa di cenere per diventar poeti e confonde il tragico dal genuino della barbarie più cruda.

Sono gli stessi che imperterriti, senza mai avere consapevolezza dei loro gesti e teoremi divulgati, valgono meno di una posa di avanspettacolo, parabola di gesti mai attuati dalla storia; tutti accolgono di buon grado, tanto alla fine si prepara la tavola imbandita, dove si moltiplicano pani e ogni sorta di manicaretto vegetariano, animale e idoneo comunque per spartire.

Così facendo conquistano il palcoscenico pieno di luci sublimi, inconsapevolezza, di un nulla prodotto, se la meta di poter  spartire le cose ingorde, di vite mediocri, meschine e non certo di estrazione nobile.

Essi vivono sotto vuoto e in perenne stato d’assedio, combattono nemici spietati, generati nella perfidia figlia dell’ignoranza, dalla noia e dai legittimi derivati della loro mente.

Hanno voglia di salire sempre più in alto, per urlare e mostrare i falsi battiti del cuore e la perversa mentalità, il cui fine mira esclusivamente al vergognoso luogo di provenienza dove primeggia, l’ignoranza allo stato puro.

Chi vuole salvarsi da questa cattiva perfidia deve, per forza emigrare, salire più in alto che può, con il suo irripetibile bagaglio di cultura; solo così la parabola del corvo e dell’aquila ha modo di attuarsi, quando si raggiungono i confini dei comuni volatili, è allora che finalmente il corvo cade e nell’impattare a terra, mostra i limiti e vergogne di nudità, millantate per illibate.

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