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LA KEY OF TODAY - DI ALFRED MIRASHI MILOT - A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

LA KEY OF TODAY – DI ALFRED MIRASHI MILOT – A NAPOLI (Gnë kjcë i shëtrumbùerë ndhë mesë thë sghjeroj Napulë)

Posted on 30 marzo 2023 by admin

photo_2023-03-30_13-51-37 (5)NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Sono stato in piazza Mercato, ad assistere all’assemblaggio dell’opera di Milot che apparirà, nel corso di quest’anno, in numerose città, le cui trame edilizie del passato, avranno modo di attivarsi come cunei culturali, in memoria di futuri multietnici in dialogo a venire.

Per giungervi come atto beneaugurante ho percorso la via del Lavinaio proveniente da Castel Capuano, senza passare, dove era il Castello del Carmine e, giunto sulla piazza ho salutato fraternamente l’artista e le autorità convenute, per l’inaugurazione ufficiale del manufatto arrivato dall’Albania.

L’opera, realizzata in acciaio corten, ha dimensioni ragguardevoli e per questo, non passerà inosservato, segnando grazie alle sue dimensioni, il valore indelebile di fratellanza e apertura di dialogo tra popoli.

Nel caso di Napoli, proprio quella Piazza per la sua storia, in forma di primati irripetibili di operosità, pur se mescolati con episodi, o meglio, solchi della memoria di tutti i suoi abitanti, restava in attesa di vedersi sollevati i veli, che impedivano, la tanto desiderata ripresa di attività e dialoghi, interrotti da tempo; mire e politiche senza dialogo comune del passato.

Quindi “Grande Merito” e onore sul campo ad Alfred Mirashi, detto “Milot”, per essersi incamminato in questa avventura, lui, proveniente dal centro di quella terra da noi Arbër ritenuta madre, è approdato esponendo questa sua opera, frutto dalla radice dell’educazione della sua famiglia natia; materna in arte sartoriale; e paterna in attività di pigmenti; aprendo così il percorso di dialogo smarrito tra Napoli e Albania.

Milot, approda non in un posto qualsiasi nella vasta area Metropolitana di Napoli, ma sceglie il centro antico, concentrandosi proprio in Pizza Mercato, lo stesso luogo dove un dialogo di “libero pensiero”, fu interrotto il pomeriggio alle ore 18, dell’undici di Novembre del 1799, iniziato secoli prima con l’eroe nazionale Giorgio Castriota, in quello stesso largo una mattina di primavera del 1464.

Oggi 30 marzo 2023, alle ore dieci, l’artista del “Nuovo libero pensiero”, apre alle nuove generazioni una via possibile, proveniente proprio dalla stessa regione Albanese.

La forma della chiave, rende merito alle attività di dialogo antico tra Napoli e Albania, un tempo due regni, storicamente uniti da patti di sostentamento dei familiari reali e del popolo in sofferenza perché migrante.

Un messaggio antico, prima con gli Angioini e poi con gli Aragonesi, dove gli attori protagonista di prima linea, sono l’eroe albanese con altri principi, tutti al seguire del re di Napoli in trionfo, dopo l’epica battaglia di Terrastrutta, nei pressi di Greci, il 18 agosto 1461.

La collocazione della chiave di Milot in piazza del Mercato a Napoli, apre un dialogo nuovo tra Albania e gli Arber, questi ultimi ancora numerosi, vivono e tutelano radici antiche, in forma di consuetudini e attività in oltre cento paesi dell’antico Regno di Napoli, oggi identificati come; “Regione storica diffusa degli Arbër”.

La chiave è il primo passo riconosciuto dalle autorità politiche culturali e della credenza, del Genius loci Albanofono, oggi come quello di ieri, lo stesso abitualmente posto in secondo piano a favore di altre forme, ormai vetuste e non più in grado di esprimere la forza di un componimento come quello realizzato da Milot.

Finalmente un evento nuovo, proveniente dall’Albania, qui nella antica capitale del regno, finalmente arrivano segnali nuovi, che non sono di mero vanto culturale, ma attività che superano i confini terreni e si riverberano come la luce del sole su tutto la terra.

Finalmente non solo lingua, ma arte storia fatta di cose materiali e immateriali come è la chiave torta o gli ambiti del costruito di Napoli tra spiaggi e pianoro della città greco romana, architettura e urbanistica Bizantina, la stessa che era realizzata in Albania e in ogni altro luogo dove si voleva tutelare e far germogliare le Cose dell’antica Albania.

Anche Milot ha seguito la strada che va dall’Albania a Brera per diventare figura di eccellenza; anche lui compone cose non parlanti ma silenziosi significati di fratellanza, senza prevaricazioni, il suo è acciaio forgiato con lo stesso entusiasmo dei battiti della macchina da cucire della madre, suoni mai dimenticati, per questo sono componimenti colmi di materni sentimenti, messaggi di matrimonio tra le genti del mondo.

Il suo è un traguardo che le istituzioni tutte dovrebbero tenere ben appuntato in agenda per le cose culturali del futuro, in senso di Genio.

Vero è che la chiave di questo artista, ha fatto più strada e trascinato tanto del mondo Arbanon e non solo, più di ogni altro evento senza arte, questa è la prova evidente che gli ambiti con protagonisti gli Albanofoni, non sono un mero esperimento in idioma o comunemente definita lingua altra.

Arbër e Albanesi devono essere grati a questo grande artista del centro della madre patria, per il forte riscontro mediatico raggiunto e da domani in poi avranno gli Albanofoni tutti, più luce nel mondo; lui non ha scritto libri, non ha composto alfabetari, ma come Luigi Giura, da Maschito, ha trafilato acciaio per costruire ponti di dialogo.

Ho salutato l’artista a manifestazione terminata, non prima di un fraterno dialogo, con tutte le autorità intervenute Partenopee e Albanesi in quanto rappresentante Arbër.

Un abbraccio terminato con una stretta di mano posata per tre volte a battere sul cuore mio e di Milot, un rituale mirato a sottolineare un patto di fraterna amicizia, che non smetterà mai di rigenerarsi nelle terre della regione storica diffusa degli Arbër, fatta di arte architettura e genio innovativo nato dell’Albania di ieri e in quella di oggi, per domani migliori.

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CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

CALABRIA SPIAGGE E STORIE DI BRACCIA STESE VERSO IL CIELO A FAVELLAR IN LINGUA IGNOTA (i vetëmj nënghe ka shiok sàthe kukiaretë)

Posted on 28 febbraio 2023 by admin

braccia stese al cielo 2NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Dal 1469 sino al 1502 le spiagge più estreme del meridione “abbracciarono” un numero molto elevato o meglio imprecisato, di profughi provenienti dai governariati, disposti a nord e a sud, della via Egnazia da Durazzo verso l’est; questi, cercavano tutti, di sfuggire per non essere piegati dalle credenze mussulmane, che chiedevano anche pedaggio.

Di essi non si contano le volte che posero in essere i protocolli di partenza in pena, ma si narra solo di approdi che vide numerosi, donne, bambini e uomini, e genitori, mal vestiti o con poco nulla in dosso, favellavano una lingua ignota, colma di dolore, lacrime e braccia stese verso il cielo per cercar calore.

A quei tempi le cronache annotarono solo questi elementi e null’altro, nessune rilevò, se li vi fossero barche o resti, nessuno annotò quanti corsero ad aiutarli e neanche per quanto tempo furono lasciati in balia delle onde di quell’epoca, o quanti non trovarono mai ristoro al sole, non asciugandosi mai.

Da quel tempo remoto gli uomini hanno cambiato molto o quasi tutto nel modo di fare per vivere secondo procedure sociali in linea con le cose evolute prodotte e messe in campo, ma quelle spiagge continuano ad essere a tutt’oggi, il teatro delle identiche cose, senza che nulla venga rinnovato in meglio, prima e dopo essere sbarcati o li nei pressi delle spiagge trattenuti per sempre in mare.

Il mare che segna per sempre una delle minoranze più numerose del meridione, è ancora distante da quello che si vorrebbe buono per quanti  vanno per trovare fratellanza, ma, non finisce qui, in quanto la china per l’integrazione, successiva,  non è poi così semplice come immaginato dai provetti naviganti, in quanto, si potrebbe definire, per essere buoni, diversamente articolata.

Come avveniva un tempo dove si affidavano prima vecchi casali abbandonati e colmi di pene da coprire, grotte da scavare, terre da bonificare, gabelle da corrispondere, nonostante si ritenevano definirli, sporchi, colmi di malattie, assassini senza scrupolo e ladri attentatori sin anche delle offerte di Francesco di Paola.

La loro presenza ha avuto sempre poco valore, permanendo labile per i primi cinque decenni, giacché, il loro operare su un determinato territorio non vedeva riconosciuto alcun diritto, per la discendenza che a morte avvenuta del capo famiglia responsabile, costringeva gli altri a emigrare per terra.

Nonostante le grotte fossero  trasformate in abituri aditivi, le terre piantumate e produttive; la diffidenza verso le genti un tempo della via Egnazia, restavano identiche, anzi, con lo scorrere del tempo, diventare addirittura discarica sociale a cui imputare ogni genere di colpa, al punto tale da imporre, agli scampati del “mare nostrum”, il non cavalcare asini o cavalli, durante il giorno, per rallentare eventuali fughe di malaffare, come se compire l’atto di riposare dopo la giornata di lavoro, fosse una conferma di un mal tolto.

Se a questo associamo l’imposizione che nel corso della notte, prima dell’imbrunire e dopo l’alba, di restare agli arresti domiciliari, nelle proprie case, esclusi i “Prati di pascolo”, pena l’amputazione di un arto per ogni evasione compiuta, la fiducia rivolata a questi migranti non deve essere molto cambiato nel corso degli ultimi cinque secoli, dalle istituzioni tutte.

Ma gli imperturbabili e onesti uomini della Egnazia, per ovviare al non poter cavalcare asini o cavalli inventarsi “il Basto” , essa infatti non era una sella, ma presentato in primo impiego come oggetto da carico o da trasporto da soma.

O come gli fu imposto dal 1563 di costruire recinti di mura, entro cui vivere i domiciliari, dal tempo del tramonto a quello del sorgere del sole, altrimenti finire di essere senza arto per ogni trasgressione di un ipotetico reato.

Poi venne il  termine dell’accanimento degli uomini, iniziando cos’ le attività della natura, con terremoti carestie e ogni sorta di avversità in malattie, ciò nonostante la tempra di queste famiglie senza tempo, ha saputo adeguarsi e con caparbietà sollevare mura di solidità per l’esistenza, difendendosi e iniziare a trovare conforto dal 1734 con le nuove regole sociali ispaniche di re Carlo III.

Nonostante tutte le cose della politica e della cultura fornirono figure di rilievo per la valorizzazione culturale di queste terre di approdo, le questioni economiche e produttive non persero il senso di calpestare, quanti rimanevano legati alle terre per la sostenibilità economica e produttiva.

Tuttavia, nonostante regole e le esigue possibilità di affermarsi va diffondendosi un dato e rimangono inconfutabili che le generazioni dei migranti approdati nelle spiagge, con storia di braccia stese verso il cielo a favellar in lingua ignota, è un dono naturale riservato solo a quanti vi nacquero e non a quanti cercano di inventarsi.

Per non riferire le pene inflitte nel corso del terremoto del 1783, quando numerosi furono scacciati di casa per terre migliori dicendo loro gli esperti ” li è meno pericoloso” teoremi ancora in voga sin anche nel 2009.

Anche quando le istituzioni dell’epoca cercarono di agevolare i più poveri, la misura di ciò viene riportato testualmente dalla regola venerabile del Monte del Grano del 1796 che lascia oltremodo basiti e senza parole, delineando la misura di un calvario interminabile.

Il grano dato in prestito per la semina, va utilizzato esclusivamente nel bacino di prestito e qualora i contadini, nonostante gli interessi di restituzione, fossero diventati ricchi, per questo autonomi e non più interessati al prestito, le rendite di questi, sarebbero rimaste a disposizione del monte o di enti successori, che ne avrebbero disposto in piena autonomia.

Come si può ben vedere la discriminazione ti persegue dovunque, e non ti abbandona mai, anche quando ti allontani fuori dai bacini germani, depositando fiducia negli altri  per promuovere germogli del tuo essere caparbio Arbër che vive libero da stereotipi il 2023.

Purtroppo ancora non è noto l’enunciato della moltiplicazione o non somma degli assoluti, anche dei trascorsi Arbër, in controtendenza del principio che due o più bicchieri di acqua a settantacinque gradi, riversati in un contenitore unico, sommano la quantità del liquido, diversamente dalla temperatura, che non varia.

Quando si discute delle cose materiali, immateriali in storiografia di temi assoluti, come, Lingua, Consuetudini, Metrica del Canto e Religione, non si produce nessuna sommatoria per un risultato numerico perché essi sono assoluti solitari non di somma, perché i numeri di simile calura o mira formativa non si sommano.

L’esempio dei bicchieri di acqua a settanta cinque gradi, rende chiaro lo stato delle cose, in vicende relative all’indagine per definire glie ambiti identitari della Regione Storica diffusa degli Arbër.

Per questo, ostinarsi dopo sei secoli, nel riferire cose e fatti di simile calura, non aumenta lo stato di benessere della culla di crescita, scambiati per catini in misura termica; allora prima di un’altra volta, sappiate che pur se nota come città del sole, le cose copiate restano assolute e non cambiano il senso  dei “discorsi copiati” che non saranno mai somma di calore, perché valore assoluto ben noto.

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UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

UN PELLEGRINO DEVOTO SEGUE LA VIA DEL SANTUARIO ANCHE SE VA IN CATTEDRALE

Posted on 24 febbraio 2023 by admin

527-765x1024NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile- Storico) – In Terra di Sofia, ormai non si è più in grado di distinguere, a iniziare dalla fine del secolo appena trascorso, la storia vera dalle favole inventate; prova lo sono i pomeriggi di calura estiva, quando imprudentemente si elevano “Termini” d’inopportuna memoria.

Nient’altro che rovesci degli storici sacrifici di sangue, che segnano indelebilmente il corso del lavinaio del nobile casato ormai sotterrato completamente, oggi diventato l’ameno del cruento Giuda.

Questo accade, quando si affidano agli asini, i compiti in casa per organizzare parate e si imitano le impronte del cavallo del re, disponendo sin anche la fida gendarmeria, che suona inni di nobili propositi, invece di fare il mestiere primo; ovvero, imprigionare Scriba, Asini e Falsi Re, pronti a ricevere applauso dagli astanti ignari.

Purtroppo questo è il tempo che scorre quando non si possiede la volontà di perseguire la meta del santuario, ma, in continua mutazione si preferiscono Diavoli, bardati a Mezza Festa, senza alcuna consapevolezza delle urla che quel luogo diffonde, perché  un “Dante”, lì in Terra di Sofia, è nato cresciuto e seminato germogli di sapere nobile.

Questa metafora vuole evidenziare la mancanza di un mulino, in grado di macinare e separare finemente, la farina dalla crusca, quest’ultima, la sfoglia che avrebbe dovuto difendere la locale cultura.

Tuttavia, quello che più duole, è il ripetersi con volontà perversa, delle cose più infamanti dopo due secoli dallo essersi svolte e penosamente avvenute; prima a “Giugno” in forma di tradimento, poi ad “Agosto”, con vestizioni di tradimento, concludendo alla vigilia di novembre con la pena di condanna a morte.

Non è comprensibile, come tanta perversione passi in quel “ Lavinaio”, al cospetto della Madre venuta da Costantinopoli e come se non bastasse, germoglia e fiorisce incultura, vilmente copiata e sottratta al genio locale.

Per le genti che vivono a impronta di Costantinopoli e Alessandria, il “Lavinaio”, avrebbe dovuto scorrere secondo i dettami dell’inverno e dell’estate, con protagonisti il giorno, la notte, il sole, il vento e le forme naturali irrigue, le stesse che in comune accordo, rendono merito al progredire della vita degli uomini.

Tuttavia da oltre otto stagioni, questa ritmica, ha terminato lo svolgersi in linea con la natura, in quanto vede il terzo genere, ovvero quello irrispettoso del ruolo di nascita, preferendo fare la sposa di notte che non può aver marito.

Lo stato delle cose è divenuto così inopportuno, avvilente, demenziale e deleterio, al punto da piegare le nuove generazioni, queste ultime, ancora acerbe, vivono senza cognizione alcuna, di fatti e cose del passato, non solo dal punto di vista immateriale o puramente conoscitivo, ma addirittura svengono privati della direttrice di approdo; infatti l’ipogeo, per ben due volte, nel tempo di poco men di un secolo è violentato, piantumando e sradicando ulivi nei campi, dove quanti passato a miglior vita, e quindi  inermi finiscono per essere addirittura frullati per impasto di cemento.

La Terra di Sofia fa parte di una delle arche delineate a Capua da Scanderbeg nel1464, quella che nel corso della storia ha preso l’impegno con saggia devozione, secondo le disposizioni dell’Ordine del Drago, la stessa che nel XVIII secolo preferì Carlo III per guidare spiritualmente la sua personale armata.

Questo luogo dopo qualche anno ebbe modo di dare i natali a una schiera di luminari, cui purtroppo, fece parte anche chi è considerato il giuda storico di questi esuli: il modello di accoglienza e integrazione mediterranea ancora vitale, grazie a pochi.

Ad oggi purtroppo chi studia la storia di questo luogo, pericolosamente invertita in favore della sacra famiglia perversa, impegnata non a privilegiare tempo, luogo e genio, ma tenere ben distante o fuori i circuiti della cultura che conta, adoperandosi a far diventare questa nobile disciplina un tema di commercio di insaccati privi delle essenze dell’orto botanico di Sofia.

Quando tutto questo abbia avuto inizio, per i comunemente non tema di rilievo, ma per dare ragione a  fatti e cose, si può sicuramente affermare che tutto ebbe inizio il pomeriggio dell’undici Novembre del 1799 quando il carro scortato dai Bianchi da Carcere di Castel Capuano, prese la via del Lavinaio e recarsi in Piazza Mercato, il circo di quel tempo, che per finta inforcare male poi, sgozzava come capretti i giovani e liberi pensatori.

Chissà come si si sentita sola Teresa, nel fare quel percorso al fianco del suo amato Pasquale, che andava incontro alla morte, in altre parole un funerale in solitudine con il promesso defunto, che con la sola forza degli sguardi divideva quell’ultimo amplesso di amore.

Dove stavano e cosa facevano, i falsi estimatori paesani, i parenti menzogneri, chissà come hanno impegnato i trenta denari, magari sommandoli a quelli di Giacinto e Paolo in Terra di madre Sofia, per imprestare grano, proprio dove si trova il Termine, di fianco al “Lavinaio” dove ogni 18 di agosto, scorre sangue e trascina grano.

Le cose della storia a terra di Sofia, sono come individui bendati che vorrebbero raccontare cosa è avvenuto in quel luogo ma non possono, il dovere di ogni buon ricercatore è di saper togliere quelle bende sulla bocca e poi in rigoroso silenzio ascoltare e fare tesoro del parlato di quest’ultimo racconto in pena di lingua Arbër Terminale.

Sofia e i suoi figli sono un esempio da non imitare, sia dal puto di vista sociale e sia per le tradizioni consuetudine valorizzate, giacche sempre pronti a disporre le cose “ritenute buone per gli altri, e mai per sé stessi.

Noti consiglieri e sostenitori di stato gratuito di avvenimenti e vicende, che se affrontato dagli altri unisce tutti mel mutuo muro di gomma, poi quando la stessa vicenda entra nelle proprie case, si affidano al pianto terminale con i capelli sciolti, di chi ha vissuto in solitudine la stessa vicenda.

Come accennato prima, le genti insediatesi il sette settembre 1471, nel corso dei secoli, hanno partecipato con forza alle vicende storiche al pari degli indigeni locali.

Ciò nonostante non usano ricordare i traguardi per opera e genio di molti compaesani, preferendo a questi i giuda seme di morte per danaro.

I lavinai storici in Terra di Sofia sono tre: il primo a est del costruito, il secondo nella parte centrale e il terzo a est, degradanti da sud verso nord lungo il corso prima del Vallone del Duca che va da Ovest ad Esta.

Di questi è proprio quello centrale ad essere il baricentro delle eccellenze storiche in Terra di Sofia, diventato poi nel corso di quel tragico diciotto di agosto, piena di lacrime e grano insanguinato.

Assistere all’esibizione di qualche giullaresco farfallone dopo due secoli, rievocando l’orrenda giornata, per sentirsi protagonista irresponsabile senza velo anzi con fascia e dare la misura locale della vergogna, è stato come se il “ventisette di gennaio” giorno della Shoà, diventasse la giornata del grasso di colatura e lo cibarsi di carne alla griglia.

Un buon pellegrino non smette mai la via del santuario prescelto, anche se lungo il cammino incontra l’orto botanico di Sofia ridotto a discarica o luogo per bambini, che rubano polvere, per spargerla in testa, per sembrare adulti saggi, quando non sono altro che capricciosi di fasce sporche perché mai dismesse.

Allo stato delle cose e per terminare non rimane altro che piangere sui resti delle case che non parleranno mai ai bambini, che resteranno delusi, quando in età adulta scopriranno che quelle sono solo abusi.

In oltre chiedersi se Franco adesso che è passato a miglior vita, ha capito che umiliare Atanasio per il pianto della madre Adelina, davanti la bara di Demetrio non fu mera esibizione.

Caro Franco ovunque tu sia in cielo, devi comprendere che la madre di Attanasio, in quel frangente di dolore per la doppia perdita fisica e quella morale in atto, aveva capito, quando dolore si arreca quando viene riverberato in solitudine e non vuoi finire sola come Adelina, perché le ragioni materna non sono mai condivise quando non sono di casa proprie del figliol prodigo.

Queste note sono il pellegrinaggio culturale nascono quando cresci sotto la guida, prima del parlare secondo la metrica in terra di Sofia, sotto la guida di Madri e Gjitonie che sanno di tradizione e costumi gli stessi di cui si cibano e vestono cibano, poi  da adulto studiare dopo essere stato battezzato in promessa di tornare e spiegare, quando tutto è pronto per la partenza potresti anche trovare nel tuo orto botanico, medici e infermieri che fanno gli invalidi da curare, li capisci che la penitenza da assolvere è iniziata.

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LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

LA CRUSCA ANCHE PER LA LINGUA DELLA REGIONE STORICA DIFFUSA DEGLI ARBËR (Krùndja Thë ghjughës Arbërèshëvet The Shëprishiura)

Posted on 18 febbraio 2023 by admin

I fratelli Grimm a lavoro

NAPOLI (Lo Storico Atanasio Pizzi Basile) – L’Accademia persegue il fine di tutelare, conservare e divulgare la lingua degli Arber, delineando Termini solidi e indistruttibili, con monoliti atti a circoscrivere le interferenze moderne, le stesse che insistono nel generare fatuo, cercando di vanificare la promessa data, in terra natia nel 1469, quella che ancora oggi i “Cruscofoni” promuovono dentro e fuori i confini della Regione storica diffusa degli Arbër.

Oggi da Napoli con il contributo di parlanti natii delle 21 macro aree, che compongono la regione storica diffusa, si vuole separare la farina, cioè la lingua, identificata con l’Albanese, dalla “crusca” ovvero la corazza che gli esuli utilizzano da quando approdarono nelle terre parallele, dal 1469 al 1502.

Il nobile intento a impronta dell’impresa del Cavaliere Giorgio Castriota figlio di Giovanni, non è stato finalizzato a forme di battaglie per sovrapporsi agli indigeni, ma per tutelare la propria identità rispettando anche le altre Crusche ancora vive.

Un progetto di non facile attuazione, ma la caparbietà che contraddistingue questo popolo, fa la differenza, con  quanti rimasero in terra natia a segnare confini di terra in fermento.

Tuttavia tutti consapevoli allora, che dovevano come noi oggi, affrontare non poche difficoltà, prima di uscire in pubblico confronto, per realizzare un solido progetto, che accolga con misura tutti i Residui nei luoghi di macinazione dei cereali, separando con dovizia di radice, dal grano duro.

Un semplice ma antico atto di rifinitura, noto nel saper distinguere con saggezza la farina di oltre Adriatico, dalla crusca Arbër, ovvero, l’elmo del drago e non del capretto come suolesi rappresentare; come facevano le nostre genitrici quando infornavano buk me Krùnde , per sfamare ogni genere vivente di quelle terre, le stesse genitrici che hanno saputo allevare quanti sanno distinguere, il cattivo dal buono.

L’accademia che germoglia a Napoli, non è altro che un seme antico piantato nella purpignera (in Arber, vurvini i llem llitirit) protetto poi in età parlante, nel recinto del “giardino di l’Ina Casa” da uno dei contadini della lingua Arbër, definito il più eccelso, in Terra di Sofia, dal 1913 al 1964, anno, quest’ultimo, che passo il testimone al giovane parlante adottato a Napoli.

L’unico esponente Arbër vissuto con lo scopo principale di vigilare sul buon uso delle cose materiali e immateriali, portate nel cuore e nella mente delle genti provenienti dalla terra madre.

Il nome, promuove i crusconi senza alcun dubbio come eccellenza (per burlesca modestia, «gente degna di crusca e non di farina»), gli unici in grado di separare, nella lingua, la farina, cioè la lingua più pura, dalla crusca, cioè l’elemento meno valido, ovvero l’elemento della difesa di suolo.

La formazione culturale nella capitale con eccellenze in campo linguistico, sociale, storico, sia materiale ed immateriale, nel campo della musica, del restauro, della museologia oltre a saper leggere e disegnare le cose del passato, consentono quel titolo accademico, un tempo esclusiva delle Botteghe del Sapere o figli in discendenza.

A tal proposito è bene fare una piccola premessa, ovvero, fratelli Grimm, si nasce e non lo si diventa, solo perché si è in grado di favoleggiare, senza adeguata consapevolezza di garbo, educazione e sentimento, come hanno cercato di fare provetti fochisti, saliti sulla Cattedra che non è la stessa cosa di un Camino che unisce la famiglia.

Generando riverberi incontrollati prima lungo le Gjitonie, raccontate dagli indigeni e poi allontanandosi sempre di più, in piazze e palchi, scambiando, deserti culturale con oasi.

I fratelli Grimm sono diventati celebri per aver raccolto ed elaborato moltissime fiabe della tradizione tedesca e più in generale europea.

Le fiabe, per loro natura tramandate oralmente, sono di difficile datazione e attribuzione come la trasposizione letteraria in lingua napoletana Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, che precedette sin anche i Grimm, per più di due secoli.

Tuttavia le loro storie non erano concepite per i bambini, oggi ricordate soprattutto in una forma depurata dei particolari più cruenti, e non mancano di contrarietà a edulcorare le storie.

Resta comunque sempre valido in concetto di Camino, la Crusca che contiene e avvolge la parte genuina di un ben identificato popolo, attraverso l’attenzione che i minori applicavano nell’ascoltare e comprendere le cose materiali e immateriali delle favole.

In dato non è stato compreso dai giullari o saltimbanchi, che invece di comprendere il senso dell’atto che si andava a esternare, disporre, attuare e attuare attorno al camino, ovvero la fucina del parlare una lingua antica, ci si è fermati alla mera falciatura delle favole poi lasciate alle intemperie a macerare.

Le favole non sono altro che il “vocabolario primo”, il più antico, autentico e solidale condiviso dall’uomo, senza carta penna e calamaio, sin dalla notte dei tempi realizzato.

Essendo le favole racconto di generi e parole che si usano descrivono il corpo umano e l’ambiente e le cose naturali che lo circondano per farlo crescere e vivere, in definitiva il messaggio, la consuetudine che i fratelli Grimm, seminavano e diffondevano per unire uomini della stessa terra, in tutto, quello resta e sarà sempre il corpo umano, lo stesso che suda, semina, opera e raccoglie le cose per fare vita.

È naturale chiedersi perché anche noi Arbër, per iniziare a delineare il vocabolario primo, quello che unisce la Regione storica diffusa ad Ovest del fiume Adriatico, con le popolazioni ad Est di detto fiume, non faremo altro che diffondere semplici parole che descrivono il corpo umano e il suo ambiente naturale?

In altre parole, mano, braccia, orecchie, capelli, ecc., ecc.; avrete, come per incanto, adesioni da parte di tutti i parlanti moderni e antichi di questa lingua, perché tutti senza alcuna distinzione comprenderanno il sostantivo, il verbo o aggettivo che sia, senza riserve.

P.S. visto che non ho fratelli, io faccio Grimm e voi sarete la fratria, così la storia si ripete anche per gli Arbër

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GJITONIA: GOVERNO LOCALE DIFFUSO, DELLE DONNE ARBËR

Protetto: GJITONIA: GOVERNO LOCALE DIFFUSO, DELLE DONNE ARBËR

Posted on 21 dicembre 2022 by admin

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GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR  (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)

GJITONIA, SECONDO LA DIPLOMATICA DI UN PAESE ARBËR (gjitonia, te krietë i katundëtë arbër)

Posted on 09 novembre 2022 by admin

LETTERA AD UN AMICO_oNAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – E’ stato detto che vi sono due storie dei trascorsi che abbracciano l’intero mediterraneo e per questo anche tutte le minoranze storiche:

  • la ufficiale, menzognera, che ci viene insegnate e largamente diffusa secondo ordini e gradi prestabiliti;
  • la segreta, dove giacciono le vere cause degli avvenimenti, una storia spesso vergognosa che non può affrontare la luce del sole;

a noi studiosi il compito di rendere nota quale sia la vera storia e cosa è menzogna, senza arricchire il riferito con il contributo di eroi e nascondere le macchie in sangue di quanti per aver creduto in una missione sono presentati come comprimari di secondo ordine.

Gli elementi sono molteplici e si presentano in diversa caratura, ma il teorema più elevato, privo dei più elementari fondamenti di cose riferibili agli Arbër, depone la Gjitonia, nello stesso nido sociale degli indigeni, considerandola simile, uguale o equipollente al Vicinato, assegnando così al componimento di thema, il ruolo fondamentale dell’approssimazione, oltremodo priva di senso, sminuendo, così tutte le altre di simile radice.

A tal proposito, si ritiene sia giunto il tempo di rimuovere, quanto svoltosi o accaduto nel 1999, quando fatta la legge per le minoranze storiche d’Italia, gli Arbër dovettero allestire, in tutta fretta, l’inadatto teorema, copiando nei temi Olivettiani e accedere con poca fatica, tra gli eletti della 482.

Trovandosi, i su citati operatori culturali, impreparati ad apparire con forza, inventarono cosa fosse, caratteristica e caratterizzante la minoranza, quest’ultima  per una mancanza legislativa, non difende neanche gli Arbër, la storica minoranza, ma forse, quanti approdarono a Bari l’8 Agosto del 1991, questo chiaramente non è vero, ma leggendo gli articoli di legge, di Albanese tratta e non di Albanofoni o Arbër.

In oltre i cultori dell’epoca, ignari di ogni cosa, invece di illuminare le eccellenze Arbër/n che la storia teneva in bacheca, pronte ad essere esposte, pensarono di legare tutto al circoscritto idiomatico, ancor oggi incompreso, a cui legare le cose con spago di canapa richiamando la:  Gjitonia, senza mai  parlarne in senso unitario, riversando tutto nell’Albanese moderno che da ora i avanti intorbidirà ogni cosa.

Certo che non era un buon biglietto da visita, vedere la legge a pieno regime e sentirsi ripetere il ritornello: “la Gjitonia come il Vicinato”, o i borghi Arbër, quando nessuno di questi così descritto e riportato sia mai appartenuto alle cose degli Arbër.

Il dato forviante ha piegato i cultori di ieri e di oggi, a tal proposito, l’auspicio vuole che quelli di domani, abbiano nel loro scrigno culturale, elementi sufficienti a comprendere la storica differenza e correggere ogni cosa, vocabolari di area compresi, oltremodo compilati all’incontrario, per una  vasta platea ancora analfabeta.

Ad iniziare da oggi a trattare le cose, come sancito anche dall’articolo nove della Costituzione Italiana, che ancora non fa parte degli articoli della 482, riferisce della tutela e valorizzazione delle cose e dei beni materiali e immateriali di una ben identificato territorio o macroarea minoritaria, come utilizzava fare A. Olivetti, con i suoi gruppi di lavoro multidisciplinari, ancora ignoti a molti operatori e amministratori moderni se non per copiare “vicinato” dalla profess. Lidia De Rita  .

Avere un numero ampio di esperti, che studiano e intrecciano dati storici, con il vissuto e i segni del territorio, in tutto, ricerche i campo Geologico, Ambientale, Sociale, della Psiche, Antropologico, Architettonico.

In altre parole il rapporto di convivenza a lungo termine tra Uomo, Natura e le trasformazioni relative al “tema ambientale ad opera dell’uomo”, capace di fornire le certezze sino ad oggi accantonate.

Per iniziare il discorso di tema, è bene precisare che la gjitonia è anche insieme di gruppi familiari allargati, in evoluzione mnemonica di radice, il termine definisce gruppi molto radicati a un ben identificato territorio, che si usa definire parallelo, ma che non gode di diritti, ne prerogative che spettano a quelli di istituzione locale,  infatti gli unici diritti a loro affidati sono la dirigenza di un ristretto ambito in forma di cose sociali e associative, per dare al luogo movimento, secondo i riti di credenza e consuetudini di confronto con il territorio.

I Katundë arbër (villaggio, paese, contrada, frazione, vico casto) possono essere riassunti come una tessitura urbana identificabile nel rione romano, dal punto di vista della direzione espansivo, mentre per quanto riguarda le architetture e gli aspetti sociali attingeva della radice greca del vicolo.

La differente mentalità nel modo di insediarsi, diversamente dagli indigeni, non sempre, dagli storici è stata intercettata con successo, infatti, comunemente si confonde il modello sociale di mutuo soccorso generico, “il Vicinato” con quelli dei cinque sensi e di ricerca dell’antico ceppo familiare arbër, detto “la Gjitonia”; oltremodo ritenendoli identiche, equipollenti o addirittura simili, quanto questo dato non ha alcuna fondatezza o lascito in tal senso, confonde le cose della storia, il sociale e di credenza.

I Vicinato e la Gjitonia, sono due modelli sociali ben distanti e pur se coabitando ambiti mediterranei sono diametralmente opposti:

  • Il Vicinato, genericamente interessa la fascia mediterranea che da Est a Ovest comprende l’Abruzzo sino alla punta più a sud della Sicilia; coinvolgendo tutte le popolazioni della Grecia più ad Est, sino alla punta più estrema della penisola Iberica; unendo in questo ambito individui di radice multi locale, in cooperazione sociale genericamente sotto il controllo del “commarato del semplice mutuo soccorso”.
  • La Gjitonia è composta da gruppi familiari allargati, che s’insediano nelle stesse aree, secondo precise e storiche disposizioni; macchina sociale precostituita, in cui ogni elemento o gruppi di elementi assumono uno specifico ruolo, secondo capacita e forza di corpo e d’animo, i cui diritti e doveri sono finalizzati per la sostenibilità dei gjitoni, in armonia e nel pieno rispetto del territorio.

Va in oltre precisato che la Gjitonia non ha confini fisici in quanto trova ragione in spazi ideali che come cerchi concentrici partono dal fuoco domestico della regina della casa,  si espandono in ogni dove e genera l’armonico sentimento dei cinque sensi condivisi, secondo note armonie di cose.

Il valore spaziale dell’identità Arbër  si contrappongono ai nuclei urbani degli indigeni, questi pur se apparentemente simili, mostrano una sostanziale differenza, distinguendo quanti s’insediarono in fuga dalle terre d’oltremare e chi già in quelle terre dimorava.

Per questo i Katundë arbër, denotano le vicende di un periodo medio breve di confronto e scontro, con gli indigeni locali; solo dopo aver tracciato con senso, i valori, le cose materiali e immateriali secondo il proprio identificativo di genio, iniziarono a edificare le prime i primi abituri in forma estrattiva e poi additiva, con il senso di legarli alla terra di origine e di quanto innestato nei trascorsi storici di luogo.

All’inizio forme elementari e modeste, ben disegnate e definite in cui gli elementi fondanti erano: il recinto, la casa e l’orto botanico, un micro ambito circoscritto idoneo a soddisfare le esigenze dal gruppo familiare allargato e dei suoi animali domestici, da lavoro e trasporto.

Sono gli stessi ambiti abitati dagli arbër, pur se in apparenza possono apparire simili alle trame urbane degli indigeni, specie quelli costruiti dalla fine del XV secolo alla meta del XVI, per lo sviluppo delle aree agricole del meridione.

Tuttavia nella sostanza, i Katundë in elevati e tacciati Arbër, hanno finalità ben diverse, in quanto, dovevano rispondere a esigenze consuetudinarie “parallele importate dalla terra di origine”, a est del fiume Adriatico sin dove sfocia nello Jonio.

La caratteristica che contraddistingue gli agglomerati apparentemente disordinati, è racchiusa nella toponomastica e nell’aggregazione del modulo abitativo di base, che si articola lungo lingue di terra ben identificate secondo sistemi, prima articolati e poi in seguito lineari.

Quattro sono gli elementi toponomastici storici dei centri antichi Arbër: gli ambiti del credo, ovvero, la chiesa Greco Bizantina (Kishia); Il promontorio o luogo di osservazione (Bregu);  l’ambito circoscritto di primo insediamento Piazzetta (Sheshi); gli spazi delle attività ed espansione (Katundë).

Sono sempre quattro i toponomi ricorrenti in tutti agli odierni “centri antichi”, l’identico sistema urbanistico aperto, adottato sin anche nelle terre di origine balcaniche.

A tal proposito, l’insieme d’identificazione detta anche dei cinque sensi, ovvero gjitonia, rappresentava anche la linea oltre la quale ci si poteva contrarre matrimoni, estendendo  il perimetro diffuso, si sino a tutto il contesto territoriale dove vivevano gli arbër.

I due confini, confini, minimo e massimo sono stati in vigore sino agli inizi del secolo XVIII, quando la conseguente mutazione della “famiglia allargata”, in “urbana diffusa” e poi, in tempi più recenti parte integrata del sistema, “metropolitano/multimediale” hanno azzerato il primo confine e liberalizzato il secondo.

Questo conferma quanto citato prima, ovvero, i rapporti, meglio l’indagine dei rapporti di sangue ovvero parentela dimenticata, di quanti entrassero a far parte degli ambiti di gjitonia, che nei contratti di matrimonio escludevano le forme di unione endogene avendo come finalità solo quella esogena di appartenenza.

Quando erano al termine i lavori per la definizione della legge 482 del 1999, secondo quanto sancito dell’art. 3 – 6  della Costituzione Italiana, e suggerito della Comunità Europea, gli stati generali arbëreshë iniziarono a fermentare, come fa il mosto, prima di fare vino.

Per l’evento, di tutela secondo la citata legge, serviva caratterizzare la minoranza con un sostantivo tipico, che avrebbe dovuto dare valore alla “Regione storica diffusa Arbëreshë”.

Identificando quale volano il sostantivo “Gjitonia”, dove valorizzare la minoranza, al fine di rendere noti i minori ai maggiori, perche unici detentori di un protocollo sociale di inestimabile valore, da ritenersi tra i più longevi delle terre che perimetrano il mediterraneo centrale.

Il personalismo purtroppo a questo punto ha preso il sopravvento, sulla ragione e invece di aprire un tavolo di indagine composto da commissione multi disciplinare con solide capacità interpretative sia in campo linguistico, e di specifiche discipline, si è preferito procedere in ordine sparso.

E quanti dovevano panificare, iniziarono la ricerca del ”criscito madre perduto”, peregrinando lungo Rioni, Quartieri, Vicoli, Strade, Sheshi o addirittura senza meta, terminando la corsa tra gli ambiti indigeni che imprecavano parole brutte contro i ladroni di identità e terra.

Allo scopo e per togliere ogni sorta di dubbio è opportuno specificare che “Gjitonia”, non è Rione, non è Quartiere, non è come il Vicinato, non è “uno sheshi a forma circolare che unisce la corale convivenza delle porte per accedere alle proprie abitazioni” ne un paradossale trittico architettonico e ancor meno il festival delle porte aperte a manzaportu (lingua Zamandara).

Nella comune conversazione della nazione comunemente detta Arbëria (???) viene definito lo Sheshi come piazzetta, purtroppo, anche in questo caso si avvolgono senza attenzione dinamiche compositive in senso di spazio, a dir poco paradossali come un quartiere, senza avere una  cognizione storica o grammaticale del sostantivo o di altri ad esso associati, simili o equipollenti.

Partendo dal dato storico che ogni “rione” prima di essere tale, era uno spazio delimitato da un recinto di materiali naturali, quali tronchi e rami intrecciati, entro cui trovo rifugio il gruppo familiare allargato, come si ricordava di organizzarsi in terra di origine Balcana.

Al suo interno, era allestita la rudimentale abitazione in forma estrattiva, l’orto botanico e le attività della  filiera corta, che qui terminava di comporre e selezionare le parti più genuine degli alimenti.

Quando le attività messe in atto, consentirono al gruppo familiare allargato, di crescere di numero, questi iniziarono a proporre lo stesso modello di residenza passando dal’antico modulo estrattivo al nuovo additivo, quest’ultimo in specie, passò dai materiali deperibili dell’era del nomadismo a quelli naturali duraturi come calce e pietra dell’epoca del definitivo stanziamento.

È da questo momento che inizia a svilupparsi il rione, traccia di planimetrie antiche, rimanendo sempre privo di murazioni, barriere per la difesa o porte.

A tal fine va rilevato che dal 1563 le autorità locali dei Katund, ricevettero imposizioni regie in tale direzione, ma per l’economia corrente non furono mai applicate, se non sprazzi di muri o abitazioni, che per il tipico orientamento lasciavano elevati murari senza aperture a piano terra, dando l’impressione di opere eseguite in tal senso, ma poi i terremoti e le carestie fecero volgere l’interesse su altre priorità.

E’ lo stesso impianto urbano in allestimento a risponde sia alla esigenza difensive sociale e abitativa, come  insegnavano le Shekite religiose e gli Sheshi; ed è così che vennero innalzati agglomerati diffusi, in forma ed espansione secondo il concetti del labirinto in schema di Medina.

Strade strette e case addossate diventarono una secessione di dogane, perennemente attive; funzione che ogni abitante del rione svolgeva attraverso la porta gemellata con l’indispensabile finestrella, che non seguiva il disciplinare della  tassazioni, ma consensi sociali.

Tanti luoghi di avvistamento diurno e notturno, svolgevano senza soluzione di continuità l’atto della difesa, attraverso lo spazio costruito dei residenti che vi abitavano all’interno dello Sheshi; il Labirinto, come gli Arabi prima degli arbëreshë negli anfratti prospicienti il mediterraneo erano solito innalzarli per difesa.

Da ciò si evince che lo “sheshi non è uno slargo non è una piazzetta non è solo il tema che compone il modello urbanistico arbër”, ma un sistema raffinato e articolato, fatto di costruito irregolare, intrinseco per la difesa, contro ogni forza avversa; sia esso di radice naturale, come precipitazione, irraggiamento solare, esposizione eolica o derivante dell’uomo con intenzioni di ferire e sottomettere.

Alla luce di tutto ciò, “Gjitonë” non è da ritenere l’avversario di se stessa, veicolando per questo, forme di razzismo, tra parenti, che non trovano ragione d’essere, se non in discriminatori concetti, comunemente divulgati, per privi di ogni formazione o forma di scolarizzazione, attraverso comportamenti non dei maestri, ma degli operatori scolastici di terzo grado.

Un altro stereotipo, di cui si fa un grande parlare, sino a varcare i limiti della blasfemia, prende ragione nel principio secondo cui la Gjitonia, porta un nome di un luogo o di una persona a memoria, preceduto dal suffisso “ka”.

L’errore storico arriva al punto tale da scambiare il “laboratorio ideale di ricerca dell’antico ceppo familiare” su base dei cinque sensi, con un episodio toponomastico di tempo associato ad un luogo o una persona.

La ricerca dell’antico identificativo arbër, dell’ideale spazio non identificato fisicamente è riassunto dalla frase: Gjitonia; sin dove arrivano i sensì; l’enunciato venne intercettato in una ricognizione presso un Katundë della destra Crati, durante un’intervista a una, ultra novantenne, che descriveva e parlava dei cerchi concentrici dell’armonica forma sociale, dove lei si riconosceva perche li identificava nelle prospettive libere e ne sentire, volendo significare con il sentire i quattro sensi dopo la vista.

La ricerca, condotta da un noto antropologo latino e da giovani allievi arbër, per inesperienza di questi ultimi, venne riferita all’antropologo professore, secondo una sintetica traduzione incompleta di quanto voleva intendere l’anziana donna.

È proprio questa espressione che mi è stata lasciata in eredità dal professore, in una delle ultime conversazioni nel 2009 , dicendomi; ho fatto tanta ricerca sul campo e non sono stato mai convinto, di fare bene, ma una frase mi ha sempre perseguitato e non riesco a dimenticare; “gjitonia dove vedo e dove sento”.

Risposi al professore che l’aveva intercettata e trascritta, tradotta male dai suoi allievi, giacché per gli arbëreshe vedere e sentire sono semplicemente i “cinque sensi”.

Ragion per la quale, gjitonia è un luogo ideale senza confini, sin dove la vista, il tatto, gli odori, i suoni, i sapori, restano identificabili e non mutano; essi sono la memoria di crescita e una volta che ti hanno avvolto, continuano ad essere vivi nella tua formazione,  se poi questi sono intercettati da quanti li avvertono ordinatamente secondo gli antichi dettami Kanuniani è il segno distintivo che appartieni alla minoranza arbër, i pochi che ancora oggi con impegno e credenza difendono e tutelano.

Per riassumere: “gjitonia è un luogo identificato attraverso i cinque sensi, sensazioni per le quali e attraverso i quali riconosci la memoria e il segno del tempo associato al bagliore che indica la strada giusta ai sensi”.

In tutto possiamo affermare che  Gjitonia rappresenta una cassa armonica di natura senza confini, si attiva tutte le volte che la lealtà di quanti ti stanno a accanto, aprono scenari antichi di suoni, sapori, sensazioni, odori e ti accompagnano, in tutto le cose indispensabili che fanno avvertire ogni cosa che ti avvolgeva di una storia antica.

Non è la forma della piazza, non è la regolarità della strada, né la qualità del costruito che ti circonda ad attivare il sentimento antico, ma è l’insieme armonico che si sviluppa, quando natura, tempo e uomini usando i sensi per condividere presente e futuro secondo antiche consuetudini in arbër, che pochi sanno come tramandare.

P:S: – «È curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che valgono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore»

– Giacomo Leopardi-

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LE ORIGINI

LE ORIGINI

Posted on 31 agosto 2022 by admin

IL CODICE DEGLI ARBËRESHË CREDENTINAPOLI – (di Atanasio Pizzi Basile) – Santa Sofia d’Epiro è un centro abitato della provincia di Cosenza, quest’ultima un tempo identificata come Calabria citeriore.

Il Katundë di origini Arbër, nasce tra le colline della Sila Greca, che guardano lo Jonio, coronato dalla storica piana della Sibaritide.

La fondazione del piccolo agglomerato urbano è largamente anteriore alla venuta degli Albanesi o a quella ancor prima, della schiera di soldati greci di fede bizantina insediatisi nell’869.

A tal proposito va rilevato la vara origine del sito, risalente alla fine del VI secolo a.C., in rapida successione alla nascita di Sibari e del relativo sistema difensivo/produttivo, infatti la piana prospiciente il mare, dove Sibari venne  edificata, era coronata verso  l’entroterra, da una strategica cerchia di castelli a guardia dei valichi fluviali, che sfociavano prima alle spalle del sito della Magna Grecia e poi a mare.

Tuttavia e nonostante ciò si far risalire il centro abitato, quale opera di un gruppi di soldati disposti a difesa della linea del fiume Crati, insediatisi lungo le colline  dalla linea Rossano, Bisignano e Cosenza, per contrapposti ai Longobardi.

I soldati bizantini, trovavano sicurezza allocando i loro stati maggiore più verso monte, per non essere facilmente esposti agli avversari  sul fronte più a valle e  subire gli effetti dalle Anofele, che nella media e lunga permanenza diventavano letali.

Il Centro abitato in origine  composto dalla chiesa e rudimentali abitazioni, nominato Santa Sofia, a memoria della chiesa madre di Costantinopoli da cui partivano gli impulsi di credenza.

Dopo un iniziale sviluppo e accrescimento demografico, la piccola comunità subì le pestilenze e i travagli dell’epoca, di cui le cronache della Calabria citeriore del XIV sc. riferiscono numerosi  dettagli ancora  leggibili in loco.

I territori rimasero sottoposti a un rilevante calo demografico e conseguentemente economico, innescarono processi negativi  per le casse dei nobili locali, che dovevano rispondere al governo centrale.

L’alternativa per porre rimedio a questo stato di povertà territoriale diffusa, la fornirono le migrazioni dai Balcani e le vicende della nascente diaspora arbanon, che dal 1468, questa popolazione per seguire la vedova di Giorgio Castriota, a frotte, sbarcarono nelle coste del regno di Napoli e di più nella Sibaritide.

Il Mons. Giovanni Frangipani, vescovo di Bisignano, favorì per questo l’insediamento di profughi provenienti dall’Epi­ro, noti per essere fedeli lavoranti e luminari nell’arte di predisporre il noto e famoso trittico, alimentare mediterraneo.

La storia del Katundë Sofiota, è costernata da atti, attività, cose e figure la cui meta principale mirava alla tutela e la valorizzazione della lingua, le consuetudini, i costumi e il rito Greco/Bizantino, per i quali e con i quali, Santa Sofia d’Epiro si è meritato l’appellativo di “Scuola”.

I primi adempimenti dei suoi residenti, in poco tempo integratisi con le genti indigene, hanno definito gli spazi dei quattro rioni tipici, il riconoscimento dei gruppi familiari allargati e la definizione del loco dei cinque sensi: la Gjitonia, elevando così il costruito dell’originario “centro antico” come quello della terra di origine.

Per giungere a ciò, non sono mancate le avvertita sia naturali e sia innescate dall’uomo, tuttavia, la caparbia e la tenacia che distingue questo popolo, ha fatto si che dal XVII al XVIII  secolo, poterono intraprendere la via della cultura e della formazione, grazie al prelato Giuseppe Bugliaro, che per le sue attività religiose all’interno della Real Macedone nella Napoli Onciaria, accolse le menti più eccelse, suoi conterranei, per avviare il percorso culturale, che la storia definisce senza eguali.

Sono sempre figure Sofiote a innalzare il valore culturale dello storico collegio Corsini, deponendolo contro numerosi avversari, nella sede più strategica a san Demetrio corone nel Collegio di Sant’Adriano.

È sempre Giuseppe Bugliari, ma questa volta un Vescovo di altra epoca, dopo oltre un secolo, ovvero alla fine del XIX, ad evitare, grazia alla sua sapienza, che tutte le attività e le conquiste ottenute dagli arbër  andassero smarrite, senza poter avere una via di proseguimento.

Il centro storico del paese arbër, oggi segna lo scorrere del tempo lungo e del tempo corto, tramandando numerose tradizioni, civili e religiose; come ad esempio la grande festa dedicata a Sant’Atanasio il Grande, patrono del Katundë Arbër, i cui festeggiamenti, iniziano il 23 aprile e raggiungono il culmine, il due di Maggio, terminano la seconda domenica di maggio, con uno degli eventi più emblematici della coesione tra civiltà dell’era moderna, ovvero: la primavera Italo Albanese.

Momento di unione degli Arbër con gli indigeni locali, tutto legato a messaggi di buon auspicio e fraterna condivisione, cui Sofioti vicini e lontani credono, ricordano e partecipano  con devote convinzione di cuore e mente.

Tutti uniti in processione, l’accorata filiera identitaria, la stessa dagli anni sessanta del secolo scorso, ad oggi non trova confini, segnando avvenimenti con i coloratissimo palloni aerostatici, gli stessi che ogni sofista, nel periodo di festa, sia esso vicino o lontano aiutato dalla memoria storica rivive gli epici momenti di unione cristiana e sociale, cantando coralmente: Dita Jote.

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NAPOLI LA VENUS PARTENOPEA DEGLI ARBËR

NAPOLI LA VENUS PARTENOPEA DEGLI ARBËR

Posted on 19 giugno 2022 by admin

36384154-albero-con-radici-isolateNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Gli oltre cento e più Katundë che danno forma e vita alla Regione Storica Diffusa degli Arbëreshë, nel corso della storia per le innate doti di caparbietà della minoranza, ha superato ogni tipo di avversità  sino ad oggi.

Prima per difendere l’Impero Romano, con capitale Costantinopoli, poi i Dogi di Venezia, in seguito la stessa patria dagli invasori ottomani, da cui si dovettero allontanare, per tutelare le fondamentali radici identitarie, senza mai smettere di affrontare altre chine da togliere il respiro.

Vero è che giunti nelle terre simili a quelle di originarie dovettero confrontarsi con gli indigeni e le credenze locali, superando non pochi attiri, non solo con gli uomini ma anche, con la natura in forma di terremoti, carestie, siccità e  pandemie,  segnandoli ed  offrendo loro, non pochi patimenti.

Gli Arbëri in oltre, si adoperarono e presero parte a tutti i movimenti di libertà, compresa l’unità della nascente Italia e le guerre che la segnarono all’inizio del secolo scorso.

Arrivarono agli anni settanta, le direttive per la tutela delle diversità culturali, prima della nascente Europa terminò con la legge 482/99 della Costituzione Italiana.

Nei primi anni del 2000 si diede avvio a tutto tondo, ad attività che avrebbero dovuto tutelare, attingendo risorse e direttive, secondo quanto sancito dall’art. tre e sei della costituzione, per la tutela della lingua Albanese, ripeto Albanese.

La legge  sancisce testualmente che:” la Repubblica tutela la lingua  e  la  cultura  delle popolazioni  Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il  Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo”.

La legge 482/99 “tutela la lingua Albanese”, perdonate la precisazione che a questo punto è d’obbligo, cosa centra la lingua Albanese, se essa è una forma moderna dell’antico ceppo, infatti, la lingua che i Katundë della Regione Storica, diffusamente usano dal XVI secolo, con il moderno Skipë, fatto d’inflessione, credenze, metrica e comportamento, “non ha nulla da condividere se non pochi sostantivi di radice”.

Chi ha scritto, la legge 482/99, perché non si è adoperato nell’allargare la prospettiva, anche, a quanto sancito nell’articolo nove della Costituzione Italiana, per dare completezza e cosa più urgente, sostituire la parola Albanese con Arbër, offrendo più forza e chiarezza applicativa alla legge di prima e di quella che deve venire, che tutelerebbe gli Arbër, il Paesaggio e le Cose, invece di tutelare la lingua moderna di un’Altro stato?.

Alla luce dei fatti citati, dai primi anni del secolo appena iniziato e sempre con più frammentazione ha visto incunearsi, la lingua albanese moderna, negli ambiti minoritari che con irruenza e se  dalla vigilia del regime di 482 avevano risposto alle avversità chiudendo porte, finestre e persino i sottoscala dove stavano le copre, da allora in poi tutto è cambiato.

Oggi ormai sono pochi cultori ad essere emarginati  da cantanti, ballerine e ogni sorta di attivista irrispettoso del disciplinare, che se da un lato allieta gli ignari osservatori della storia, dall’altra semina sulle pietre i pochi germogli rimasti della nostra storia.

Ormai le sfilate di deputati ed esperti che giungono in regione storica, hanno preso il sopravvento e si contano senza misura, tutti con rituali imperterriti non lasciano neanche il tempo che trovano, ma distruggono le poche cose rimaste.

Per questo si potrebbe affermare che la Regione Storica Diffusa degli Arbëreshë, per lo stato Albanese è paragonabile a un possedimento in terra italiana, per questo, deve essere marcato con le statue dell’ eroe Albanese,  anche se a ben vedere, noi siamo e saremo sempre Italiani.

Se questi signori che giungono bellicosi come i re vagano per le loro terre, è opportuno che prendano consapevolezza che devono essere rispettosi dello stato Italiano e meno arroganti verso gli arbëreshë, a cui devono volgere lo sguardo con  rispetto e devozione, in quanto rappresentano i tutori della radice identitaria delle terre poste  Albania.

All’interno della regione storica non si va poi cosi leggeri, anzi direi sul pesante perche la storia è diventato un arnese complementare, alle disponibilità di pochi illuminati o prescelti, giacche, si organizzano symposium immaginando che tutto sia eccellenza Arbër, poi quando si aprono i fascicoli, per annunciare, si rivelano neri quelli che dovevano essere eccellenza,  quindi, per evitare magre figure, si affiancano eccellenze che invece di essere di contorno, diventano il riferimento solido, ma ormai è troppo tardi la nera, mera e magra figura è passata.

Capita sin anche di tornare sui propri passi, ritenendo di aver sbagliato e aver raccontato eresie, esagerando impropriamente a una tipologia additiva a un’epoca di costruzione impropria, ma questo non toglie l’onta di mentire, raccontando per anni cose che non sono state mai un riferimento storico costruttivo per gli arbër, se non opere abusive del secolo scorso.

Questo calderone culturale, dove musica, cultura, costumi, architettura, vita sociale e storia, induce tutti a parlare di ogni cosa senza consapevolezza alcuna; il fenomeno ha raggiunto livelli insopportabili sin anche per la tempra indeformabile degli Arbër, noti per assorbire ogni forma di sopruso.

Se si volesse disegnare uno scenario di cosa sono oggi gli Arbër, lo si potrebbe paragonare a un albero che ha foglie e frutti senza eguali, ritenendo che tutto questo è opera del fusto che le mantiene in piedi e non delle sane radici che dalla terra estraggono e filtrano, le cose che poi per il sistema di trasporto e confronto con l’ambiente naturale restituisce eccellenze.

Sino a Quando non si da vita e forma a un gruppo di lavoro multidisciplinare, che non miri al mero concetto di lingua altra, o finire sotto i riflettori per diventare altri, ma a dell’insieme del genio importato dalle terre di radice, tutto terminerà in un nulla di fatto.

Notoriamente prima si definiscono i traguardi bisogna tracciare sulla carta le arche dell’antichità, studiando e analizzando le cose e i processi sociali che sono esclusiva della minoranza; solo dopo di ciò dare seguito a preventivo di spesa e al progetto possibile.

Continue vicende negative accompagnano la storia degli arbër, esse non devono essere intese come un caso fortuito; molto probabilmente sono le ire di Zeus, giacché Giorgio Castriota imprudentemente ne ha voluto assume irrispettosamente le sembianze, e tutto si potrà placare, se si adoperano le dovute misure di penitenza, recandosi in rigorosa penitenza dove tutto ebbe inizio con l’ordine del drago e non della capra che apparteneva ad altri.

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UN TEMPO ERA SCUOLA SOFIOTA OGGI CAMPO PER LUMINARIE

Protetto: UN TEMPO ERA SCUOLA SOFIOTA OGGI CAMPO PER LUMINARIE

Posted on 13 giugno 2022 by admin

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LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

LA REGOLA DEL CAOS “bëni valijet”

Posted on 31 maggio 2022 by admin

lA REGOLA DEL CAOS NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Facite ammuina è una frase della lingua napoletana che per gli Arbër suona come “Bëni Valijet” ovvero: “Facciamo Confusione”.

E’ l’invito a creare il disordine nel quale si possa mestare al fine di conseguire dei vantaggi di ordine storico e di confusione delle attività del passato non più nelle disponibilità di quanti si espongono a divulgare consuetudini.

L’espressione riporta a un comando che negli ultimi decenni è contenuto in ogni evento che vorrebe delineare le vicende storiche, della minoranza, sia in forza di consuetudini e specie quando si deve valorizzare le cose secondo gli addetti delegati dai Kuscetari ignari delle cose della storia

Ormai da decenni le note “Bëni Valijet” assumono connotazione, di bassi valore identitario, passate dal puro canto di genere, alle grida di altezzosi/e, secondo accordi e disaccordi qui elencati:

  • tutti quelli che stanno thë Shëshi, vanno al Bregù e ka kishia vadano the Kaliveth;
  • quelli che si trovano nei pressi della fontana di sotto devono andare a quella di sopra e viceversa;
  • gli operatori dei frantoi, corrano ai mulini e quelli dei mulini vadano a infornare le pizze;
  • tutti quelli che sono a casa devono uscire e vestire gli abiti di quelli che stanno fuori che ignudi corrono dentro;
  • quelli che stanno nel balcone devono entrare e quelli di dentro devono uscire fuori me Bërlocunë;
  • chi non ha niente da fare, vada qua e là a lavare con acqua e sapone shëshin;
  • chi non sa fare nulla, suoni una fisarmonica,un tamburo e/o un tamburello;
  • i vignaioli si rechino al museo e allestisca le vesti sui pali delle viti;
  • quelle che hanno i capelli che coprono gli occhi, ordinassero libri nella biblioteca;
  • chi è stonato strilli parole al vento o faccia rumori molesti;
  • chi sa ballare stia immobile, in un angolo a bere vino, sino all’ubriacatura:
  • chi non sa ballare salga sul palco ed emuli movenze di arem solo o accoppiato;
  • chi conosce le cose della storia resti nella capitale;
  • chi non conosce alcun argomento di storia nel parli con ignoranza alla Trapsa in forma di regine maritate;
  • chi conosce l’architettura la illustri oralmente agli ignari interessati di altra radice;
  • chi non la conosce la scruti in forma di fumetto disegnato sui muri, come ornamento murala;
  • i bambini irrequieti calpestino e deturpino i luoghi del sangue versato;
  • date da mangiare i partecipanti della processione, che alla fine arrivano ubriachi e sazi;
  • eliminate la sfera che sostiene la croce, fatene piramide blasfema;
  • chi non sa parlare di urbanistica da docente va sotto la casa di Jakar a e fa l’ubriaco;
  • chi la conosce la storia lasci prendere al Kuscëtarù gli appunti, così inizia a ragliare e mangiare biada;
  • chi è basso di ogni morale virtù, suoni la chitarra emulando persone alte:
  • chi è grossa e vuota di mente, attraversi con sgarbo la folla, facendosi largo con la grossa testa vota che fa eco;
  • chi non sa nulla apra dibattiti pubblici, speranzosa che dalla finestra aperta le arrivino nozioni buone;
  • chi sa tutto teniamolo dentro il limite del pascolo, tanto e risorsa inutile per la pletora ignara;
  • le spose le facciamo vestire dagli amanti che entrano dalle finestre e ne provano le virtù;
  • lo sposo lo veste il suo prediletto, con gonnelle sotto il ginocchio e scamiciata di merletto;
  • chi veste di sposa, sulla strada mostri la coda agli amici dello sposo;
  • chi veste di sposa, sull’altare mostri la ruota al prete;
  • ai bambini mettiamo come identificativo di purezza Bërlokun;
  • recatevi in chiesa a cantare lodi di stella bella al cielo dorato;
  • recatevi nella gjitonia per parlare del vicinato indigeno;
  • recatevi nel rione per parlare del limite della gjitonia;
  • fate tutti quello che non avete mai fatto nelle vita, oggi è il momento di dimostrare quello che non siete;

Andiamo avanti così fino all’ultimo, tutto il tempo cë “Bëni Valijet”, così gli sgomenti, spariranno per sempre della nostre sceneggiate e l’oblio coprirà finalmente con un sottile velo di pena, “la fossa  d’Arberia”.

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