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CON I SANTI NELLE PROCESSIONI NON SI FANNO INCHINI

Protetto: CON I SANTI NELLE PROCESSIONI NON SI FANNO INCHINI

Posted on 05 aprile 2017 by admin

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NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ”  Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno  XV, n. 3, pag. 7

Protetto: NON DUE GAMBE, MA “AGENZIE DELLA CONTINUITÀ” Riflessine sull’articolo di Giuseppe Chimisso in “Il Dia rio ” di Castrovillri, anno XV, n. 3, pag. 7

Posted on 17 marzo 2017 by admin

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TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

TROPPI CREDONO CHE SIA LA STORIA?

Posted on 07 marzo 2017 by admin

ClanNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Se dovessi dipingere l’arberia e il suo seguito di addomesticatori, gli darei il corpo di un vigoroso cavallo, inseguito lungo gli anfratti collinari della regione storica, da antiquari napoletani, palermitani, romani, baresi, potentini, leccesi, e cosentini, che cercano di sellarlo non col basto, ma con la sella turca.

Tuttavia viene da chiedersi quanto durerà questa innaturale, vergognosa e insana farsa, che vuole piegare questo antico ceppo linguistico per il volere di inadatti antiquari, allocati alla guida di fantomatiche strutture non per i meriti, ma per la loro appartenenza politica.

Quante cose rimangono ancora indelebili negli ambiti d’arbëria, quante sono in grado di conferire significato alla Regione storica Arbëreshë per sostenerla degnamente?

Quali sono state le frizioni culturali che hanno consumato la volontà di azione e di movimento che in altri tempi e presso altre generazioni tonificava il sistema intellettivo, sociale e morale del nocciolo duro d’arbëria?

Ad oggi non è più un dato che si possa ritenere noto, tuttavia rimane un inestimabile e corposo sistema arbëreshë che va ripreso, consolidato, ripristinato e tutelato con tutte le risorse cultural, sociali ed economiche possibili.

La nebbia sale imperterrita dalle gole della R.s.A. e avvolge ogni cosa, solo chi ha vissuto e vive la parte alta è in grado di conoscere quali saranno gli effetti negli anfratti del territorio.

Intanto da quei luoghi ormai privi di riferimento s’innalzano lamenti di chi non riesce più a distinguere il mare dalla spiaggia, come in un girone dantesco, vivono immaginando di essere in una terra che non c’è.

Quale è la misura quotidiana del patrimonio identitario che viene annienta giorno dopo giorno tra gli ingranaggi di questo secolo, smettiamo di distrarci dalle piante sempre verdi del vicino perché esse non portano frutti, ma solo illusione e la morte del ricordo.

È idoneo chiedersi, per questo, perché si lasciamo ignari praticanti di bottega, a cibarsi delle nostre radici, solo per il piacere effimero di emulare un domani che non ci appartiene.

Perché scambiare la metrica del canto con quello della musica, eppure un grande uomo d’arberia diceva: che nella battaglia infinita tra musica e canto, riteneva quest’ultima quale frutto originario.

Perché non diamo un più alto significato alla nostra consuetudine e come in altri secoli, raffigurati in forma di mari, fiumi, tempeste, sismi e fiamme?

È un eufemismo continuare a ritenere che la cultura è allocato nella mente di nonna Elisabetta, di zia Clementina o abbarbicata negli ambiti murari di una gjitonia che materia non è.

Se dovessimo dare una forma materica al secolo trascorso e quello in corso, non mi viene in mente nulla, se non il grigiore della cenere, che poi sono quello che resta delle radici identitarie bruciate.

Pochi sono i fiori che ancora restano integri, non facciamo che l’inverno (i litiri) li trovi impreparati, diamogli una possibilità e innalziamo solidi presidi (Arbëreshë) per far crescere queste rare piante, le uniche in grado di risvegliare a primavera i sensi di un’antica tradizione.

Non servono venti nuovi in arberia, “perché il vento è uno solo” soffia da est verso ovest e porta con sé profumi e voci rarissimi; solo un arbëreshë li può avvertire e alimentare gli antichi principi di fratellanza che da secoli si rivelano come i più caparbi in tutto il mediterraneo.

Non servono canti alloctoni in luoghi sacri, perché così facendo si violentano i principi della propria identità religiosa, un luogo che t’identifica non deve e non può essere violato da ideologie litirë, che poi è il tarlo che consuma e rende in polvere ogni cosa.

Ogni luogo ha un suo ruolo e gli uomini che li hanno ereditati hanno il dovere di preservarli e lasciarli intatti alle generazioni future, nessuno può arrogarsi il diritto dovere di insudiciarli o di modellarli a propria misura culturale, altrimenti si persegue la via della perdita dell’antica identità.

Non meritate di conoscere dove sono depositate le povere resta del Baffi, se il suo paese, non rispecchia il senso del suo sacrificio; quale nesso avrebbe illuminare un luogo che è lo specchio di una società malata e priva di ogni senso culturale, lo stesso che promuove abbellimenti ed eleva il buon nome di quegli avversari che furono causa della sua dipartita.

Solo una tutela mirata degli ambiti violentati, ormai da molti decenni, potrà restituire senso storico, ma ciò va fatto affidandosi a chi si adopera per restituire la continuità storica più aderente alla realtà, solo così il piccolo borgo avrà modo di acquisire quella veste idonea per accogliere le resta dell’illustre letterato.

La storia non si fa con gli episodi, non si fa con le favole, non si fa con i venti nuovi, non si fa con i discorsi nuovi; il vento come la storia arbëreshë è una sola e non servono personalismi locali a divulgarla, ma occorre impegno, dedizione, professionalità, serietà morale e culturale, quella che manca da oltre due secoli ed è stata in grado di rendere la capitale d’arberia ad un ammasso di episodi senza ne testa e ne coda, allo stesso modo delle province turche da cui sfuggimmo cinque secoli orsono.

Una è la madre E non va mai confusa con altra cosa! Essa va rispettata sempre nel bene e nel male, tuttavia, quand’anche la disperazione l’allontanasse dai suoi doveri, non dobbiamo avere dubbi sulla sua integrità di madre, in quanto i punti di vista dell’inesperienza modificano le immagini che percepiamo, specialmente se alimentate dalla luce del denaro e di tutte le belle cose materiali che ci sono offerte con lo scopo di distrarci persino dal malaffare paterno; un giorno capiremo, ma sarà troppo tardi!

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LE DUE GAMBE DELL’ARBERIA

LE DUE GAMBE DELL’ARBERIA

Posted on 20 febbraio 2017 by admin

LE DUE GAMBE DELL’ARBERIA2Bologna (di Giuseppe Chimisso) – Ho letto sabato 28 febbraio, la costituzione del consorzio UNIARB, che raccoglie realtà associative sperse nei territori dell’Arbëria e quindi esprimo pubblicamente gli auguri di positiva e feconda attività tesa afar vivere la nostra cultura.

Sono però a riaffermare a chiare lettere la necessità della costruzione di un progetto di alto valore politico per la rinascita dell’Arbëria e di quanto la caratterizza: recupero della lingua Arbrisht, della cultura religiosa bizantina, delle sue tradizioni e di tutto quel patrimonio immateriale (oltre che materiale) ancora esistente. Se vogliamo tentare di salvare la nostra Cultura, dobbiamo invertire la tendenza in essere e ribaltare le vecchie e trite logichefrazioniste che tendono al proprio ‘particulare’ per costruire i presupposti affinché i giovani non vadano più a cercare un futuro altrove, diversamente nel giro di questa generazione la Cultura Arbëreshë sarà possibile osservarla attraverso le teche di silenziosi musei; potrebbe divenire una cultura non più viva, ma del nostro passato…

Dobbiamo arrestare lo stato di fatto presente e cioè quello che definisco ‘l’etnocidio culturale silente‘ che opera a tenaglia con l’invasiva attività dei mass-media e d’altro canto con l’inarrestabile spopolamento (soprattutto dei giovani) dei paesi arberesh. E non solo…

Certo, un’opera titanica ci attende; c’è lo spazio e la necessità vitale per una grande iniziativa politica nel senso più ampio e nobile del termine che sappia raccogliere il meglio tra la popolazione arbëreshë, al di là degli schieramenti, delle fedi, delle visioni della società, dei partiti e delle associazioni, ma trasversale a tutti questi. Dobbiamo costruire un progetto che sposi la salvaguardia della Cultura Arbëreshë con lo sviluppo economico dei nostri territori; insomma costruire un Progettoper una Nuova Rilindja politico-culturale che inneschi un circuito virtuoso economico: èl’unicastrada.

La grande partita da giocare non è solo quella per la salvezza dell’Arbëria, che ci interessa in primis e per la quale scrivo, ma nello stesso tempo quello del ripristino della democrazia linguistica in questo Paese che pur avendo una Costituzione democratica, la tradisce quotidianamente purtroppo da troppi decenni. Non è un caso che tutte le minoranze linguistiche (tranne le tedesche del Tirolo e quelle Patois della Valle d’Aosta, ma queste ultime tutelate solo grazie ad accordi internazionali) vivono in condizioni di inferiorità linguistica, come fossero nei fatti delle colonie interne.

A questa ‘scommessa’  dobbiamo dare energia e tempo.

Spero che  questa ‘scommessa’ sia negli intenti di UNIARB, se non lo fosse, spero che lo sia presto.

Con la costituzione di UNIARB, dopo la F.A.A. (Federazione Associazioni Arbëreshë), dell’anno scorso, abbiamo le due gambe per fare cominciare a muovere l’Arbëria, prima timidamente e poi possibilmente a farla correre; importante è che si costruiscano rapporti di collaborazione e di competitività positiva e che i due organismi non divengano, per parafrasare il Manzoni, come i due polli che appesi e legati alle zampe, si beccano a vicenda (magari per un chicco di grano)mentre vengono portati nel paiolo. Il mio auspicio è che sia UNIARB che la F.A.A. non facciano la figura dei polli, altrimenti nel paiolo ci finisce l’Arbëria.

“Giuseppe Chimisso – Cittadino Onorario di Civita e Presidente Ass. Skanderbeg di Bologna”

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“SI GNË VASHES ARBËRESHË”

“SI GNË VASHES ARBËRESHË”

Posted on 24 settembre 2016 by admin

ghe-arberesh2eNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Quando rileggo “i trattati” gli avvenimenti, le vicissitudini che hanno portato l’arberia al rapido depauperamento del suo prezioso patrimonio culturale oltre che religioso, mi chiedo come mai non ci sia stato un controllore in grado di porre un freno per tracciare i limiti oltre i quali l’erba non poteva e si doveva brucare.

L’arberia avrebbe dovuto affidarsi all’acume che caratterizza, purtroppo, pochi dei suoi sapienti uomini per non finire imprigionata in quella gabbia dorata che le impedisce di vivere le primavere negate e per questo diffuse come valje.

La rassegnazione che si millanta con la frase “non è rimasto più nulla” rappresenta il paravento che si vuole immaginare per non far avvicinare nessuno a quel tesoro che rimane nelle disponibilità segrete degli imperterriti litiri.

Dovessi dipingere l’arberia oggi, rappresenterei “Gnë Vashes Arbëreshë” imprigionata in una gabbia dorata, nelle disponibilità esclusive “dell’orco” che l’ha rapita e nell’attesa che si abbrutisca la tiene coperta affinché nessuno possa apprezzare le sue eccellenze fisiche e morali.

I floridi e ricchi territori che sino al dopo guerra erano considerati un serbatoio di cultura solidamente connessa con gli ambiti paralleli, in quanto, luoghi di un miracolo linguistico/consuetudinario irripetibile, oggi, sono diventati i territori delle leggende e delle favole che non hanno ne senso e ne luogo per identificarsi.

Troppi progetti e atteggiamenti anomali hanno visto come teatro la Regione dov’è nata la nostra, “Vashes Arbëreshë” ciò nonostante non c’è stato un protagonista che ponesse dei limiti al continuo stravolgimento culturale che ha prodotto più danni di un cataclisma.

Se a ciò aggiungiamo tutti gli avventori figli della legislazione Italiana (il picco del cataclisma) assume valori esponenziali insostenibili, motivo per il quale è indispensabile non fare un passo in dietro o di lato, ma ritengo che sia opportuno, fermarsi e pianificare un progetto che dia fine alla sofferenza che si incute alla indifesa “ Vashes Arbëreshë” che intanto rimane relegata nella sua piccola gabbia d’orata in attesa di un domani migliore per lei e i propri figli.

È tempo che la primavera accolga “ Vashën Arbëreshë” si diffonda secondo l’antico rituale della “Sapienza” e non rimanga più nelle disponibilità clientelari della politica locale, dell’incapacità culturale di alcuni dipartimenti o addirittura di chi ha fondi cospicui da elargire privatamente.

Qui si tratta di individuare chi veramente ha le capacità di cogliere il valore culturale dell’arberia, solo queste figure private (forse anche istituzionali) sono in grado di dare continuità storica, senza costringere ad assumere all’indifesa “ Vashes Arbëreshë” ruoli più umili che non appartengono alla sua nobile ed antica origine.

Uno scenario a dir poco surreale dove si baratta tutto per un momento di gloria che non avrà mai un seguito, s’innestano fiori nel deserto, si danno libri a chi non ha modo di leggere, si scambia ogni cosa per un attimo di gloria e l’incoscienza arriva a un punto tale che si compongono canzoni e non si difendono i valori materiali e immateriali di agglomerati interi (canzoni per paesi).

Tutti tacciono l’attuarsi di questo dramma epocale, tutti ridono, ballano e cantano, denotando un dato fondamentale, ovvero, che non comprendono o forse non hanno mai saputo cosa dilapidano assumendo queste posizioni di accomodamento politico/sociale.

“ Gnë Vashes Arbëreshë” non si compra, non si porta sull’altare promettendo una vita dorata, per poi chiuderla in una gabbia, pur se dorata, coprirla agli occhi del mondo con la Zoghä perché gelosi, rifinire poi quest’ultima all’interno con spine che incutono, pena, sofferenza per farla piangere nel silenzio di quella preziosa gabbia; atteggiamento oltremodo deleterio.

Se non si è in grado di sentire i gemiti di dolore “thë Vasheses”, la passione che essa ha per diffondere tanta grazia e sapienza intorno a noi, quale futuro possiamo assicurare alle generazioni che verranno; chi di noi sarà in grado di aprire questa gabbia dorata, dove è racchiusa la parte migliore della tradizione e farla volare come una farfalla ha bisogno quando verrà primavera.

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LA PARABOLA DEI MINORITARI

LA PARABOLA DEI MINORITARI

Posted on 24 giugno 2016 by admin

La parabolaNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – La parabola differisce da una favola giacché espone i fatti con la personificazione dei fenomeni; essa rappresenta la similitudine più vicina alla realtà e restituisce le proporzioni di un racconto, li rende comprensibili verosimilmente in forme religiose o morali.

La forza della parabola è contenuta nella comparazione, senza il bisogno di ricercare l’identificazione dei singoli personaggi o delle azioni svolte.

Una parabola può raffigurare gli avvenimenti che vedono protagonisti amministratori, antiquari e venditori di fumo degli ambiti detti “minori”.

Il cui comportamenti, nella gestione di quanto posto nelle loro disponibilità, appare priva di ogni logica e coerenza storica, per questo si collocano ben distanti dal seminato del garbo e della modestia culturale.

Ai gestori inconsapevoli, è riconosciuto il ruolo di “galline dalle uova d’oro”, i quali vengono sistematicamente circuiti da rampanti cultori, che forti della posizione all’interno di benemeriti dipartimenti universitari, si recano nei piccoli “furiki”, millantando oro, incenso e mirra.

Il risultato di questo modus operandi, ormai consolidato, mira prevalentemente a elementi indefinibili d’ignota fattura, il cui culmine è rappresentato, sotto la luce dei riflettori dei mas media locali, dalla fatidica inaugurazione seguita dal convegno, il cui indicatori fondamentali sono due: il primo è l’apparire; il secondo, rendere poco chiari i contenuti del realizzato, per questo, l’uovo è ingurgitato dal cultore; il contenitore e il fumo resta alle galline.

Solo il gesto del taglio assume un ruolo, chiaramente negativo, perché innesca l’interruzione tra identità del passato, quella del presente e depauperano le radici per il futuro identitario.

L’atteggiamento ormai consolidato non rappresenta altro che la svolta secondo cui, la ricerca assume concetti a spettro molto prossimo al ieri; elementi di un passato troppo recente che non ha alcuna attinenza con le origini storiche di macroaree, è per questo intorbidisce rarissimi lasciti culturali per le nuove generazioni, compromettendo irreparabilmente la logica di rilancio degli stessi ambiti.

Un vecchio saggio del mio paese che abitualmente, nei lunghi pomeriggi di calura estiva, sedeva nei gradini del profferlo “the sheschi lemë letirit”, diceva: prima di manomettere ogni cosa, per renderla duratura, devi avere consapevolezza di come funziona e a cosa serve, altrimenti finirai per danneggiarla o dismetterla per sempre.

Contrariamente a questo principio, la gallina dalle uova d’oro, affidandosi a queste sterili o grigie figure, che pongono in essere incompiute vergognose, tutti avvolti dal mantello dalla funzione che rivestono,  di cui non hanno alcuna capacità operativa o di attuazione.

La storia dovrebbe dare certezze sulle vicende che hanno caratterizzato questi ambiti, i quali hanno impregnato il costruito, ma l’incapacità interpretativa e l’inadeguatezza culturale, non oso dire altro, di questi avvoltoi della finanza, ha reso tante volte labile la solidità degli ambiti, per cui occorre porre nelle disponibilità di gruppi multidisciplinari quanto ancora riesce a rimanere abbarbicato nei centri di questi borghi, altrimenti non ci sarà più tempo per un domani.

Bisogna intervenire subito, ricollocando ambiti, tradizioni e tutto ciò che caratterizza il territorio dei minori, da quelli indigeni seguendo una logica geografica che distingue almeno i meridiani dai paralleli.

Tutto quanto sul dato che anche se un centro è qualificato minore, i piccoli frammenti della sua storia gravitati entro il suo perimetro territoriale fanno parte di aree ben più ampie e rappresentano le  cerniere che sostengono avvenimenti, consuetudini, idioma e religioni della storia del globo.

Molti errori sono stati compiuti e per certi versi sostenuti nell’inconsapevolezza generale, ma una volta individuati e come incongruenze storiche, devono essere banditi pubblicamente come malevole, senza dover ricorrere alla consolidata nenia: che tanto nulla è certo e qualsiasi cosa è sempre idonea per attirare attenzione e sollevare l’indice di ascolto.

Questi non sono gli ambiti della televisione, questi sono gli ambiti della storia e chiedono rispetto, così come in chiesa un comportamento va mantenuto, anche gli ambiti minoritari devono essere considerati come un luogo sacro e nei luoghi sacri bestemmiare è un grave peccato.

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SANTA SOFIA D'EPIRO 2 MAGGIO 2016

Protetto: SANTA SOFIA D’EPIRO 2 MAGGIO 2016

Posted on 07 maggio 2016 by admin

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VALJE

VALJE

Posted on 10 aprile 2016 by admin

SAMSUNG CAMERA PICTURESNAPOLI (di Atanasio Pizzi) – Allocate nei versanti Est e Ovest della Manfriana, nel parco del Pollino, Civita e Frascineto sono due paesi Italo albanesi noti rispettivamente per la Gola del Raganello – Golja thë Raganelith e la Timpa del Corvo – Tìmpen e Korbith; all’interno della Regione Storica, tutelano il valore delle Valje, che, il martedì dopo Pasqua, riecheggia tra gli splendidi scenari del Dolce Dorme calabrese.

I due borghi seguono un percorso di tutela secondo punti di vista antitetici; mentre il primo accoglie nuove sonorità e associa alla metrica del canto suoni e vestizioni sempre più moderne; Frascineto rimane abbarbicata alla vecchia tradizione consuetudinaria del canto e delle caratterizzazioni tipiche.

Gli ambiti del “Dolce Dorme”, per i dissimili aspetti culturali, dinamici e statici, assumono, durante l’appuntamento secolare del Martedì di Pasqua, il ruolo di “Purpignera delle Essenze Culturali Arbëreshë” (vurvìnereth e arbëreshë) per questo è doveroso valorizzarle e mantenerle partecipate al fine di non perdere l’originario senso delle Valje.

E. Fortino, negli anni sessanta del secolo scorso, partecipando ad un convegno, sottolineava che: gli arbëreshë si rinnovano ogni volta che due o più  si incontrano e parlano conversando in lingua madre; Civita e Frascineto, rappresentano i palcoscenici naturali dove questa magia si ripete ogni anno e porta un gran numero di albanofoni a rendersi partecipi dell’evento, che con canti è danze confermano l’appartenenza ad un etnia, che sente e vede la fratellanza ritrovata.

Il motivo sociale che ha generato la manifestazione, in ottica odierna, appare irrazionale e a dir poco paradossale, ma se analizzato secondo le dinamiche dei trascorsi arbëreshë, si aprono scenari che trovano logica collocazione negli ambiti di minoranza.

La testimonianza che lega le Valje al secolare appuntamento di Pasqua nel Pollino è resa nel paragrafo “Etimologia” del 1835 da S. Basta, il dottore nel suo trattato relativo a Civita riporta quanto segue: “É tradizione tra noi, che i nostri padri avessero edificato i primi abituri in due punti diversi, e la vetustà delle case esistenti nel Piano del Magazzino, e nell’ estremità superiore del paese ci persuadono a fa­vore. Esistevano in questi due piccoli villaggi due diver­se famiglie condizionate, ambedue di cognome Bellusci; dominate dallo spirito di ostilità, 1′ influenza che esse estendevano sui loro coabitanti manteneva una viva dissensione, e coglievano l’occasione nei tre giorni di Pa­squa, quando solennizzavano i Piekisit (vecchi), per ve­nire a dei fatti d’arme, e sfogare i loro rancori; le cau­se produttrici dell’odio nei Bellusci, che indussero la co­lonia a scindersi in due partiti, hanno dovuto essere va­levoli anche a dare una diversa denominazione ai rioni che abitavano”.

Dei tanti capitoli che raccontano lo stato del paese arbëreshe è interessante ciò che viene riportato nella disamina dei “ Tre giorni di Pasqua”: “nel dopo pranzo di Domenica, Lunedì e Martedì a Pasqua varie compagnie di giovani, hanno consuetudine di riunirsi e vestiti alla foggia orientale, con turbanti in testa, con spade levate in alto e con bandiere, “vanno cantando i fatti guerreschi del Eroe di Croia”.

Le donne nella ridda unite cantando ancor esse canzoni nazionali ed accrescono al diletto ai curiosi dei paesi vicini, che corrono a divertirsi.

È tradizione esser state stabilite queste feste per avere nel decorso degli anni una memoria del natio paese,che imperiose circostanze costrinsero ad abbandonare.

Ci duole non poter qui riportare questi canti popolari che il tempo vorace a ridotto in frazioni sconnesse, e siamo assai dolenti di veder cadere in disuso le patrie costumanze.

Le manifestazioni folk in senso generale hanno perso la direzione per il quale furono realizzate, non conservano più l’originaria radice che affondava sia nel canto che nelle melodie ad esse direttamente connesse”.

I due trafiletti storici  riportati da S. Basta con garbo, sottolineano due momenti distinti della storia arbëreshë, il primo legato a esigenze territoriali dei primi insediamenti, mentre il secondo rappresenta la riproposizione della tradizione arbëreshë e confermare la metrica con la quale si tramanda il disciplinare linguistico – consuetudinario.

Si può, quindi, presupporre senza commettere errori, che l’origine nasca con il racconto etimologico e poi con il tempo, l’esigenza di tramandare le proprie origini all’interno della Regione Storica, abbia assunto valore folcloristico nei Tre giorni di Pasqua, in essi sonno riversati gli ingredienti tipici della minoranza, il canto, i costumi, la consuetudine, il valore della fratellanza, la confermare l’integrazione tra arbëreshë e indigeni, anche se già dal XV secolo, la nota del Basta termina con il rammarico di un processo che iniziava deteriorasi.

E. Koliqi, attribuisce alle Valje un ruolo identificativo per tutti i discendenti della diaspora balcanica ben preciso, in quanto, i canti tradizionali, narrano la lotta, contro il turco invasore, il dolore per quanto dovettero abbandonare la terra natia, i solidi sentimenti di fratellanza, l’ammira­zione per i guerrieri che li difesero, in altre parole la storia degli arbëreshë.

Non avendo avuto agli Albanesi una letteratura scritta, per le vicende storiche ben note, favole, racconti, proverbi, detti e canti in specie, divennero l’unico mezzo per tramandare i sentimenti, gli affetti e la storia.

Gli arbëreshë amano i canti, perché rappresentano l’enciclo­pedia storica, morale, civile, patriottica, che conserva attraverso la metrica del canto, nella radice originaria.

Sono canti amorosi, nuziali, natalizi, funebri, morali, giocosi, satirici, storici, che, diffusi per i monti e per i piani, nei villaggi e nelle città, tra i pa­stori e tra i contadini, tra i notabili, tra i vassalli e formano il solido collante per il popolo arberi.

Esse rappresentano la parola d’ordine che unisce tutte le comunità albanofone sparse in ogni dove, il codice in terra straniera, in mezzo al caos etnico, al cosmopolitismo assimilatore delle immense metropoli, sono i ricordi, le memorie storiche degli Albanesi, che per mezzo di questi canti mantengono, vivo il culto della lingua e delle costumanze della patria d’origine, vivendo da secoli tra popolazioni diverse, essendo gli arbëreshë cittadini della seconda patria.

Dalla nascita alla dipartita di ogni arbëreshë, esiste una svariatissima quantità di manifestazioni canore, i conviti sono allietati dagli improvvisatori di versi, le feste nuziali si svolgono anche oggi, benché meno che nel passato, come un rito dalle fasi regolate da rigorose e minuziose tradizioni, con canti per ognuna di queste fasi.

Il canto delle Valje a tre momenti salienti e si svolgono così come segue: il coro delle donne viene avanti, cantando il primo distico; quando questo è terminato, si fa avanti il coro degli uomini, cantando il secondo e alla fine un intreccio di tonalità mette in relazione i due gruppi che vogliono suggellare la fratellanza dei generi.

Essendo l’arbëreshë, una lingua che si tramanda oralmente, il canto rappresenta la metrica attraverso cui si lascia in eredità il senso linguistico.

Esse divengono il momento di massima espressione linguistica e consuetudinaria, matrimoni, lavoro nei campi, spogliatura dei prodotti agrari, le festività, i momenti di giubilo e quelli del trapasso sono Valje.

I temi spaziano in ogni ambito della vita e delle vicende che hanno visto gli arbër protagonisti, esse sono un espressione identitaria senza luogo e ne tempo in quanto esprimono le vicende passate presenti e future.

Lo stesso Vincenzo Torelli nella sua carriera giornalistica fu ispirato da questo modo di portare notizie e creò una sorta di battaglia tra il canto e la musica, ritenendo che la vera espressione artistica era racchiusa nel canto mentre la musica era solo un accessorio.

Del canto albanofono riferisce anche Pasquale Scura, ponendo in evidenza le doti canore innate degli arbëreshë, le innumerevoli cantate che caratterizzavano i luoghi d’insediamento e le attività agricole, silvicole e pastorali, canto come forza trainante con la quale s’immaginava il ritorno nella terra d’origine rispettosi delle antiche tradizioni.

Questi sono i motivi per i quali le valje, divengono, il momento della massima espressione culturale albanofona, Civita e Frascineto rappresentano le pietre miliari dell’arberia,segnano il percorso antico, tuttavia negli ambiti Civitioti confermano quella preoccupazione di Serafino Basta che oggi è diventata certezza.

Sonorità canore accompagnano o addirittura sostituite con suoni di tarante, tarantelle e suoni Albanesi acquisiti dopo la diaspora dagli invasori turchi, cadenze e movenze per le quali gli arbëreshë preferirono l’esilio, oggi si confondono in quella manifestazione che dovrebbe darci la certezza della nostra identità, la stessa che i nostri avi proteggevano a costo di sacrifici e patimenti.

A Frascineto la manifestazione nasce sicuramente da simili avvenimenti, ma rispettosa dell’antico senso socio culturale e rimane radicata ancora alla valorizzazione della metrica del canto, anche se poi le cantate non hanno una logica per la quale si possa giungere a una caratterizzazione dell’evento, per cui le esternazioni e le motivazioni, rese ai midia non chiariscono in maniera univoca il senso storico linguistico delle Valje, vurvìnari arbëreshëvet.

Mi rivolgo ai Sindaci e agli Organizzatori di queste fondamentali manifestazioni, ricordando che il tema delle Valja, si rispetta  con i costumi della modestia  culturale, questo è il modo  di fare  tutela per la comunità albanofona intera; valorizzare le Valje diffondendo essenze originarie, fa si che tornando a casa, siamo  sicuri di aver fatto un ottimo lavoro, altrimenti si promuovono, sotto mentite spoglie, le tarantelle e i balli turchi, che sono altra cosa.

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I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Protetto: I PATTI DELLA SCRITTURA, LA VOLUBILITÀ CONSUETUDINARIA E LE CERTEZZE ARCHITETTONICHE

Posted on 22 marzo 2016 by admin

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GRECI - KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

Protetto: GRECI – KATUND “Apertura di un nuovo spazio di fatto”

Posted on 21 febbraio 2016 by admin

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