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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG  (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

Posted on 30 agosto 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si appresta a restaurare monumenti l’unica prospettiva indispensabile dove incuria degrado o distruzione abbiano piegato la resilienza di un manufatto o del circoscritto, bisogna avvalersi delle raccomandazioni elencate nella “Carta di Atene dal 1931” dove si consiglia il rispetto dell’opera “storica ed artistica del passato”, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.

A tal fine dobbiamo sempre dire quello che guardiamo, ma cosa più essenziale, dire cosa vediamo; come i fatti, le cose con protagonisti i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.

Nello specifico la tutela, diversamente come suggerito dalla carta di Atene, in tutte le ventuno macro aree della R.s.d.s.A., è iniziata male, proseguita peggio, terminata con l’operato degli “esposti”, tutto questo, ad oggi porta a ritenere sia improrogabile allestire una istituzione, che redarguisca, tutti i pretendenti dell’ormai, storico pellegrinare in cerca della discendenza più nobile o illustre.

Cadere in errore al giorno d’oggi e molto semplice, ma se a farlo sono quanti preposti al rispetto dei luoghi, sin anche nei confronti del più distratto o disinformato ascoltatore, si fa violenza non verso chi ascolta, ma si danneggia la prospettiva di questi luoghi, vissuti dai popoli più silenziosi, e più operosi del vecchio continente.

In tutto le persone che hanno versato lacrime di sangue, per far germogliare l’albero della propria identità, senza nulla scrivere o dipingere in alcuna superfice elevata per viverci segnando epoche.

Il fatto che la minoranza non abbia mai fatto uso alcun tipo di scrittura lettura, o grafici di memoria, non è un caso, infatti l’innocente discendenza, ascoltava e apprendeva il parlato dal solidissimo governo delle donne, lo stesso che ad oggi nessun ricercatore ha studiato compiutamente e, questo denota quanta poca esperienza o sperimentazione, sia stata diffusa per fare luce relativamente ai trascorsi di questi vissuti ambiti.

Un protocollo mai allestito da alcun istituto o istituzioni, i quali hanno operato con metodologie a dir poco inopportune e, vorrebbero aggiungere cose senza titolo, attingendo dagli esagerati modernismi Albanesi, terminando nella trincea linguistica, quando l’errore è palese, sin anche con lo scudo circolare, con incisa la frase: da noi si dice così; (nà thòmj këshëtù)

Nasce così l’idiosincrasia; ovvero, l’avversione, e la ripugnanza verso determinati temi, termini e oggetti, per lo più inesistenti, incoerenti, anzi a dir poco diagonali alle cose della R.s.d.s.A., sotto ogni pinto di vista.

Certo che definire la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë con l’inadatto, sostantivo “Arberia”, assume una visione geografica, a dir poco inopportuna, perché notoriamente gli addetti, per darsi una valenza di titolo mai avuto con merito, ma per copiature riportate secondo cui la minoranza provenire del sud della antica terra di origine.

Definendo così la provenienza della minoranza dal sud della antica terra di origine, in quanto qui secondo alcuni risiedeva la nobiltà culturale fatta di echi sopraggiunti dalla Grecia, ciò nonostante i protocolli della geografia storica, riconoscano, tale sostantivo, ovvero Arberia, le terre circoscritte del centro e del nord della antica terra di origine, oggi Albania.

Ciò nonostante, viene sottovalutato un dato fondamentale, ovvero, se una regione subisce le angherie di un instabile invasore, come è possibile che ad essere penalizzate o sottoposti a misure di sottomissione morale e religiosa, siano solo le popolazioni del sud e non uniformemente minacciate dell’intera nazione, che senso avrebbe e quale teoria privilegia alcune religioni, dato che di questo si trattava, infatti chi invade non rispettava niente e nessuno dove si trova o dove si colloca e con cosa?

Se il tema poi si espande alla definizione e il comune parlare dei centri abitati rielaborati ed elevati secondo le necessità tipiche degli arbëreşë, si apre infatti, una violenta tormenta di farina senza precedenti.

Diversamente dai valori sociali e formali contenuti negli innalzati e i sistemi abitativi, germanofoni o medioevali, dirsi vogli, ritenuti simili, uguali o equipollenti al modello di città aperta degli Arbëreşë.

Dato per certo che i Katundë, sono il modello innovativo che non ha eguali, e pur se i suoi innalzati nascono sei secoli orsono, possono essere considerati il germoglio delle odierne città metropolitane, infatti essi sono una rappresentazione di sistemi aperti di Iunctura urbana, dove, i quattro rioni tipici, rispettivamente: Karelletë, Chishia, Bregù e Sheshi; sono le tappe del percorso storico evolutivo di una radice, che si sviluppa e sostiene nel lungo tempo, in tutto, il solido fusto moderno da cui sono nati rami e fioriture consone.

Chiunque si appresta a recarsi per illustrare o presentare gli ambiti di un Katundë, appellando “Borgo Arbëreşë”, si trasforma in un viandante comune, senza meta specifica; come fanno quanti entrano in una chiesa e, invece di fare la croce, vi accedono rinnegando credenza, storia e luce.

Soto il puro aspetto Storico, Urbanistico e Architettonico, un Katundë e un Borgo sono antitetici e perfettamente contrari, perpendicolari diagonali, comunque mai paralleli:

  • Un Katundë, tradotto letteralmente, vuol dire luogo di confronto, lugo di movimento operoso: Ka e Tundë; esso rappresenta l’uguaglianza sociale senza vincoli di un determinato gruppo indigeno a cui gli Arbëreşë si affiancano, per la crescita del luogo e del suo agro. In tutto, forma urbana o patto di iunctura familiare solidale, priva di prevaricazioni, di genere o di gruppi organizzati e tutti uniti esprimono vicinanza solidale di un ben identificato luogo aperto e accogliente le cose dell’agro.
  • Il Borgo, diversamente, rappresenta l’espressione sociale, piramidale, la città chiusa avvolta su se sessa, non contempla uguaglianza di genere, perché piramidale società ellittica, con apposte mura, fossati acquitrinosi e, porte chiuse.

Di queste quatto colonne che fanno la trama storica evolutiva di un centro antico Arbëreşë, ovvero di un Katundë, si potrebbe allargare il tema e farla diventare una vera e propria diplomatica, per l’uso improprio che si fa nel divulgare i il sistema sociale distribuito nei rioni: “Sheshë in Arbëreşë”.

Il sostantivo comunemente è presentato come una piazzetta circolare allivellata, dove si aprono le poste di un numero imprecisato di ingressi privati delle storiche Kallive o Katoj.

Questa una visione a dir poco inopportuna, la cui radice nasce dai sessantottini, che leggevano i giornaletti di Capitan Miki o il Grande Blek, dove in genere le illustrazioni di questi suggeritori delle cose Americane, disegnavano le capanne degli indiani o gli scenari di immaginario, nello spazio circoscritto dalle capanne con pelli di bufalo.

Tornando alle cose, i fatti, i bisogni e le esigenze del vecchio continente, di cui noi Arbëreşë siamo parte essenziale dal nel XV secolo e, in questa breve diplomatica si cerca di essere professionisti maturi, non adolescenti in cerca di avventure di leggenda, specie sulla scorta di risorse pubbliche che non hanno riverbero e, non superarono il circoscritto della storica edicola di Nonino.

Per riparare a questa deformata storica, del protocollo Arbëreşë qui si vuole rendere chiaro, completo, indivisibile e indeformabile, il significato del sostantivo “Sheshë”.

Specie dopo quando esposto da quanti qui si sono recati a stendere themi di laurea, senza un relatore che avesse idea, della storica parlata della R.s.d.s.A. e, mi riferisco a quanto appreso ascoltando come si faceva un tempo, acquisendo fatti e cose dall’orecchio, e non leggendo confuse alfabetari o riversi vocabolari, con lo strumento occhio, l’antico metodo per divulgare sapere.

Per questo sia ben chiaro a tutti voi, viandanti distratti, compresi quanto non trovarono agio e notorietà, nelle frazioni di origine e, qui si sono insediati per fare danno, immaginando di avere gloria impossibile, a imitazione di quanti certi che il popolo fosse ignorante e sempre pronto a credere alle cose, diffuse con metodo dai regnati.

Lo “Sheshë” senza affanni non è; uno spiazzo dove affacciano un numero imprecisato delle porte di casa; in quanto la parola, di radice antica, vuole indicare un sistema di “Iunctura familiare solido e indivisibili” ogni volta che viene organizzato e sostenuto; esso si compone: di case che si sviluppano a ridosso di Rruhat articolate, su cui affacciano gli accessi di porte gemellate a finestrelle, (dal forte valore strategico) archi di misura e metrica, di luogo, Scalinate, vicoli ciechi e orti botanici, in tutto un componimento di sostenibilità e difesa senza mura perimetrali, se non quelle dei Katoj familiari sempre aperti.

Se il modello esposto vi dovesse creare pena linguistica, di titolo e merito, recatevi nei centri antichi di un Katundë della R.s.d.s.A., non da individui supponenti e imparati, ma attenti ascoltatori dello stridulo dei cinque sensi, che ognuno di noi possiede, ma mi raccomando non andate togati perché i cinque sensi non si attivano!

Adesso passiamo a un altro argomento ovvero, “I Musei”: essi iniziato ad essere articolati, con compilazioni di libero dire locale, senza avere una stratificazione che li leghi alla storia del luogo o della macro area relativa, specie nel percorso che univa casa e chiesa, per il proseguimento della specie Arbëreşë.

Il Costume in questi ambiti, diventa indispensabile protocollo, l’unico in grado di tracciare il percorso evolutivo della minoranza, anche se comunemente è stato sottoposto a studio per opera e misura di campanili, tutti articolati in funzione di manifestazioni utili a rendere primi, i dispensatori di turno, oggi di Calabria Citra, domani di quello Ultra e così via, via per decenni, senza mai smettere di vagare e rinforzare gli inutili principi, terminati nell’essere stai ospiti di biblioteche ora di Barcellona, domani di Parigi, dopodomani di Madrid, Valenzia e Monaco, Venezia, Firenze e così via sempre, ramenghi e fuori dal circoscritto del Collegio Corsini dove è nato.

È dalla fine degli anni settanta, del secolo scorso che in maniera a dir poco gratuita, raccogliere vesti, attrezzi e ogni sorta di elemento che vorrebbe fare memoria, in circoscritti di elevato impropri e, senza radice linguistica sono appellati “Musé”.

Una idiomatica deriva che calpesta il parlato Arbëreşë, lo stesso che vorrebbe fosse appellato con radice del parlato in: “Loku menditë”o “Ku mhbami mendë”.

Un sistema difforme, disarticolato o confusione che non fa certo museo antropologico, delle arti e del costume, quest’ultimo, nello specifico è, presentato in maniera a dir poco inopportuna, se non ridicola, esponendo in pubblica piazza la parte più intima della vestizione, assieme a quella più infima e vile indossato da qualche decennio come blasone nobile nel momento del “si” specie sull’altare, davanti al testimone celeste.

Il tutto con l’apposizione pubblica del primo concetto: Bhërlocunë, e il secondo atto Vàndèrenë, il tutto poi  contornato dal voler rendere la cosa, ancora più penosa, con la zògha a modo di ruota o di coda, nella pubblica via e, addirittura in chiesa sull’altare.

Il museo per gli addetti titolati della R.s.d.s.A. è considerato mera raccolta di elementi disarticolati, un’incompiuta di tempo fatti e cose, che diventano mercato domenicale o rionale li disposto, per attendere Kopizènë, e pronte ad essere frantumate e rese patrimonio senza sudore, per i raccoglitori di polvere locale.

Altro argomento di seminato fatuo sono le Inopportune, “Vallje di Scanderbeg”, infatti il soprannome, rievocando e sottolineando la sua appartenenza all’epoca mussulmana, non certo il tempo in cui fu eroe Arbëreşë, anche se comunemente in tutti i centri storici senza misura, si rievocano dal giorno del Termine di memoria e, in estate Arbëreşë queste esternazioni, sono e rappresentano la memoria del passaggio generazionale del parlato.

Intanto con la dicitura di “Vallje di Scanderbeg”, vorrebbero rievocare una giornata di memoria per una epica battaglia, che vide Giorgio Castriota sterminare gli avversari e, per le tante vittime stese inermi, conferma della vittoria, lui che all’epoca era un cristiano praticante, iniziava, con i suoi sottoposti a ballare e cantare, sopra le resta degli avversari inermi, che giacevano in quelle distesa, di corpi senza vita.

Certo che la formazione storica e culturale denota carenze non di poco conto, anche perché, solo quanti non adeguatamente formati ed attenti, promuovono queta figura con le effigi dei Turchi Selgiuchidi, e dei capostipiti Beg.

Di questo ci lasciava notizie anche Giovanni da Fiore, il quale, quando ebbe modo fare memoria, scriveva; Giorgio Castriota, comunemente appellato “Scanderbeg”.

E’ un altro segnale di memoria ereditiamo la toponomastica di Santa Sofia Terra, dove la strada che unisce l’antica chiesa Bizantina del IX secolo, con quella nata Latina del XVII secolo pota a memoria, “Via Castriota”.

Per concludere le “Vallje”, non sono altro che una prova generale dell’avvenuto lascito del parlato e, vuole essere confermato con Canti di genere e Movenze del corpo, per ricordare e sancire il passaggio tra generazioni; è questi non sono altro che i concetti basilari della storia delle comunicazioni.

Relativamente alle attività di memoria delle consuetudini la credenza, la lingua e il costume, si è sempre preso di mira attrezzi, costumi e null’altro al fine di musealizzarle, contornati dalle cose più inopportune e senza logica museale tra di esse.

L’inadeguatezza degli addetti poi ha fatto il resto, dal punto di vista del concetto Museo, verso il costume e gli attrezzi utili a delineare la risalita dell’economia, secondo i dettami dell’antropologia, ed è per questo che sono stati prodotti errori e manomissioni molto pericolose alla memoria dello storico protocollo, in essi racchiuso e, si come ricoperti di polvere e fluidi scuri, non sono oggi più leggibili nei loro contenuti di tempo.

Vedere ascoltare le attività antropologiche riassunte tutte, con le cose più comode e semplici e, interpretate, in maniera povera/semplice sono il percorso condiviso con i tempi e le pieghe della storia che non è mai stata tale, proscrivere il contenuto è nostro obbligo, perché è bastato essere muniti di una “Singer serie Sfinge del 1926”, quest’ultima la data baricentrica delle vesti femminili Arbëreşë che non vanno oltre il tempo della Sposa, la Regina del fuoco, la Vedova e  la Vedova incerta.

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BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË  (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

Posted on 14 agosto 2024 by admin

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NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë sono, centri antichi colmi di consuetudini, genio locale e sapienza, essi alimentarono, diedero agio e solidità sociale alla regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë:

La storia ne conta più di cento, tutti elevati secondo dinamiche in sintonia armonica delle salutari colline del sud Italia; qui formarono insieme di genio costruito e, assumendo il ruolo di culla d’idioma, credenza e consuetudini, indispensabili all’uguaglianza sociale dei generi che compongono questa popolazione furono preferiti ad altri.

In tutto luoghi di iunctura familiare, colmi di fascino, storia e parlato; tutti fondati, secondo i principi di genio parallelo, fraternamente immersi negli ambiti offerti dalla natura, la stessa che affascinata dalle gesta rispettose di queste genti, li accolse volutamente in ogni dove, senza mai interporre soluzioni di continuità estrema.

Crescere all’interno di un paese arbëreşë e come fare un lungo e benefico sogno, la differenza che distingue i fortunati al risveglio, sono i ricordi che rimangono impresse nella memoria del vissuto in questa parentesi benefica rigenerante.

L’enunciato vuole rendere merito al dato che non basta vivere e crescere in un ambito locale così antico, come i Katundë arbëreşë, per annodare pieghe sufficienti del modello consuetudinario più raffinato del mediterraneo, infatti tutti notoriamente sognano ma pochi ricordano, e sanno fare tesoro di questo ameno viaggio naturale.

Notoriamente ad occuparsi della tutela dei Katundë sono stati filologi, antropologi, storici di età antica medioevale e moderna, i sognatori prediletti di epoche, fatti e cose dei Katundë, peccato che di quei sogni non essendo parlanti, non hanno saputo partecipare e condividere cose con glia attori principali e al risvegli appellarli impropriamente borghi, o terminare che tutto l’apparato storico di genio di cui sono stati inermi spettatori, si possa risolvere, nell’aver individuato una lingua altra per appellarla Arberia, che è puro astrattismo mentale e neanche principio o fine di un sogno.

Notoriamente l’etnologia è una disciplina che vorrebbe comprendere le singole società, i loro modelli di vita e di pensiero, per poi, mettere a confronto le varie società facendo emergere somiglianze e differenze.

Ma da questo arrivare all’enunciato che le cose del passato, siccome vetuste, non hanno senso e vanno dismesse, è una pena che non ha un termine di decenza

Se poi il campo lo allarghiamo sull’insegnamento per le nuove generazioni locali parlando e trattando l’argomento come una lingua diversa, perché più moderna o al passo con i tempi, si cade nel campo dell’astratto e precipitiamo in un dirupo nero che non trova memoria in nessun ragionevole sogno.

Infatti non si tratta di offrire solo ed esclusivamente regole, costruzioni e quindi non è solo uno strumento linguistico che non trova una radice plausibile verso chi lo deve apprendere ed applicare.

Vero è che una persona che possiede uno strumento linguistico deve anche poterlo contestualizzare e riconoscere in quello specifico luogo di sogno.

Il dato nasce dal fatto che una lingua e una cultura si influenzano vicendevolmente, perché e lo strumento naturale e sonoro usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi dietro c’è una cultura di riverbero locale, che fa da cassa armonica a tale strumento.

Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza considerare lo strumento linguistico e viene descritta attraverso quest’ultimo.

Possiamo affermare scientificamente che esiste un binomio lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto locale sempre vivo.

Questa breve trattazione vuole sottoporre all’attenzione della numerosa platea di trattatisti storici costumisti, clerici che dicono di aver saputo sognare cose in Arbëreşë.

Perché come sottolineato da principio sopra citato, non tutti al risveglio ricordano e sanno interpretare il vissuto in sogno, a tale scopo e bene ricordare loro che esistono sognatori di pensiero più titolati e meno influenzabili al risveglio in queste culle arbëresşë.

Dove sagge madri, le stesse che storicamente fecero e sostenevano il governo delle donne sapevano, come depositare i figli stanchi e farli addormentare in quelle culle di legno che ondeggiando al ritmo di quelle nenie, cantate con raffinate melodie vocali, aprivano gli scenari di sogno dei bambini buoni, gli stessi che poi adulti lì in quei manufatti, violati dai non sognatori, i quali dopo decenni non vedono e non sentono depositato il cuore dei buoni sognatori.

La mia culla dondolava facilmente e non cigolava, non aveva difetti di sorta era una fortezza aperta dove solo le mani sapienti di una madre del governo delle donne, potevano accedervi con delicatezza e amore verso il figlio, mai nessuno ha violato la culla, anche se non aveva mura ed era sollevata come un Katundë su una collina.

Per questo nessun bambino di buoni sogni, ha mai sognato o pensato di considerare il luogo del sogno, alla pari di un borgo, in quanto lo hanno sempre considerato, come un luogo sacro puro, religioso, come lo sono l’acropoli di Atene per Atena, Partenope con Napoli, o Roma per i due figli adagiati, vicino al fiume dove sognare.

Per concludere e terminare con un forte sogno di credenza va ribadito come ogni Katundë come la “Terre di Sofia” sono luoghi che nascono con un riferimento primo di credenza e, non sono luoghi atei come lo furono quelli senza sogno, denominati Borgo.

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LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

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LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

Posted on 10 agosto 2024 by admin

112388676NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per raccontare raffigurare o tracciare momenti epici di un determinato luogo, bisogna averli vissuto o almeno, partecipare o essere parte attiva nei momenti topici, di un ben determinato ambito, altrimenti si compromette definitivamente la memoria, oggi condotta in malo modo in quella identificata Terra a termine.

Cosi come depositare effigi di ironica memoria moderna, senza senso, e privi dei minimali principi di educazione, la stessa che finisce per violentare pesantemente quei luoghi dove la storia, più sanguinaria ha avuto luogo, facendo cosi piangere lacrime di sangue, alle madri lì in preghiera perenne.

La memoria storica locale, come sempre avviene quando ad essere coinvolte sono le alte sfere, riporta sempre alla insignificante domestica Bertina, ma tutti noi che conosciamo la storia sappiamo bene che essa fu solo un capo espiatore, della plebe a cui addossare la violenta piega storica.

Purtroppo, al giorno d’oggi essere “Bertinë” è diventata un adempimento di quanti siedono negli scanni decisionali, al maschile e al femminile, definendo così da qualche anno a questa parte, anche percorsi di termine storico senza precedenti.

In tutto una raffigurazione trasversale, alle ironie coerenti di Banksy e, purtroppo, in questa foresta di incoscienza storica, violentano prospettive, offendono personaggi e devastano figure locali, le stesse che dettero la vita, per una giusta e idonea dignità locale, mai allo stato delle cose raggiunta.

Oggi per vedere “Bertina” con i suoi panni o stracci dirsi vogli basta attendere una qualsiasi manifestazione ed essa appare sottoforma di sposa senza marito, Cattedratico senza un palco, banditore senza offerte, viandante senza meta e tutto questo accade perché le istituzioni della nostra Terra, siccome poco attente o maliziosamente hanno taciuto le cose della storia, hanno dato luogo a mendaci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri, provenienti dalle ische.

Questi ultimi da diversi anzi troppi decenni, fuggendo le nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade umide, non han potuto altrove trovare agio, sanità, quiete e, sotto il nostro amenissimo clima con la protezione di neri locali, che non sono fra le migliori che onorano il loco Terra.

Sono tutti pronti a compromettere il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria e, allo stato delle cose si rende necessario un libro che in forma di manuale ne metta con chiara parsimonia in vedute e trattazioni, lo stato fisico e morale, di questi gloriosi ambiti della nostra storia.

Il fine vuole che anche uno svagato lettore che voglia solo deliziarsi di materia, prospettive e curiosità, sia costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale e trovare nello stesso tempo quelle notizie che in una terra, come quella di Sofia, rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole.

Se tale scopo giunge a conseguirsi col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che sino ad oggi non sa ancora leggere e collocare le cose della propria storia, nel più idoneo e giusto solco per germogliare storia vera e non racconto o tradimento come era uso fare “Bertina”.

Oggi quante vestono bambine con la prova di gravidanza appesa al collo in abiti da sposa, ballano sostenendo la ruota o la coda, ancheggiano, ruotano in non rispetto del consorte, tengono il giacchino clerico lontano dal seno, sollevano le braccia al cielo, traducono tutto con l’essere, diventare e fare la “Bertina”.

In tutto la rappresentazione più degenere possibile mai in nessuna epoca immaginata, infatti se lei “Bertina” tradì il Vescovo in quel vicolo prima del granaio, aveva a suo favore l’attenuante che non conoscesse le cose, chi va con stoglie per tradire se stessa e la sua discendenza tutta, non ha attenuanti perché da decenni sono redarguite e invitate alla ragione, nell’indossare quel protocollo di vestizione.

A tal fine va ribadito un principio sacro che fa parte del protocollo del progettare, specie nei luoghi antichi e colmi di storia come lo sono le strade, i vichi le porte gli archi i vicoli ciechi e le pertinenze botaniche in Terra di Sofia, se a questo associamo il dato che l’arte vive dove difende da sola e, non certo esponendola alle intemperie di levante e quelle di ponente le più infime.

Ma se si dovesse, per ovvi motivi, ignorare questa norma di protocollo e di buon gusto, sarebbe prima il caso di fare approfondita ricerca storica, di quel luogo specifico, definendo cosa rappresenta per le genti di quel luogo e poi operare con sentimenti di rispetto, tenendo di quali coloriture possano maritarsi con le prospettive impegnate, con messaggio nel pieno rispetto di centro antico.

Se non si fa questa fondamentale attività di ricerca in anteprima e, come svegliarsi la mattina ignorare i propri genitori, che si avviano e rendono possibile la tua esistenza di civile convivenza locale.

Le apparizioni figurative all’interno del centro antico, devono essere discrete e rivolte sempre verso un emblema di credenza, altrimenti finiscono di essere deriva culturale senza alcuna attinenza locale sia verso le consuetudini e sia verso la credenza, per questo destinate ad essere terminate, dal tempo e dalla natura, specie se allocate nei centri antichi di Iunctura familiare Arbëreşë.

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STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

Posted on 04 agosto 2024 by admin

main-qimg-99abd66f0513b5a4a2fb61ad89268d4b-lqNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando le scelte di convivenza comune, non hanno forza e radici per segnare lo svolgersi della vita, in armonia con i tempi del vivere civile, questi, sono contraddistinti con appellativo di Gjitonë irrequieto.

Il senso di questo sostantivo in lingua Arbëreşë noto per la crusca letterale in: Sbèndë, se poi a fare il disturbatore di riverberi continuati e progressivi, nella quiete e i tempi del vivere civile che alimentano studio, sapienza e buon gusto, si antepone l’appellativo Yllj, ovvero Stella.

L’insieme così viene composto in “Stella inquieta”, (ylljsbendë), in tutto, discolo senza educazione, rispetto e regole, verso il prossimo, i saggi, e quanti si prodigano per lo studio al fine di tracciare storia vera.

A ben vedere e dopo aver ascoltato in diversi appuntamenti in presenza e documenti le esternazioni che da diversi decenni sono poste in essere dal dilagare di queste “Stelle inquiete”, (ylljsbendë), le stesse che, invece di fermarli, trovano agio, dalle istituzioni che godono con il moltiplicarsi di questi inopportune stelle disturbatrici.

Allo stato delle cose si può rilevare ch,e un numero consistente di progetti utili solo a deturpare i centri antichi, sono divenuti la deriva più  crescente, dopo quella degli anni settanta che sostituiva orizzontamenti varchi, porte e finestre, nella totale assenza delle istituzioni o dipartimenti preposti, i quali, invece di correre ai ripari, voltavano le spalle al violare questi luoghi e addirittura elogiando gli operatori, che in qualche caso di incoscienza estrema rimasero sepolti.

Ormai la dispersione culturale ha raggiunto e superato ogni limite di decenza, in tutto vengono citati e ricordati, fatti secondari e sin anche i protagonisti primi, sono preferiti ai comuni viandanti, che per la loro natura lasciva si facevano trascinare dalle correnti in atto, nei frangenti storici più significativi, per la tutela e la salvaguardia della memoria locale.

Esistono momenti storici, che superano lo scorrere modesto di un Katundë Arbëreşë, sono questi intervalli fortemente pregnanti, che vanno ricordati come memoria storica e, assieme ad assi le figure che li determinano, li alimentano con ragione, sentimenti e garbo.

Si potrebbero citare tanti episodi, relativi alla continuità storica di radice locale, del centro antico denominato “Terre di Sofia” e, sicuramente non mancheranno episodi, in continua produzione di buoni propositi con senso di radice locale.

Qui saranno rievocati luoghi fatti e figure locali, che hanno dato avvio alla Primavera Italo Albanese, nota come ottava di Sant’Atanasio, il gruppo in vestizione da sposa e da festa, e la nascita delle sonorità Belliniane che dalle processioni di “Terre” le stesse che sono diventate melodie diffuse in tutto il meridione italiano.

Progetti immaginati e posti in essere dall’operato del trittico culturale locale, noto con l’acronimo di: T.A.G., storiche figure che dagli anni cinquanta del secolo scorso, alimentarono o meglio fornirono i mezzi necessarie e complessi per valorizzare e sostenere lo scorrere del tempo in continuità di ragione, con consuetudini e atti di ragione sociale insostituibili.

Tuttavia, siamo in pochi a ricordare, come si svolsero i fatti che portarono il piccolo Katundë a non perdere i valori della retta a impronta di storica rievocazione, con rispetto dei nostri avi.

Come possiamo no ricordare Temisto, Angelo e Giovanni, i costituenti che trasformarono, tre suonatori storici, in trentatré maestri di melodie irripetibili, senza dimenticare, il dato che, ispirati dalle melodie canore, di Adelina, Ginevra e Maria, affiancate dalle storiche assonanze di genere maschili di Celestino, Orlando e Antonio, realizzarono con senso genio locale, il primo gruppo folcloristico in Terre di Sofia, del quale nessuno riconosce, luoghi cose e nascita.

Non da meno sempre gli stessi T.A.G. in collaborazione con il Fondo Ambiente Italia, inghisarono le reali radici delle Valljie, riportate nei discorsi storici di Pasquale Baffi, nella famosa ottava di Sant’Atanasio, notoriamente diffusa come “Verà Arbëreşë”.

Sono numerose le cose e le figure che hanno reso il piccolo centro Arbëreşë, famoso in tutte le macroaree di simili radici, tuttavia gli eletti locali di turno da troppo tempo ignorano questi fatti e tutte le cose prodotte nella più solida continuità storica locale, preferendo fatti secondari che non portano o forniscono alcun episodio della forte identità locale che da tropo tempo viene lasciata poltrire nell’ombra anche se degli antichi gelsi, ormai non restano che pochi rami cadenti che non fanno più ombra, alle figure moderne locali che sono Nemo Propheta in Patria.

Quando queste “Stelle inquiete”, la smetteranno di fare danno e spariranno dalla portata della vista, la voce, gli odori e daranno spazio ai prediletti Nemo Propheta in Patria, che finalmente siederanno dove gli compete e, potranno diffonderanno la più idonea crusca Arbëreşë, che ormai è indispensabile al nuovo tempo che scorre e non si è mai fermato con l’essenza storica del genio locale, quello buono naturalmente.

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UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

Posted on 02 luglio 2024 by admin

GenerazioniNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per millenni gli Arbëreşë hanno trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca, titolando il corpo umano e gli atti naturali per il suo sostentamento.

I generi che ancor oggi come un tempo hanno quale consuetudine primaria la cultura orale, senza alcun adempimento scritto grafico, non possiedono ne documenti, e ne grafiti di memoria, ma ha solo le cose locali riferite in base ai trascorsi storici e di quelli portati nel cuore e nella mente dalle terre prime parallela.

Essi sanno solo ciò che ricordano e per ricordare hanno bisogno di formule come ausili mnemonici, per questo ancora oggi in epoca globale hanno una relazione stretta con le paro­le profondamente diversa rispetto agli altri generi che fanno uso di sperimentazioni nuove.

Resta il dato fondamentale, ovvero, che un Arbëreşë usa l’apparato uditivo per ascoltare e non quello visivo per leggere. Tra i suoi sensi l’orecchio sarà quello considerato più importante, perché esso vive all’interno di una cultura in cui non esistono né testi scritti a mano né stampe o grafiti di memoria che non fanno parte del protocollo, infatti, il sapere è organizzato in modo tale da poter essere facilmente mandato a memoria.

In questa cultura del parlato, ogni cosa si traduce la conoscenza in pensiero o memoria dirsi voglia, espressa ciclicamente all’interno di moduli bilanciati di specifici contenuti ritmici e, per questo, deve strutturarsi in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espres­sioni formulaiche, in tutto, temi semplici in forma di proverbi costantemente uditi e rammentati con facilità da una generazione all’altra.

Essi così diventano contenuto formu­lato e ritmico per un facile apprendimento e ricordo, in altre for­me a funzione mnemonica, di pensiero intrecciato ai sistemi di memoria, che determinano anche l’unità del significato.

Nelle culture orali primarie, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa ritmica, in quanto il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista fisiologico, determinando l’unitario legame fra ritmi orali, un insieme fatto di pro­cesso respiratorio, i gesti della simmetria del corpo uma­no nelle antiche parafrasi aramaiche, greche e dell’ebraico.

Si racconta che questa usanza è stata utilizzata in tutte le antiche civiltà del vecchio continente, conoscessero a memoria nella loro interezza.

Tutte queste civiltà come gli Arbëreşë fanno ancora oggi passa­no la vita «ruminando», meditando cioè in continuazione, brani, ma tali incredibili performance mnemonica resta possibile anche dal fatto che i testi sacri si ripetono nei perimetri di credenza e sino a pochi decenni addietro come da secoli in esclusiva forma orale.

Chi di noi non ricorda i nostri genitori frequentatori assidui delle chiese Bizantine rispondere al parroco con rime ritmiche in lingua Greca conoscendone il solo esclusivo valore di credenza.

Tutto diventava un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile e, questa caratteristica si sono perdute con le traduzioni nelle lingue moderne a seguito delle disposizioni Vaticane degli anni settanta.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quinte essenziali.

Frasi, proverbi e mas­sime del tipo «Rosso di sera bel tempo si spera», «Divide et im­pera», «Sbagliare è umano perdonare è divino», «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio», «Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore», tutte queste e molte altre in Arbëreşë sono facilmente reperi­bili nei racconti o il fraseggiare delle Gjitonie, in tutto gli ambiti vissuti dove la memoria non termina mai, perché ambito di cultura orale dove nulla si propone come occasione, ma radice del consuetudinario locale più intimo che forma sostanza di pensiero, per il quale diventa ogni cosa pensiero mnemonico, poiché la radice che segna e da tempo al parlato ereditato.

Nelle culture orali primordiali, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria solida.

La memoria diventa il custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare, in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato e sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole.

Per questo chi nasce Arbëreşë allena la mente ad essere memoria solida un insieme di Iunctura, come lo sono le strade i vichi, porte, vicoli stretti e articolati dove l’accoglienza del viandante vale se si lega al patto di fratellanza e accoglienza.

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ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

Posted on 26 giugno 2024 by admin

011NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.

una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.

Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.

La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran conside­razione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché co­noscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.

Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.

Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.

Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.

In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.

Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.

Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specia­listi, tuttavia altri mezzi di più fa­cile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.

In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.

Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.

Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.

Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.

Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.

In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.

Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.

Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.

E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.

Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.

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DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

Posted on 15 giugno 2024 by admin

Aglomerati primariaaaa

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Uno dei più dolorosi episodi delle umane miserie, può definirsi la pena più antica del genere umano, in altre parole, mettere a disposizione dell’offerente tutte le intime cose del pagante; e ogni cosa si consolida in prostrazione fisico/morale.

I protagonisti sono sempre due, una meno illustre, alla spasmodica ricerca di viandanti o “faccendieri mercatali senza scrupolo” e, l’offerente disposto ad ogni cosa pur di ricevere compenso.

Entrambi lottano, per la propria sopravvivenza, fisica o morale dirsi voglia e, i vestimenti hanno sempre come scenario angoli di strade, piazze, lavinai e palazzi, dove non vi è mai nata erba buona, perché luogo buio e usurante, che riconduce e sottane usate come lenzuolo coprente.

Tutto davanti la casa dei clerici che chiedono, preghiera alla clientela, generando fedeli con mira del sacrificio in sole dieci paternostri, dopo aver avuto quanto richiesto, con poca spesa.

Questo atto antico pur se bandito da ogni credenza, con prescrizioni, ricompare sempre primeggiante, balda, sfrontata ed impudica, perché il bisogno di donazioni, premiata con l’olio concimato dalla pelle in decomposizione, di memorie antiche.

Sono note le vicissitudini dalle sue fioriture nella Gjitonia bizantina, fino ai giorni nostri e, i ricavi, prima di essere frantoiati sono depositati per arroganza lì dove è sepolto l’antico fonte battesimale.

Noi studiosi e divulgatori di questo lavoro di ricerca, poniamo ogni pena dove tutto ha origine, sia nel bene che si può ottenere conoscendo le cose e quindi, per il male prodotto, in tutto, una memoria che restituisca decoro e pudibondo all’involucro che si addice al buon costume e, alla pubblica onestà di questo luogo.

I quadri appariscenti e senza vergogna saranno coperti, ed apposite note serviranno a evidenziare il degrado umano, a cui hanno portato all’avvilimento di coloro che frequentano gli antri, ove infelicissime creature trafficano del loro onore senza avere mai un momento di vergogna o ripensamento pudico.

L’esposizione del cattivo gusto a buon vedere degli artisti, rappresenta il più efficace rimedio all’apparire come venditori di sé stessi, pronti ad infettarsi con sereno e gioioso animo di unione falsa per danaro.

Tuttavia nonostante le tante apparizioni pubbliche e private, i prodi addetti, non hanno avuto interesse verso niente e nessuno se non lasciare impronta con il loro godimento ai posteri, non con immagini benevole ma il tanfo del degradarsi della loro radice infetta, oltremodo ornata di femminei acconciamenti in pose di vilissimo, stesi a riposo, nel pieno delle proprie attività utili a ricondurli negli orti ornati con feci e cose deteriorate.

Noi sveliamo turpezze e brutture, ma speriamo che da queste abbiano beneficio, in rifugio tutti coloro che vi porteranno lo sguardo per rimanere sconcertati o offesi.

Se un tale orrore dovesse ancora oggi invade gli animi, i tristi fondaci rimarranno deserti, con l’infamia certa del commercio, di chi vende anima e corpo, ai compratori a buon mercato, gli stessi che non sanno fare famiglia, Gjitonia, Shëşë e Katundë.

Resta solo chi si occupa di storia, naturalmente quella vera, a partire dalla parlata, con argomento i trascorsi del governo delle donne, quello degli uomini e, solo quanti hanno segnato con attività benevole, le cose che hanno reso la minoranza l’esempio europeo di famiglia e integrazione.

Certamente sentir parlare di Gjitonia locale nominando l’addolorata madre “Clementina”, che morì sofferente in attesa del figlio che non rincasò mai, ad opera di una discendenza ignorante, blasfema e scostumata, che di quel nome inopportuno ne faceva bandiera.

Non da meno sono le tante storie diffuse in maniera inopportuna, in diverse occasioni e tutte nate da quella generazione di generi maschili e femminili in perenne competizione, le stesse che da oltre quattro decenni fanno danni e disperdono al vento quel matrimonio tra canto vecchio e musica nuova, in attesa che nasca la famiglia culturale, in questo secolo appena iniziato.

Scrivo de mio paese di costumi storia uomini architettura e i cunei agrari e della trasformazione, ma vengono preferiti infanti sena arte, siccome sanno rompere le cose, si sentono fabbri che sanno ferrare gli asini, che come loro per la poca manualità, diventano zoppi e ciechi non riconoscono neanche gli odori che emana il ferro caldo quando si aletta sull’unghia del quadrupede.

Arrivare ad udire che per la crescita demografica locale, si lasci nelle disponibilità e nella direttiva culturale di chi è nato da rapporti pagati a buon mercato o con semplici amuleti di mercatele produzione, rappresenta il termine storico dove sprofonda il buon gusto la cultura, valorizzando quanti vogliono apparire e non hanno un minimo di energia per retro illuminarsi.

L’acqua scorre è noto segua il tempo e, mentre il tempo non si ferma, l’acqua si arresta, cambia itinerario, fa solchi, nei luoghi ameni; qui l’uomo che osserva dalle prospettive desertiche e vuote, prende spunto da quelle scalfitture di acqua lenta e saggia, costruendo bisogni dettati dal tempo che passa.

Questa è una metafora che potrebbe aiutare molti addetti acerbi, ma purtroppo la media culturale risulta essere molto bassa o più volte labile dirsi voglia, qui fa da mediatore il vento che miete le cose deboli, deformando quelle più solide, risparmiando solo la saggezza, quella fatta di materia che ne tempo, ne acqua e ne vento, possono mutare.

Questa è una prospettiva che parte e trovano largo spazio in quest’opera pronta per le stampe, in cui l’autore – in anticipo su altri piccoli celebranti – fornisce certezze e, non parla di mondi paralleli di alcun che, in alcun dove avuto luogo.

Qui si inizia a trattare le Metodologie di radice mai utilizzata di tempi post industriali secondo le metodiche di “Percorsi di finalità Agili”, specie in campo di ricerca storica, sviluppo e indagine arbëreşë.

Un atto che se opportunamente, reso solidale, tra gli addetti potrebbe rappresenta l’atto o immagine atta a riaprire il portone dei liberi pensatori, del monte Echia, chiuso per disprezzo verso i regnanti di cultura anomala.

Nello specifico i “Percorsi di finalità Agili”, largamente diffusi nella ricerca a fini di progetti condivisi, specie se approvata da un numero di addetti, che per capacita professionali, progettuali, ricerca e conferma, delle attività, in  protocolli, restituiscono come atto finale un progetto/indagine, frutto di un confronto a cui non serve il timbro del dipartimento falsamente illuminato  o, blasonati attori non parlanti, perché il risultato ottenuto  è il nettare di una armata culturale che verifica e approva ogni fatto contemplato nel progetto, trattato dall’inizio alla fine dello studio condotto non da poveri e disarmanti singoli praticanti senza lumi.

Storicamente le cose tramandate dagli Arbëreşë sono definite o riportate da singole figure, le quali, per quanto possano essere precise, dopo il 1799 riportano elementi di caratura non, riconoscibili a discorso pregressi e presentati nel 1807 come novità e, non può essere farina di elementi capaci delle misure di fraterna fedeltà o di promessa data.

Oggi l’agio di sedere innalzato su una cattedra non può o non deve consentire libertà di arbitrio, o libera interpretazione per i frequentatori “solitari di archivi, biblioteche o vutti” per fare lavine che non fanno strade e ne segnano memoria.

Un tale disse un di: venite a me, non come maestri o professori, ma semplici scolaretti senza futuro e, così, potrete ambire un giorno a divenire genere colto senza peccato di prostrazione.

Privati, Gjitonie, Sheshi, Istituti, Istituzioni, sociali e di credenza, da troppo tempo realizzano editi, garantendo la loro genuinità storica, secondo la regola del riversamento di aceto di vino altrui, o meglio, in favore di quanti non hanno mai avuto modo di confrontarsi ed osservare, ragion per la quale le cose della storia degli arbëreşë sono opera di variegate garanzie editoria ripescate nel torbido incompreso di archivio biblioteche senza un futuro.

Sono innumerevoli le attività, le pubblicazioni e gli appuntamenti mai il frutto di gruppi di lavoro multidisciplinari, ma solo opera di liberi attivisti che non trovando altro agio si dilettano a definire i trascorsi arbëreşë come mera espressione linguistica in attività di consuetudine a memoria di battaglie epiche o di scritto tradotti all’incontrario.

Questo spinge a ritenere indispensabile sottoporre con adeguatezza all’attenzione le eccellenze certificate, oltre modo senza alcuna verifica o confronto pubblico, che ne definisca mai la genuinità, di cose non proprio in linea con i trascorsi di un ben identificato intervallo storico, sia in terra madre che in quella parallela del fiume Adriatico, sino allo Jonio.

A i tanti attivisti che hanno scambiato un buon maestro con un pessimo padrone ve tutto il nostro augurio di cose buone, ma non certo faranno mai storia o sveleranno cose che la storia della minoranza attende da secoli e non trova ancora agio e pace.

Commenti disabilitati su DIVULGATORI PRIMA MENZUNASJ, POI DALL’IŞCHJ E OGGI ZAMANDÀRJ (Na bëmi me crje e garbë i tundurë)

DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

DOPO DANZE MITO E IDIOMA DOBBIAMO PREGARE RIVOLTI AL LOR SIGNORE CHE SORGE

Posted on 30 maggio 2024 by admin

Ina Casa 2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – La deriva culturale da cui sfuggimmo e, per la quale siamo diventati esuli integrati in queste terre parallele, è racchiuso nel concetto di non aver voluto soccombere e quello che oggi si palesa a casa nostra e, ormai divenuto più sopportabile.

Nonostante la volontà di fare bene e meglio esprimendo e affermando tutto il patrimonio ereditato per discendenza diretta, ha ritrovato nuovamente pena identica qui in terra parallela di quanto i nostri antenati sfuggirono sei secoli orsono.

Due cose sono certe; la prima è lo sfaldamento culturale avuto inizio nel XVII secolo con il vertice di pena nel sessantotto del secolo scorso; la seconda è la caparbietà turcheggiante che non ha mai smesso di inseguirci per piegarci e, oggi dopo il sessantotto hanno riprese le manovre di sottomissione, di consuetudinari, linguistica i costumi e la credenza.

Oggi la deriva, senza confini ci insegue e ci insegna a ballare secondo le anche islamiche senza pudore, siamo invasi secondo le credenze dei loro miti, vendendo sgretolarsi la credenza portata oltre adriatico con non poca pena e sacrifici dai nostri avi.

Vanno dicendo che bisogna rinnovarsi e le parlate devono essere rinnovate, perché le cose antiche non hanno più senso in questo mondo globalizzato e chi volesse studiare o entra nei canali riconosciuta da quella corte ambigua senza credenza, fa meglio a rimane isolate a fare il contadino che ciba lo stomaco e lascia deserto il cuore la mente e l’animo nobile, quello che  abbiamo ereditato dai nostri umili ma sapienti genitori.

Che si cibavano di crusca di grano e non di veli o nebbie generate, dalla “farina fatua” lasciata incautamente nell’aia a prendere sole degenere, non è certo il meglio della cultura che fa la regione storica.

Noi siamo Arbëreşë, voi non so cosa; tuttavia se si esalta l’opera del mugnaio matto, che espone le macine senza l’acqua che le fa ruotare; rappresenta la deriva di un figlio degenere, come chi prestava il grano per entrare nelle famiglie e manomettere le risorse del sudore altrui.

Gli esempi sono molteplici ed oggi, pochi ne conoscono il senso o il valore storico e, se questo accade non viene per caso, visti i temi in fermento, con i quali si trattano integrazione, ponti e, credenze, senza avere misura, di quanto apporto fornì nella storia d’Europa il genio arbëreşë.

La storia degli Arbëreşë è fatta di lavoro sudore, studio, credenza, legalità, genio e diffusione editoriale senza confini o generi da sottomettere o distruggere i popoli di cui erano parte.

A tal fine e per comprendere meglio la misura delle cose, chi si reca negli ambiti, in specie i Katundë della “Regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë”, da oggi in avanti, provvedesse prima di tutto a confrontarsi con quanti studiano, analizzano e promuovono il territorio senza soluzione di continuità da molti decenni e, non con le istituzioni che essendo volontà popolare a scadenza di mandato, mancano di quella formazione storica continuata dalla radice indivisibile.

Venite in “Regione storica Arbëreşë”, ma mi raccomando, onorate i condottieri dell’ordine del drago quando non erano più ricattati per la propria famiglia in ostaggio e il suo popolo che con sacrifico allevava e sosteneva le proprie radici.

Le vostre fatue ragnatele, sono il motivo per il quale, le nostre discendenze preferirono migrare e disegnare paralleli ambientali di genio e di cuore, con credenza antica, la stessa che voi viandanti non dedicate tempo di confronto, con i veri saggi locali, quelli eletti dal tempo e dalla saggezza locale, nel più riservato silenzio ovvero i: nemo propheta acceptus est in patria sua; perchè: Jaku jonë i shëprishur sù harrua!

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