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GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia”  (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

GJITONIA “Una canzone scritta per mio Zio Celestino, il primo unico e grande cantante in Terra di Sofia” (ghë khënduerë përë Jeleunë i biri Vicèutë Abramitë)

Posted on 07 febbraio 2025 by admin

photo_2025-02-06_21-28-11NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Gelèù cantava per amici e per parenti, germogliando sentimenti di amore con il senso del suo canto e quando lui ebbe modo di vivere quel mondo rimato, immagino che gli fosse permesso di volare, lo fece con riservatezza ne subì la pena.

Quando immagino lui e le sue gesta, sento rime davanti casa, riecheggiate lungo le vie del centro antico sino al sagrato della chiesa grande per accoglie sposi;

Eseguito per far nascere un nuovo governo delle donne, li dove sono cresciuto;
Ma a te che fai musica e suoni e ti avvolgi di corde e ti copri di polvere di mantice, non certo importa poi molto del cantato arbëreşë, specie quando dice;
“Il piccolo sale e il grande scende, la ragazza scende perché è luna, il ragazzo sale perché è sole;
Il padre davanti casa e il prete sull’altare della chiesa benedicono a modo loro chi e sole e chi è luna e anche le stella, perché voleva cantare volando e gridare:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Se non conoscevi questa rima di gesta storiche, adesso che lo sai chissà se diventi migliore;
Perché Oggi davanti la porta di casa hai fatto refluo;
La bellezza della chiesa è stata da tempo graffiata;
E tu rimani legato davanti al camino e vedi solo la polvere del fuoco spento, perché puoi solo inginocchiarti;
Ma io sono qui pronto e non taglio le corde delle mani per farti suonare cose inutili, ma i capelli che ti adombrano gli occhi e le orecchie per sentire canto: E dalle labbra ti strappò il ritmo di sensi, che fa riaccendere il fuoco antico:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ine;

Tu e altri non pronunciate il mio Nome, ma comunque resta immortale;
Anche se ritenete buoni, solo i semi di casa vostra, che vedete di lode di germoglio migliore;

Intanto mentre fate così, il fatuo invade la terra che nessuno potrà più lavorare di buono;
Ma anche se fosse, a voi tutti cosa importa, del valore che da conoscenza e agio alla cultura che non è per voi;
C’è un’esplosione di luce in paese ma preferite velarlo senza rispetto e, adombrate tutto il bello dell’immortale;
E non importa se voi lo abbiate mai sentito parlare, davanti casa, la chiesa o dove siete arrivati tardi;

Perché preferite ricordare il macello di sangue che scorre nel lavinaio, dove lui non viene per rispetto;
Lui è colmo di saggezza sacra e speranza di fare le cose come si faceva in:

Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia ime;

Ha fatto del suo meglio, e tutti non si aspettavano un granché perché lui era diverso;
Non provano nulla, di buono per lui e voi adesso che sapete tutto;
Per trovare il vero, immaginate che viene per prendervi in giro;
E anche se è andato tutto storto per voi e non per lui;
mentre l’immortale si ergerà davanti la casa ormai devastata e le mura della chiesa grande ormai non più di bianco candore;
E dalle sue labbra, oggi come allora, uscirà per sempre una rima buona che unisce generi e fa: Gjitonia, Gjitonia, Gjitonia, kijò hësthë Gjitonia jonë.

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CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË - UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA  Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

CENTRO SOCIALE PER DIVULGARE I VALORI STORICI PER GLI ADULTI ARBËREŞË – UNITA URBANISTICA DI SHESHI E GJITONIA Atanasio Pizzi Architetto Basile 28 Febbraio 1985 a 22-01-2024

Posted on 23 gennaio 2025 by admin

Gjitonia

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Un luogo tranquilla costruito dalla natura e sostenuto dal genere umano, dove portare sedie e fare conversazione, lavoro di cucito, ricamo e spogliature dei Solanizzati ancora da maturare, mentre i bambini giocano in sicura spensieratezza, crescendo in compagnia dei loro coetanei.

Una fontana pubblica, uno slargo, un anfratto soleggiato e non ventilato, protetto dal sistema di case del bisogno vernacolare, un arco, un vico cieco, il recinto di un orto botanico, un lavinaio, sono gli ingredienti, indispensabili per avvicinare famiglie.

Quei luoghi dove il genere uomo hanno tempi brevi per la sosta e le notizie di rito del governo; ecco qui esposto l’esempio di «fatti generi e cose» di un’ambiente riconducibile ai trascorsi di Gjitonia.

Il perché di questa breve è presto detto: esso rappresenta la cellula o unità elementare di convivenza organizzata, che unisce le famiglie, sfugge ad una definizione puramente urbanistica, così come ad una sociologia o antropologia pura, anzi si impenna a qualsiasi precisa teorizzazione spaziale, forse ancor più di altri organismi di maggiore complessità.

Gjitonia infatti va piuttosto interpretato come rapporto umano risultante da svariate condizioni sociali, e non come particolare circoscrizione di un intorno fisico o numerico di radice catastale.  

Preferibile dunque, anziché tentare di schematizzarlo o emularlo pubblicamente per forza di un circoscritto serve, cercare attraverso esempi vivi i caratteri che intervengono a formare questo modello di urbanistica e società di ristretti atti e attività da diffondere.

L’idea stessa di Gjitonia fa immediatamente correre il pensiero alla vita dei piccoli e dei piccolissimi centri o di quelle parti di città che meno hanno risentito i profondi mutamenti dei tempi più recenti con palazzotti razionali o unità abitative dirsi voglia.

In altre parole, sembra più facile capirsi guardando ciò che è avvenuto ed avviene in quegli insediamenti talvolta plurisecolari che ancor’oggi continuano a vivere ed a funzionare nei modi loro originari: e si può risalire tranquillamente fino al medioevo.

L’abitazione   medioevale   ignora l’esistenza   di numerosi funzioni e servizi, e non concepisce tale mancanza come un limite, perché è implicito che il soddisfacimento dei bisogni relativi nasca da una integrazione realizzata fuori dalla casa, sull’aia, sulla piazza, così come sulla strada o nel soleggiato anfratto sottovento.

Sono questi elemento che si modellano in favore della famiglia e l’anfratto, là dove il clima lo esige, si modella per il consenso degli edifici più notevoli o le fontane, i lavinai, le gradinate, che finiscono per diventare teatro dove il pubblico partecipante attivo si ritrova ad osservare e criticare ciò che avviene ai suoi piedi, avvolte soleggiati, bagnati e altre volte ventilati ad asciugare.

Il concetto di una integrazione che avviene fuori dalla casa ci illumina subito su alcuni caratteri; principalmente la mancanza di certi servizi individuali e il sussistere di bisogni che possono venir soddisfatti per il singolo solo in quanto lo siano per la collettività, mentre la necessità di comunicazione con il vicino si può specchiare in una riduzione dell’intimità, da tutti riaspettata.

Come si vede, si tratta di caratteri decisamente negativi, i quali per essere superati devono intervenire fatti positivo, il tutto poi diviene constatazione di matematica elementare di adizione e sottrazione.

Sembra dunque difficile ammettere che il permanere di determinati lineamenti urbanistici, una volta soddisfatti i bisogni di cui si è detto, basti da solo ad assicurare la continuità dei rapporti umani di mero vicinato.

Se ci portiamo più a vanti nel tempo ad osservare abitati che risalgono al sei settecento, notiamo che determinati caratteri si spostano, dalla struttura interna delle abitazioni e, si affina, differenziando i locali destinati alle funzioni fondamentali.

Ed ecco che dalla strada, di cui si va impadronendo il traffico, il punto di incontro si sposta più vicino all’abitazione del singolo, quando non addirittura all’interno di essa, come è avvenuto in molti Katundë arbëreşë per vocalizzare ogni anfratto, strada o slargo dirsi voglia. 

Se ne deve dedurre che i confini del vicinato si restringono, e non è difficile controllare come in effetti la partecipazione corale alla comunità si affievolisca col finire delle forme di vita che qui avevano avuto origine.

Un altro elemento da notare è il passaggio dal prevalere della casa unifamiliare alla diffusione del fabbricato collettivo: nel primo caso la vita di vicinato si svolge necessariamente all’esterno, e perciò stesso può dilatarsi in una continuità a catena di cellule successive.

Nell’altro caso è naturale che un collegamento nasca anzitutto tra gli abitanti di uno stesso edificio e che le persone si incontrino sulle scale, o che comunichino da una finestra all’altra, e questo denta l’isolarsi della cellula che diventa casa o appartamento comune.

La città del secolo scorso si è favolosamente moltiplicata senza avvertire la presenza di valori paragonabili alla Gjitonia.

Pur se essa ha cercato di rispondere a dei bisogni quantitativi, graduandone il soddisfacimento secondo criteri di opportunità sociale o politica. 

Nei grandi tagli edilizi che hanno caratterizzato le città d’Europa essi si fregiano di imponenti edifici dove il singolo individuo può anche vivere ignorando il suo vicino; ma dietro a questa sottile cortina si addensano le vecchie case e le straducole impraticabili alle carrozze, dove ognuno sente la presenza di un intorno umano che gli è notoriamente comune.

Contemporaneamente si allungano nelle interminabili periferie i quartieri amorfi del feudalesimo industriale; qui non soltanto l’uomo non può più costruire la propria casa, ma nemmeno può sceglierla, perché una vale l’altra, essa gli viene assegnata come una divisa unica, è tutto l’insieme fa parte di uno stato di necessità, identico a quello in cui tutti si trovano attorno a lui senza alcuna necessità dei valori racchiusi nel bisogno di vicinato. 

Così, la casa diventa qualcosa di sordo e di estraneo, dove si spengono quei fermenti che da essa nascevano: la strada della felicità implica necessariamente una evasione, né si può guardare con amore il prossimo che fa da sfondo alla scena di ogni giorno.

La rapidità e la vastità con cui si sono espansi i centri antichi, del secolo scorso, hanno moltiplicato il numero delle abitazioni prive di ogni sorta di personalità, la stessa che l’uomo non può e non riesce ad amare.

Quale sia il volto di un centro antico odierno lo sappiamo bene: sotto il segno di una stridente disarmonia, assistiamo al sopravvivere di strutture secolari, così come alle profezie di ideali centri che mirano al futuro, mentre va sfuggendo il senso stesso della nostra dimensione di generi che attende un luogo ideale per esprimere se stesso.

Rintracciare adesso elementi positivi comuni entro un intorno fisico anche limitato, sembra impresa senza uscita. 

Questo edito nella sua breve esposizione porta a concludere che una vita di Gjitonia si associa a condizioni di basso tenore di vita e nel corso di questa indagine, gli elementi favorevoli, sono stati evidenziati così come segue:

–  abitazioni che rispondono a bisogni minimali;

– attrezzature e spazio in comune a seconda le ragioni pulsanti;

– l’assenza di alcune comodità (case sprovviste di

acque, mancanza forno, in tutto cellule densamente abitate);

–  molti bambini e spazi, adatti per i giochi, comuni sempre sotto il vigile governo delle donne;

–  un numero sufficiente, ma limitato di attività sempre fuori dal perimetro di Gjitonia (il tutto contribuisce a un numero scarso, di spostamenti delle massaie se non per la via dell’agro);

– un livello di vita laborioso e semplice, che permetta di comunicare e partecipare con il prossimo, a differenza di quanto avviene in condizioni di agiatezza anche modesta, entro le quali si riscontrano atteggiamenti più individualistici.

Per contro l’esperienza di stimolare la socialità tra Gjitoni con l’ausilio di servizi comuni, espresso con un tenore di vita ragionevole, risolvendo numerosi insuccessi.

Qui divengono fondamentali i valori tipicamente domestici si tutelavano ad oltranza diversamente dai nuovi ambiti più moderni, senza che le persone riescano a conoscersi più che in qualsiasi altro tipo di abitazione collettiva.

È, una volta di più, il fallimento di una urbanistica moderna che pretenda di agire sugli uomini, anziché partire dagli uomini per dare loro le condizioni ambientali più adatte.

Così è evidentemente impossibile enunciare qualsiasi concetto urbanistico generale capace di ricreare nei nuovi aggregati la vita di vicinato: solamente dove particolari circostanze segnalino la possibilità, sia pure latente, di un più caldo rapporto umano, l’dovrà porre ogni cura per scegliere anzitutto la dimensione da assegnare all’elemento urbanistico adeguata a ll’ intensità di quel rapporto.

Si può dire che la maggior parte delle famiglie sono scontente dei vicini che hanno, pur sapendo bene di poter contare su loro in caso di necessità urgente.

Il dovere dell’aiuto reciproco, il senso di solidarietà umana sono infatti ancora vivi tra queste famiglie; il piacere di stare insieme a conversare o divertirsi costituisce tuttora lo spunto per un avvicinamento frequente ed amichevole.

Ma è raro il caso di qualcuna che, pensando all’eventualità di cambiare abitazione, mostri il desiderio di avere ancora i vicini che ha attualmente.

Per quanto tali risultati siano sconcertanti, ed ammettendo che la ricerca successiva li confermi, riteniamo sia utile tenerli presenti considerando il problema dal punto di vista pratico.

Dalla nostra ricerca appare chiaro che l’esasperazione dei rapporti tra le famiglie del vicinato ha delle motivazioni abbastanza logiche accanto ad altre meno facilmente ponderabili.

Innanzitutto l’eccessiva vicinanza fisica: i rapporti sono peggiori infatti quanto più le case sono vicine; in secondo luogo il livello economico molto basso che, oltre a creare inevitabilmente in ciascuno uno stato di tensione continuamente in cerca di occasioni per scaricarsi, fa sì che ogni piccola differenza acquisti un valore sproporzionato e crei invidie e rancori.

La maggiore mobilità economico-sociale verificatasi in questi ultimi anni ha aggiunto motivi di dissenso in un mondo fermo per secoli in una greve uniformità di livello, in un mondo in cui «lavoro e sacrificio» erano le leggi comuni della vita, e «contentarsi di poco» il necessario sostegno della dignità individuale.

I valori della vita sono piuttosto espressi in sentimenti che in termini razionali, ed è quindi difficile acquistarne conoscenza dal rimanendone al di fuori.              

I l vicinato possono essere considerati, senza cadere in affermazioni arbitra rie, non soltanto come una unità di cultura, di civiltà, ma come unita di cultura consapevole, e capace i tra smettersi e fondersi in quella più va sta cultura che sta alla base di tutta una società democratica.

I l primo o m mezzo di trasmissione dei v a lo r i culturali è costituito dalla famiglia, m a nessuna di esse è oggi isolata, per quanto possa aspirare a provvedere a sé stessa con i suoi soli mezzi.   

Un   agglomerato occasionale di famiglie con tutti i legami e le fo rm e di associazione che sorgono appunto dal loro vicinato.  

In ogni fa miglia il padre, recandosi al lavoro, è espo­sto a contatti sociali con i compagni di lavoro e alle norme   di vita che regolano l’ambiente dell’officina   o dell’agro 

Entrambi i genitori possono essere membri di associazioni religiose, politiche, sindacali o ricreative, nelle   quali confluiscono punti di vista ed opinioni comuni su interessi   particolari.  

S i incontrano nei negozi, e le varie questioni relative al modo di comportarsi – dovere, civismo, cor­rettezza -vengono in superficie attraverso la discussione e l’esercizio della critica.

I bambini, fino a ll’ età di almeno 11 anni, frequentano una scuola situata nelle immediate vicinanze; giocano insieme nelle strade o nei camp i da gioco, vanno e vengono nelle case dei compagni smi­stando notizie da casa a casa e fornendo occasioni   e   confronti   tra i diversi metodi di educazione.  

I l vicinato è quindi un insieme di «ten­sioni» –tra individui, tra famiglie, tra casa e scuola, tra casa e lavoro, tra opinioni e gruppi i di interesse; le tensioni possono essere importanti e di peso decisivo, le relazioni per­sonali possono degenerare in lite e persino in violenze; ma da tutti que­sti fatti l’insieme, emerge un modo di v iv e r e, con la cultura del vicino.

L a m a gg io r parte della gente che lavora v iv e all’interno di questi limiti ideali, in un Katundë; ma esiste la consapevolezza, ed essi appaiono ben chiarie distintivi, quando accade che antichi legami si spezzino in occasione di spostamenti verso nuove abitazioni o altri siti.

T r e aspetti principali della cultura di Gjitonia sono degni di nota: prima di tutto i detti rapporti di buon vicinato, cioè la premura e solidarietà che si manifestano quando si verificano disgrazie: c’è una regola di vita nei confronti di coloro che sono colpiti verso i quali i diritti non sono rispettati e dove il livello generale è molto basso. 

Il secondo aspetto talvolta si rivela come un tratto spiacevole, a seconda se si abbia o meno qualche cosa da nascondere: è la curiosità.

Se ci è indifferente parlare dei fatti nostri sul pianerottolo o dalla fine­stra, non la condanneremo; ma se desideriamo la riservatezza, ci risentiremo verso i vicini curiosi. 

L’inte­resse che tanta gente prova per gli affari degli altri – le loro fortune disgrazie, le operazioni, le nascite, i matrimoni, le morti – crea nel vicino, una   conoscenza perfetta anche di quello che accade dietro porte chiuse o ambiti aperti. 

Può rappre­sentare un motivo di fastidio, ma può talvolta   impedire   sofferenze   e tragedie, può contribuire in modo po­sitivo a creare più strette relazioni umane, in modo particolare per coloro che sono soli od isolati.

Il terzo aspetto è l’accettazione di un tipo   riconosciuto   di   apparenze esteriori, ossia della così detta «rispettabilità».

Sono i frutti dell’in­nato spirito di conservazione, che si aggrappa a tutto quello che si ritine ne possa essere definito «ciò che è be­ne», e si preoccupa di trasmettere le norme e i principi delle generazioni più vecchie a quelle più giovani.

È un fatto prepotente della vita fa ­ migliorare, perché ogni membro di una fa mig lia ha il dovere, nei confronti degli altri membri, di non lasciare che essi scadano a gli occhi dei vicini.

«L’uccello che insudicia il nido è l’uc­cello cattivo», dice un proverbio; e l’uomo che vuole in frangere il codice riconosciuto va via, verso altri luoghi, dove, vivendo anonimo, può allonta­nare da sé ogni responsabilità.

La rispettabilità indica il tono e definisce la cultura di un vicinato.

Le norme di rispettabilità naturalmente variano, e in certi quartieri non sarebbe consi­derato rispettabile essere in rapporti amichevoli con la polizia.

Attraverso comuni interessi e un comune sentire, tra gli abitanti del vicinato   si   stabiliscono   delle   rela­zioni, e attraverso   regole   general­mente, se non universalmente, accet­tate, il vicinato si rivela come una unità di importanti   valori   morali, intellettuali ed estetici chiaramente individuabili, diventa qualche   cosa su cui è possibile costruire.

 

Queste ed altre ragioni plausibili di tensione, che non staremo qui a considerare, ci sembra siano sufficienti per non farci concludere troppo semplicisticamente che queste famiglie preferirebbero vivere isolate (come del resto qualche

donna ha affermato in un impeto d’ira), o – peggio ancora – che meglio sarebbe far in modo che stiano lontane una dall’altra, perché «i contadini sono individualisti», perché non sono capaci di vita associativa.

È certo che il vicinato ha avuto una funzione sociale e psicologica importante nella vita di questa piccola comunità come mezzo di trasmissione della cultura e quindi di educazione sociale.

I bambini, si può dire, vivono «Gjitonia» più che nella loro famiglia: passano da una casa all’altra, assorbono avidamente tutto quello che possono apprendere osservando i vicini sia direttamente, sia attraverso quello che ne sentono dire in casa nei pochi momenti di isolamento ed intimità familiare.

Quando una madre che non è la propria, commenta col marito o con i figli più grandi i fatti accaduti nel vicinato durante il giorno, l’ultimo scandalo o la lite che ha variato la monotonia della giornata.

Presto imparano anche loro a riferire quello che hanno visto, e l’interesse dei grandi è il migliore stimolo a perfezionare i mezzi di raccolta delle notizie che poi, valutate ed ampiamente interpretate dagli ascoltatori, costituiscono come altrettante lezioni pratiche sulla base delle quali si effettua l’apprendimento degli schemi non solo psicologici e sociali, ma anche morali della comunità.

Quando l’apprendimento è completo, i fatti sono ormai riferiti già deformati dalla valutazione soggettiva che si è intanto perfettamente adeguata al modello della comunità.

È facile immaginare come l’individuo, in tempi in cui saper leggere e scrivere era un lusso di pochi, venisse rigorosamente modellato su schemi difficilmente modificabili dei quali diveniva a sua volta depositario e trasmettitore, non solo nell’ambito della sua famiglia, naturalmente, ma di tutto il vicinato.

Un tale elemento può dunque chiamarsi unità di vicinato, e la sua ampiezza non si esprime con calcoli di uni­ versale validità, ma si affida unicamente alla sensibilità di chi progetta.

Nei casi reali che possono presentarsi oggigiorno, la più forte funzion e di collegamento è forse rappresentata dal lavoro, specie se artico lato in attività complementari; ma attività che si svolgano entro un raggio modesto, dall’artigianato fino alla piccolissima industria, così come si verifica in altre regioni. 

Qui i vari mestieri hanno bisogno uno dell’altro per giungere al prodotto finito; e ciò che si può vedere in qualunque cortile dove si aprono le varie botteghe, può agevolmente tradursi in una forma attuale, senza che l’abbandono di caratteri urbanistici negativi abbia a indebolire la necessità del rapporto umano.

Una tale unità di vicinato può concepirsi di nuovo come una integrazione non astratta, anzi come uno strumento che l’urbanista consegna ai suoi simili perché continuino a realizzare ciò che già in essi esiste.

Resta un dato inconfutabile che unisce Vicinato e Gjitonia, esso consiste nel dato che dalle pieghe più intime della propria casa; riverberandosi come cerchi concentrici sin nelle regioni più amene.

Tutti, in prima linea sin anche chi ti è stato germano a, finire dall’impari più lontano, cercheranno di limitare, sminuire o adombrare il tuo lume, avendo in continua consapevolezza che il confronto non è stato mai possibile.

Tuttavia attuano e mettono in campo tutte le risorse perverse nate in quelle case del bisogno, per limitare la corsa che ancora ti lega e, non ti libera dall’essere speciale e impareggiabile Gjitonë o fratello dirsi voglia.

P.S. a mio padre

Atanasio Arch. Pizzi                                                                                                                                                                                                                      Napoli 2024-01-22

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LA TEMPESTA DI SOGNI E SPERANZE SOTTRATTE (thë hëndùratë e motitë viedurë)

Posted on 02 settembre 2024 by admin

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C’è stato un tempo in cui l’uomo era onesto e laborioso,
Era il tempo delle voci dai miei genitori e dei nonni tutti
le loro gesta erano vanto del parlato
C’è stato un tempo dove solo la voce era canzone
e faceva fratellanza di generi
C’è stato un tempo quando tutto è andato per musica e danza
Poi ho fatto un sogno pieno di speranza
Dove la voglia di parlare e cantare era tanta
Assieme alla vita che era degna di essere vissuta

assieme ai fratelli e la mia sorella
Ho sognato che il rispetto non potesse mai morire
Ho sognato tutti assieme cambiare le cose in meglio e io l’ho fatto
quando ero giovane, senza paura e colmo di rispetto
quando i sogni venivano creati, usati e sparsi in cielo me corona
Non c’era alcun riscatto da pagare nessuna canzone non cantata
nessun vino senza sapore perché si produceva vite oneste
Ma le tigri sono giunte di notte con le loro voci sibilline
allontanarono la speranza dei sogni sparsi facendoli precipitare
Lui ha camminato al mio fianco Ha condiviso giorni di fraterne illusioni
Ha preso calpestato la mia primavera
e se n’è andato lasciando un inverno buio e piovoso
E ancora Io sogno che venga estate
e vivremo per piantare insieme radici insieme e vedere fiorire il maltolto
Ma ci sono sogni che non possono avversarsi
E ci sono tempeste che non possiamo superare
Ho fatto un sogno in cui la mia vita potesse essere
così differente da quell’inverno che ancora oggi non trova termine

Vivo la nuova estate così differente da ciò che sembrava e che volevo fosse
Resta solo la canzone che racconta I sogni che ho sognato

Tutti quelli che mi hanno sottratto

Restano sparse le figure di quella gioventù nonostante

il prostrarsi ai piedi del nemico per vedere un dì uniti tutti in paradiso

ma purtroppo per danaro anche questo sogno è stato mercatato

 

 

—-versione tradotta dagli Olivetari a cento dieci e lode—–

 

 

Ishte një kohë kur njeriu ishte i ndershëm dhe punëtor,

Ishte koha e zërave nga prindërit dhe gjyshërit e mi

veprat e tyre ishin krenaria e fjalës

Ishte një kohë kur vetëm zëri ishte kënga

dhe krijoi vëllazëri zhanresh

Ishte një kohë kur gjithçka shkonte për muzikë dhe kërcim

Pastaj pata një ëndërr plot shpresë

Ku dëshira për të folur dhe për të kënduar ishte e madhe

Bashkë me jetën që ia vlente

së bashku me vëllezërit dhe motrën time

Kam ëndërruar që respekti nuk mund të vdiste kurrë

Kam ëndërruar të gjithë së bashku për të ndryshuar gjërat për mirë dhe e bëra

kur isha i ri, i patrembur dhe plot respekt

kur ëndrrat u krijuan, u përdorën dhe u shpërndanë në qiell, më kurorëzojnë

Nuk kishte asnjë shpërblim për t’u paguar, asnjë këngë të pakënduar

asnjë verë pa shije sepse u prodhuan jetë të ndershme

Por tigrat erdhën natën me zërat e tyre të fshehtë

ata larguan shpresën e ëndrrave të shpërndara, duke bërë që ato të bien

Ai eci pranë meje Ai ndau ditë iluzionesh vëllazërore

Ai mori nëpër këmbë në pranverën time

dhe ai iku, duke lënë një dimër të errët dhe me shi

Dhe ende ëndërroj që vera të vijë

dhe ne do të jetojmë për të mbjellë rrënjë së bashku dhe do të shohim të lulëzojnë fitimet e marra keq

Por ka ëndrra që nuk mund të parandalohen

Dhe ka stuhi që nuk mund t’i kalojmë

Unë kisha një ëndërr që jeta ime mund të ishte

kaq ndryshe nga ai dimër që ende nuk ka fund sot

Unë e përjetoj verën e re kaq ndryshe nga ajo që dukej dhe çfarë doja të ishte

Mbetet vetëm kënga që tregon ëndrrat që kam ëndërruar

Të gjithë ata që më vodhën

Pavarësisht kësaj, shifrat e asaj rinie mbeten të shpërndara

duke u përulur para këmbëve të armikut për t’i parë një ditë të gjithë të bashkuar në parajsë

por fatkeqësisht për para u hodh në treg edhe kjo ëndërr

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IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG  (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

IDIOSINCRASIA PER: ARBERIA, BORGO, SHESHI, BHËRLOCU, VANDERA E VALLJETË I SCANDERBEG (Dotë e frënònì o kamë mar gòbacènë!)

Posted on 30 agosto 2024 by admin

Ato

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando ci si appresta a restaurare monumenti l’unica prospettiva indispensabile dove incuria degrado o distruzione abbiano piegato la resilienza di un manufatto o del circoscritto, bisogna avvalersi delle raccomandazioni elencate nella “Carta di Atene dal 1931” dove si consiglia il rispetto dell’opera “storica ed artistica del passato”, senza proscrivere lo stile di alcuna epoca.

A tal fine dobbiamo sempre dire quello che guardiamo, ma cosa più essenziale, dire cosa vediamo; come i fatti, le cose con protagonisti i Katundë della regione storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë.

Nello specifico la tutela, diversamente come suggerito dalla carta di Atene, in tutte le ventuno macro aree della R.s.d.s.A., è iniziata male, proseguita peggio, terminata con l’operato degli “esposti”, tutto questo, ad oggi porta a ritenere sia improrogabile allestire una istituzione, che redarguisca, tutti i pretendenti dell’ormai, storico pellegrinare in cerca della discendenza più nobile o illustre.

Cadere in errore al giorno d’oggi e molto semplice, ma se a farlo sono quanti preposti al rispetto dei luoghi, sin anche nei confronti del più distratto o disinformato ascoltatore, si fa violenza non verso chi ascolta, ma si danneggia la prospettiva di questi luoghi, vissuti dai popoli più silenziosi, e più operosi del vecchio continente.

In tutto le persone che hanno versato lacrime di sangue, per far germogliare l’albero della propria identità, senza nulla scrivere o dipingere in alcuna superfice elevata per viverci segnando epoche.

Il fatto che la minoranza non abbia mai fatto uso alcun tipo di scrittura lettura, o grafici di memoria, non è un caso, infatti l’innocente discendenza, ascoltava e apprendeva il parlato dal solidissimo governo delle donne, lo stesso che ad oggi nessun ricercatore ha studiato compiutamente e, questo denota quanta poca esperienza o sperimentazione, sia stata diffusa per fare luce relativamente ai trascorsi di questi vissuti ambiti.

Un protocollo mai allestito da alcun istituto o istituzioni, i quali hanno operato con metodologie a dir poco inopportune e, vorrebbero aggiungere cose senza titolo, attingendo dagli esagerati modernismi Albanesi, terminando nella trincea linguistica, quando l’errore è palese, sin anche con lo scudo circolare, con incisa la frase: da noi si dice così; (nà thòmj këshëtù)

Nasce così l’idiosincrasia; ovvero, l’avversione, e la ripugnanza verso determinati temi, termini e oggetti, per lo più inesistenti, incoerenti, anzi a dir poco diagonali alle cose della R.s.d.s.A., sotto ogni pinto di vista.

Certo che definire la regione storica diffusa e sostenuta in Arbëreşë con l’inadatto, sostantivo “Arberia”, assume una visione geografica, a dir poco inopportuna, perché notoriamente gli addetti, per darsi una valenza di titolo mai avuto con merito, ma per copiature riportate secondo cui la minoranza provenire del sud della antica terra di origine.

Definendo così la provenienza della minoranza dal sud della antica terra di origine, in quanto qui secondo alcuni risiedeva la nobiltà culturale fatta di echi sopraggiunti dalla Grecia, ciò nonostante i protocolli della geografia storica, riconoscano, tale sostantivo, ovvero Arberia, le terre circoscritte del centro e del nord della antica terra di origine, oggi Albania.

Ciò nonostante, viene sottovalutato un dato fondamentale, ovvero, se una regione subisce le angherie di un instabile invasore, come è possibile che ad essere penalizzate o sottoposti a misure di sottomissione morale e religiosa, siano solo le popolazioni del sud e non uniformemente minacciate dell’intera nazione, che senso avrebbe e quale teoria privilegia alcune religioni, dato che di questo si trattava, infatti chi invade non rispettava niente e nessuno dove si trova o dove si colloca e con cosa?

Se il tema poi si espande alla definizione e il comune parlare dei centri abitati rielaborati ed elevati secondo le necessità tipiche degli arbëreşë, si apre infatti, una violenta tormenta di farina senza precedenti.

Diversamente dai valori sociali e formali contenuti negli innalzati e i sistemi abitativi, germanofoni o medioevali, dirsi vogli, ritenuti simili, uguali o equipollenti al modello di città aperta degli Arbëreşë.

Dato per certo che i Katundë, sono il modello innovativo che non ha eguali, e pur se i suoi innalzati nascono sei secoli orsono, possono essere considerati il germoglio delle odierne città metropolitane, infatti essi sono una rappresentazione di sistemi aperti di Iunctura urbana, dove, i quattro rioni tipici, rispettivamente: Karelletë, Chishia, Bregù e Sheshi; sono le tappe del percorso storico evolutivo di una radice, che si sviluppa e sostiene nel lungo tempo, in tutto, il solido fusto moderno da cui sono nati rami e fioriture consone.

Chiunque si appresta a recarsi per illustrare o presentare gli ambiti di un Katundë, appellando “Borgo Arbëreşë”, si trasforma in un viandante comune, senza meta specifica; come fanno quanti entrano in una chiesa e, invece di fare la croce, vi accedono rinnegando credenza, storia e luce.

Soto il puro aspetto Storico, Urbanistico e Architettonico, un Katundë e un Borgo sono antitetici e perfettamente contrari, perpendicolari diagonali, comunque mai paralleli:

  • Un Katundë, tradotto letteralmente, vuol dire luogo di confronto, lugo di movimento operoso: Ka e Tundë; esso rappresenta l’uguaglianza sociale senza vincoli di un determinato gruppo indigeno a cui gli Arbëreşë si affiancano, per la crescita del luogo e del suo agro. In tutto, forma urbana o patto di iunctura familiare solidale, priva di prevaricazioni, di genere o di gruppi organizzati e tutti uniti esprimono vicinanza solidale di un ben identificato luogo aperto e accogliente le cose dell’agro.
  • Il Borgo, diversamente, rappresenta l’espressione sociale, piramidale, la città chiusa avvolta su se sessa, non contempla uguaglianza di genere, perché piramidale società ellittica, con apposte mura, fossati acquitrinosi e, porte chiuse.

Di queste quatto colonne che fanno la trama storica evolutiva di un centro antico Arbëreşë, ovvero di un Katundë, si potrebbe allargare il tema e farla diventare una vera e propria diplomatica, per l’uso improprio che si fa nel divulgare i il sistema sociale distribuito nei rioni: “Sheshë in Arbëreşë”.

Il sostantivo comunemente è presentato come una piazzetta circolare allivellata, dove si aprono le poste di un numero imprecisato di ingressi privati delle storiche Kallive o Katoj.

Questa una visione a dir poco inopportuna, la cui radice nasce dai sessantottini, che leggevano i giornaletti di Capitan Miki o il Grande Blek, dove in genere le illustrazioni di questi suggeritori delle cose Americane, disegnavano le capanne degli indiani o gli scenari di immaginario, nello spazio circoscritto dalle capanne con pelli di bufalo.

Tornando alle cose, i fatti, i bisogni e le esigenze del vecchio continente, di cui noi Arbëreşë siamo parte essenziale dal nel XV secolo e, in questa breve diplomatica si cerca di essere professionisti maturi, non adolescenti in cerca di avventure di leggenda, specie sulla scorta di risorse pubbliche che non hanno riverbero e, non superarono il circoscritto della storica edicola di Nonino.

Per riparare a questa deformata storica, del protocollo Arbëreşë qui si vuole rendere chiaro, completo, indivisibile e indeformabile, il significato del sostantivo “Sheshë”.

Specie dopo quando esposto da quanti qui si sono recati a stendere themi di laurea, senza un relatore che avesse idea, della storica parlata della R.s.d.s.A. e, mi riferisco a quanto appreso ascoltando come si faceva un tempo, acquisendo fatti e cose dall’orecchio, e non leggendo confuse alfabetari o riversi vocabolari, con lo strumento occhio, l’antico metodo per divulgare sapere.

Per questo sia ben chiaro a tutti voi, viandanti distratti, compresi quanto non trovarono agio e notorietà, nelle frazioni di origine e, qui si sono insediati per fare danno, immaginando di avere gloria impossibile, a imitazione di quanti certi che il popolo fosse ignorante e sempre pronto a credere alle cose, diffuse con metodo dai regnati.

Lo “Sheshë” senza affanni non è; uno spiazzo dove affacciano un numero imprecisato delle porte di casa; in quanto la parola, di radice antica, vuole indicare un sistema di “Iunctura familiare solido e indivisibili” ogni volta che viene organizzato e sostenuto; esso si compone: di case che si sviluppano a ridosso di Rruhat articolate, su cui affacciano gli accessi di porte gemellate a finestrelle, (dal forte valore strategico) archi di misura e metrica, di luogo, Scalinate, vicoli ciechi e orti botanici, in tutto un componimento di sostenibilità e difesa senza mura perimetrali, se non quelle dei Katoj familiari sempre aperti.

Se il modello esposto vi dovesse creare pena linguistica, di titolo e merito, recatevi nei centri antichi di un Katundë della R.s.d.s.A., non da individui supponenti e imparati, ma attenti ascoltatori dello stridulo dei cinque sensi, che ognuno di noi possiede, ma mi raccomando non andate togati perché i cinque sensi non si attivano!

Adesso passiamo a un altro argomento ovvero, “I Musei”: essi iniziato ad essere articolati, con compilazioni di libero dire locale, senza avere una stratificazione che li leghi alla storia del luogo o della macro area relativa, specie nel percorso che univa casa e chiesa, per il proseguimento della specie Arbëreşë.

Il Costume in questi ambiti, diventa indispensabile protocollo, l’unico in grado di tracciare il percorso evolutivo della minoranza, anche se comunemente è stato sottoposto a studio per opera e misura di campanili, tutti articolati in funzione di manifestazioni utili a rendere primi, i dispensatori di turno, oggi di Calabria Citra, domani di quello Ultra e così via, via per decenni, senza mai smettere di vagare e rinforzare gli inutili principi, terminati nell’essere stai ospiti di biblioteche ora di Barcellona, domani di Parigi, dopodomani di Madrid, Valenzia e Monaco, Venezia, Firenze e così via sempre, ramenghi e fuori dal circoscritto del Collegio Corsini dove è nato.

È dalla fine degli anni settanta, del secolo scorso che in maniera a dir poco gratuita, raccogliere vesti, attrezzi e ogni sorta di elemento che vorrebbe fare memoria, in circoscritti di elevato impropri e, senza radice linguistica sono appellati “Musé”.

Una idiomatica deriva che calpesta il parlato Arbëreşë, lo stesso che vorrebbe fosse appellato con radice del parlato in: “Loku menditë”o “Ku mhbami mendë”.

Un sistema difforme, disarticolato o confusione che non fa certo museo antropologico, delle arti e del costume, quest’ultimo, nello specifico è, presentato in maniera a dir poco inopportuna, se non ridicola, esponendo in pubblica piazza la parte più intima della vestizione, assieme a quella più infima e vile indossato da qualche decennio come blasone nobile nel momento del “si” specie sull’altare, davanti al testimone celeste.

Il tutto con l’apposizione pubblica del primo concetto: Bhërlocunë, e il secondo atto Vàndèrenë, il tutto poi  contornato dal voler rendere la cosa, ancora più penosa, con la zògha a modo di ruota o di coda, nella pubblica via e, addirittura in chiesa sull’altare.

Il museo per gli addetti titolati della R.s.d.s.A. è considerato mera raccolta di elementi disarticolati, un’incompiuta di tempo fatti e cose, che diventano mercato domenicale o rionale li disposto, per attendere Kopizènë, e pronte ad essere frantumate e rese patrimonio senza sudore, per i raccoglitori di polvere locale.

Altro argomento di seminato fatuo sono le Inopportune, “Vallje di Scanderbeg”, infatti il soprannome, rievocando e sottolineando la sua appartenenza all’epoca mussulmana, non certo il tempo in cui fu eroe Arbëreşë, anche se comunemente in tutti i centri storici senza misura, si rievocano dal giorno del Termine di memoria e, in estate Arbëreşë queste esternazioni, sono e rappresentano la memoria del passaggio generazionale del parlato.

Intanto con la dicitura di “Vallje di Scanderbeg”, vorrebbero rievocare una giornata di memoria per una epica battaglia, che vide Giorgio Castriota sterminare gli avversari e, per le tante vittime stese inermi, conferma della vittoria, lui che all’epoca era un cristiano praticante, iniziava, con i suoi sottoposti a ballare e cantare, sopra le resta degli avversari inermi, che giacevano in quelle distesa, di corpi senza vita.

Certo che la formazione storica e culturale denota carenze non di poco conto, anche perché, solo quanti non adeguatamente formati ed attenti, promuovono queta figura con le effigi dei Turchi Selgiuchidi, e dei capostipiti Beg.

Di questo ci lasciava notizie anche Giovanni da Fiore, il quale, quando ebbe modo fare memoria, scriveva; Giorgio Castriota, comunemente appellato “Scanderbeg”.

E’ un altro segnale di memoria ereditiamo la toponomastica di Santa Sofia Terra, dove la strada che unisce l’antica chiesa Bizantina del IX secolo, con quella nata Latina del XVII secolo pota a memoria, “Via Castriota”.

Per concludere le “Vallje”, non sono altro che una prova generale dell’avvenuto lascito del parlato e, vuole essere confermato con Canti di genere e Movenze del corpo, per ricordare e sancire il passaggio tra generazioni; è questi non sono altro che i concetti basilari della storia delle comunicazioni.

Relativamente alle attività di memoria delle consuetudini la credenza, la lingua e il costume, si è sempre preso di mira attrezzi, costumi e null’altro al fine di musealizzarle, contornati dalle cose più inopportune e senza logica museale tra di esse.

L’inadeguatezza degli addetti poi ha fatto il resto, dal punto di vista del concetto Museo, verso il costume e gli attrezzi utili a delineare la risalita dell’economia, secondo i dettami dell’antropologia, ed è per questo che sono stati prodotti errori e manomissioni molto pericolose alla memoria dello storico protocollo, in essi racchiuso e, si come ricoperti di polvere e fluidi scuri, non sono oggi più leggibili nei loro contenuti di tempo.

Vedere ascoltare le attività antropologiche riassunte tutte, con le cose più comode e semplici e, interpretate, in maniera povera/semplice sono il percorso condiviso con i tempi e le pieghe della storia che non è mai stata tale, proscrivere il contenuto è nostro obbligo, perché è bastato essere muniti di una “Singer serie Sfinge del 1926”, quest’ultima la data baricentrica delle vesti femminili Arbëreşë che non vanno oltre il tempo della Sposa, la Regina del fuoco, la Vedova e  la Vedova incerta.

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BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË  (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

BORGO NON SONO ATENE NAPOLI MA ANCHE TUTTI I KATUNDË ARBËREŞË (Ghë Katundë ditë ritignë billjët me jakë thë mirë)

Posted on 14 agosto 2024 by admin

Sirena_partenope_post_2

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – I Katundë sono, centri antichi colmi di consuetudini, genio locale e sapienza, essi alimentarono, diedero agio e solidità sociale alla regione storica diffusa sostenuta in Arbëreşë:

La storia ne conta più di cento, tutti elevati secondo dinamiche in sintonia armonica delle salutari colline del sud Italia; qui formarono insieme di genio costruito e, assumendo il ruolo di culla d’idioma, credenza e consuetudini, indispensabili all’uguaglianza sociale dei generi che compongono questa popolazione furono preferiti ad altri.

In tutto luoghi di iunctura familiare, colmi di fascino, storia e parlato; tutti fondati, secondo i principi di genio parallelo, fraternamente immersi negli ambiti offerti dalla natura, la stessa che affascinata dalle gesta rispettose di queste genti, li accolse volutamente in ogni dove, senza mai interporre soluzioni di continuità estrema.

Crescere all’interno di un paese arbëreşë e come fare un lungo e benefico sogno, la differenza che distingue i fortunati al risveglio, sono i ricordi che rimangono impresse nella memoria del vissuto in questa parentesi benefica rigenerante.

L’enunciato vuole rendere merito al dato che non basta vivere e crescere in un ambito locale così antico, come i Katundë arbëreşë, per annodare pieghe sufficienti del modello consuetudinario più raffinato del mediterraneo, infatti tutti notoriamente sognano ma pochi ricordano, e sanno fare tesoro di questo ameno viaggio naturale.

Notoriamente ad occuparsi della tutela dei Katundë sono stati filologi, antropologi, storici di età antica medioevale e moderna, i sognatori prediletti di epoche, fatti e cose dei Katundë, peccato che di quei sogni non essendo parlanti, non hanno saputo partecipare e condividere cose con glia attori principali e al risvegli appellarli impropriamente borghi, o terminare che tutto l’apparato storico di genio di cui sono stati inermi spettatori, si possa risolvere, nell’aver individuato una lingua altra per appellarla Arberia, che è puro astrattismo mentale e neanche principio o fine di un sogno.

Notoriamente l’etnologia è una disciplina che vorrebbe comprendere le singole società, i loro modelli di vita e di pensiero, per poi, mettere a confronto le varie società facendo emergere somiglianze e differenze.

Ma da questo arrivare all’enunciato che le cose del passato, siccome vetuste, non hanno senso e vanno dismesse, è una pena che non ha un termine di decenza

Se poi il campo lo allarghiamo sull’insegnamento per le nuove generazioni locali parlando e trattando l’argomento come una lingua diversa, perché più moderna o al passo con i tempi, si cade nel campo dell’astratto e precipitiamo in un dirupo nero che non trova memoria in nessun ragionevole sogno.

Infatti non si tratta di offrire solo ed esclusivamente regole, costruzioni e quindi non è solo uno strumento linguistico che non trova una radice plausibile verso chi lo deve apprendere ed applicare.

Vero è che una persona che possiede uno strumento linguistico deve anche poterlo contestualizzare e riconoscere in quello specifico luogo di sogno.

Il dato nasce dal fatto che una lingua e una cultura si influenzano vicendevolmente, perché e lo strumento naturale e sonoro usato da un popolo per rappresentare se stesso, quindi dietro c’è una cultura di riverbero locale, che fa da cassa armonica a tale strumento.

Si può anche dire che non esiste o non si parla di cultura senza considerare lo strumento linguistico e viene descritta attraverso quest’ultimo.

Possiamo affermare scientificamente che esiste un binomio lingua-cultura secondo il quale ci sono delle forti relazioni che regolano questi due elementi che si influenzano vicendevolmente, legati in modo inscindibile proprio per la natura del rapporto locale sempre vivo.

Questa breve trattazione vuole sottoporre all’attenzione della numerosa platea di trattatisti storici costumisti, clerici che dicono di aver saputo sognare cose in Arbëreşë.

Perché come sottolineato da principio sopra citato, non tutti al risveglio ricordano e sanno interpretare il vissuto in sogno, a tale scopo e bene ricordare loro che esistono sognatori di pensiero più titolati e meno influenzabili al risveglio in queste culle arbëresşë.

Dove sagge madri, le stesse che storicamente fecero e sostenevano il governo delle donne sapevano, come depositare i figli stanchi e farli addormentare in quelle culle di legno che ondeggiando al ritmo di quelle nenie, cantate con raffinate melodie vocali, aprivano gli scenari di sogno dei bambini buoni, gli stessi che poi adulti lì in quei manufatti, violati dai non sognatori, i quali dopo decenni non vedono e non sentono depositato il cuore dei buoni sognatori.

La mia culla dondolava facilmente e non cigolava, non aveva difetti di sorta era una fortezza aperta dove solo le mani sapienti di una madre del governo delle donne, potevano accedervi con delicatezza e amore verso il figlio, mai nessuno ha violato la culla, anche se non aveva mura ed era sollevata come un Katundë su una collina.

Per questo nessun bambino di buoni sogni, ha mai sognato o pensato di considerare il luogo del sogno, alla pari di un borgo, in quanto lo hanno sempre considerato, come un luogo sacro puro, religioso, come lo sono l’acropoli di Atene per Atena, Partenope con Napoli, o Roma per i due figli adagiati, vicino al fiume dove sognare.

Per concludere e terminare con un forte sogno di credenza va ribadito come ogni Katundë come la “Terre di Sofia” sono luoghi che nascono con un riferimento primo di credenza e, non sono luoghi atei come lo furono quelli senza sogno, denominati Borgo.

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LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

LA RESILIENZA DELL’ARTICOLO NOVE DELLA COSTITUZIONE NON È CONTEMPLATA NELLA 482/99 (La ruggine resta e traccia le cose) (trje, gjaştë e phsè jò nëndë)

Posted on 11 agosto 2024 by admin

BanskiNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Leggendo trattazioni, principi, concetti e componimenti che compilano la legge a titolo, va rilevato un dato inconfutabile, ovvero, se il legislatore ha dedicato tempo, impegno e spesa per tutelare le minoranze storiche del Italia intera, nell’atto legislativo di inseguire questi esempi di integrazione mediterranea, non si comprende come sia stato possibile smarrire la rotta dei contenuti essenziali.

A ben leggere interpretare e “tradurre” l’adempimento a tutela, emerge palesemente il valore del mero parlato, anche se questo tema fondamentale non si specifica con dovizia di particolari quale debba essere e, di quale espressione si debba fare tesoro.

Nello specifico, leggendo Art. 2, in attuazione dell’articolo 6 della Costituzione, va in favore del parlato delle popolazioni Albanesi, Catalane, Germaniche, Greche, Slovene e Croate e di quelle parlanti il Francese, il franco-provenzale, il Friulano, il Ladino, l’Occitano e il Sardo.

Entrare nel merito della filiera linguistica qui solamente citata per grandi linee, è impresa ardua, se non impossibile, ma considerato l’esempio primo di questo elenco; tema studio di questa diplomatica, si deduce che nei Katundë che identificano la Regione Storica diffusa e sostenuta dagli Arbëreşë, dopo oltre seicento anni di patimenti consuetudinari e della validissima partecipazione all’unità d’Italia, si dovrebbe tutelare la moderna Albanese, che ai quei tempi non era ancora costituita, visto che gli approdati di quella disopra balcanica parlano l’Arbëreşë.

Da ciò si deduce che i parlanti della lingua antica, per legge, e secondo le direttive della 482/99 dovrebbero utilizzare e promuovere a loro favore la lingua Albanese che è moderna ed è di uno stato che in quell’epoca non era ancora stato concepito.

A questo punto è utile fare un parallelismo più chiaro, semplice e intuitivo, svelando ogni sorta di dubbio del legiferato de 99, che a ragion veduta per noi Arbëreşë, storicamente non è un numero che porta bene, infatti riporta orecchio e memoria ad atti non proprio nobili, indirizzati verso le nostre genti.

Appare comunque evidente non chiara e limpida la direttiva espressa verso le genti Arbëreşë, a cui s’impone di eliminare tutti gli adempimenti di lingua antica, per quella moderna dello stato Albanese.

E volendo fare un parallelismo, con la lingua Italiana e quella di radice Latina, si chiede, anzi si legifera che tutto deve essere cancellato per valorizzare l’Italiano moderno e, della sua radice Latina nulla ha più senso e vada cestinato, per meglio dire dimenticato.

La legge così scritta è un propositivo che non ha eguali e, neanche la fonderia più tecnologica, dell’età moderna, riuscirebbe a trafilare, un metallo idoneo a sopportare una resilienza così violenta, dannosa o distruttiva, dirsi voglia.

Stiamo parlando della lingua indo europea tra le più antiche del vecchio continente, essa si sostiene con la metrica del canto, non contempla alcun tipo di scrittura e, a fare da padrone non è l’occhio umano che legge, ma l’orecchi che registra nella mente, qui per non dimenticare, si sostiene l’uso della rima e incide ogni cosa utilizzando sin anche i movimenti del corpo del parlante.

A modesto avviso, non essendo lo scrivente legislatore ma tecnico parlante l’Arbëreşë assiduo, preciso e senza sfumature di sorta, per questo sostiene che la legge nel suo specifico sviluppo applicativo, manca dell’articolo nove della costituzione e, sarebbe stato solo grazie ad esso, che avrebbe potuto risolvere ed evitare tutte le angherie che la minoranza subisce dal 1999, e questo solo a sentimento di memoria.

Ed è da questa data che, senza soluzione di continuità non si riesce ad arginare nulla se non peggiorare le cose, diffuse dagli inopportuni adempimenti di metodo o enunciati, preposti per la tutela, gli stessi, siccome allestiti ad est, remano solo verso una parte del fiume adriatico che vuole emergere in Europa.

Esempio sono e restano le perdite delle macroaree italiane e da un po’ di tempo a questa parte, sin anche le donazioni che provengono dagli ambiti dove il sole e la luna sorge, come se per secoli, non sia mai terminata, l’epica battagli iniziata il giorno di sant’Antonio del 1389 e mai terminata seguendo imperterrite forme di dominazione per i sopravvissuti e le discendenze ancora libere da quella velatura immaginata.

Va in oltre diffondendosi la massima espressione storico culturale, di alcune figure secondarie del XIX secolo, lasciando nell’oblio le eccellenze nate e vissute ancor prima, le stesse che hanno piantato radici per germogliare impulso linguistico, sociale, economico e culturale, lo stesso estesosi in tutto il continente antico, per avvolgere anche i novi ancora in fasce.

Le leggi e le cose che si occupano di territorio, uomini, storia e natura vanno studiate e progettate con parsimonia e dedizione e non con le volontà dell’epoca che scorre, invitando al capezzale figure di esempio culturale, riuniti apposite camere multidisciplinari.

Conferma di un esempio moderno sono le prospettive proposte da Adriano Olivetti, sia nello studio realizzato per rispondere alle nuove prospettive di vita, per quanti vivevano alla fine degli anni cinquanta, nelle abitazioni estrattive dei Sassi di Matera.

Nove relazioni multi disciplinari che hanno fatto la radice del progetto architettonico finale, capace di rispondere con educazione alle esigenze di quegli indigeni locali, che a quell’epoca erano, che manifestavano la classe operaia in paradiso, mentre a Matera vivevano un inferno umido e senza fuoco.

Una manchevolezza vergognosa della politica italica, che in ritardo si rendeva conto di quella realtà, non al passo con i tempi che volevano tutti i cittadini con pari dignità sociale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

Sempre Adriano Olivetti nelle prospettive moderne dell’industria verde proponeva a Pozzuoli, in provincia di Napoli, un modello nuovo per quanti lavorano e operano nell’industria, la stessa che oggi è diventato esempio di lavoro green nel mondo e a quel tempo correva il 1954.

Oggi percorrendo quei luoghi di Iunctura familiare allargata, Arbëreşë, bisogna attraversarli con le orecchie tappate e gli occhi chiusi, onde evitare l’ascolto e le visioni a dir poco inopportune e colme di sentimenti svuotati, perché proveniente da est.

Immaginando nella mente e nel proprio cuore il riverberarsi delle antiche melodie di genere materno, che qui avevano luogo, quelle stesse che secondo l’elevato sonoro delle sorelle di governo, risvegliano antichi enunciati di operosità condivisa, in ogni dove negli e senza sosta condotti.

Come non ricordare i lunghi pomeriggi davanti al camino, ad ascoltare favole e ironici versi, come dimenticare gli odori che preparavano, taralli, docci, conserve o gli insaccati suini, in continuo progredire, a cadenza mensile per il pane, annuale del suino e stagionale per i conservati e succulente prelibatezze delle occasioni importanti.

Quanto erano buoni quei pani a dimensione di adolescente, che le nostre genitrici faceva, quale premio per essere stati cauti e buoni nel tempo della panificazione, come non ricordare la colazione per la campagna che non è un italianismo ma un spagnoleggiante sostantivo a memoria delle province della Mursia, che nei tempi degli aragonesi, si diffuse anche nei paesi arbëreşë “mursiellë”, da Mursia, una provincia ispanica del mediterraneo da cui provenivano le capre dei paesi albanofoni della preSila calabrese.

Una razza singolare perché oltre a figliare, assicuravano latte per nove mesi/anno, alimento fondamentale per lo sviluppo e la crescita di noi bambini.

Dalle stesse province si possono estrarre, secondo la striscia mediterranea vernacolare del costruito storico, colori, odori, convivenze e necessità identiche, riverbero che va dalla punta più estrema del portogallo sin dove termina il territorio della Grecia antica.

Sono tante le cose che qui si potrebbero citare, ma visti gli atteggiamenti storici rivolti allo scrivente, si ritiene che solo chi volge rispetto culturale, potrà avere visione di un numero indefinito di componimenti storici certificati e validati dal mondo Arbëreşë, ovvero trascorsi della Regione Storica Sostenuta da queste caparbie genti, distinguendo ben ventidue macro aree di specie, idoneamente circoscritte e nominate con opportuni storici sostantivi di luogo.

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LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

LA FORESTA DEL NON VISSUTO AVVOLGE LA REGIONE STORICA DIFFUSA E SOSTENIUTA DAGLI ARBËREŞË (La prima lettera scritta da Banski; E parà kartë i scrùiturë ka Banski)

Posted on 10 agosto 2024 by admin

112388676NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per raccontare raffigurare o tracciare momenti epici di un determinato luogo, bisogna averli vissuto o almeno, partecipare o essere parte attiva nei momenti topici, di un ben determinato ambito, altrimenti si compromette definitivamente la memoria, oggi condotta in malo modo in quella identificata Terra a termine.

Cosi come depositare effigi di ironica memoria moderna, senza senso, e privi dei minimali principi di educazione, la stessa che finisce per violentare pesantemente quei luoghi dove la storia, più sanguinaria ha avuto luogo, facendo cosi piangere lacrime di sangue, alle madri lì in preghiera perenne.

La memoria storica locale, come sempre avviene quando ad essere coinvolte sono le alte sfere, riporta sempre alla insignificante domestica Bertina, ma tutti noi che conosciamo la storia sappiamo bene che essa fu solo un capo espiatore, della plebe a cui addossare la violenta piega storica.

Purtroppo, al giorno d’oggi essere “Bertinë” è diventata un adempimento di quanti siedono negli scanni decisionali, al maschile e al femminile, definendo così da qualche anno a questa parte, anche percorsi di termine storico senza precedenti.

In tutto una raffigurazione trasversale, alle ironie coerenti di Banksy e, purtroppo, in questa foresta di incoscienza storica, violentano prospettive, offendono personaggi e devastano figure locali, le stesse che dettero la vita, per una giusta e idonea dignità locale, mai allo stato delle cose raggiunta.

Oggi per vedere “Bertina” con i suoi panni o stracci dirsi vogli basta attendere una qualsiasi manifestazione ed essa appare sottoforma di sposa senza marito, Cattedratico senza un palco, banditore senza offerte, viandante senza meta e tutto questo accade perché le istituzioni della nostra Terra, siccome poco attente o maliziosamente hanno taciuto le cose della storia, hanno dato luogo a mendaci ed ingrate osservazioni di alcuni stranieri, provenienti dalle ische.

Questi ultimi da diversi anzi troppi decenni, fuggendo le nebbie, le miserie, e le turbolenze delle loro contrade umide, non han potuto altrove trovare agio, sanità, quiete e, sotto il nostro amenissimo clima con la protezione di neri locali, che non sono fra le migliori che onorano il loco Terra.

Sono tutti pronti a compromettere il decoro della nostra ingiustamente malmenata patria e, allo stato delle cose si rende necessario un libro che in forma di manuale ne metta con chiara parsimonia in vedute e trattazioni, lo stato fisico e morale, di questi gloriosi ambiti della nostra storia.

Il fine vuole che anche uno svagato lettore che voglia solo deliziarsi di materia, prospettive e curiosità, sia costretto, suo malgrado, a conoscere la parte morale e trovare nello stesso tempo quelle notizie che in una terra, come quella di Sofia, rendono facile l’acquisto di tutte le comodità che fan la vita dilettevole.

Se tale scopo giunge a conseguirsi col presente lavoro, sia giudice il pubblico imparziale che sino ad oggi non sa ancora leggere e collocare le cose della propria storia, nel più idoneo e giusto solco per germogliare storia vera e non racconto o tradimento come era uso fare “Bertina”.

Oggi quante vestono bambine con la prova di gravidanza appesa al collo in abiti da sposa, ballano sostenendo la ruota o la coda, ancheggiano, ruotano in non rispetto del consorte, tengono il giacchino clerico lontano dal seno, sollevano le braccia al cielo, traducono tutto con l’essere, diventare e fare la “Bertina”.

In tutto la rappresentazione più degenere possibile mai in nessuna epoca immaginata, infatti se lei “Bertina” tradì il Vescovo in quel vicolo prima del granaio, aveva a suo favore l’attenuante che non conoscesse le cose, chi va con stoglie per tradire se stessa e la sua discendenza tutta, non ha attenuanti perché da decenni sono redarguite e invitate alla ragione, nell’indossare quel protocollo di vestizione.

A tal fine va ribadito un principio sacro che fa parte del protocollo del progettare, specie nei luoghi antichi e colmi di storia come lo sono le strade, i vichi le porte gli archi i vicoli ciechi e le pertinenze botaniche in Terra di Sofia, se a questo associamo il dato che l’arte vive dove difende da sola e, non certo esponendola alle intemperie di levante e quelle di ponente le più infime.

Ma se si dovesse, per ovvi motivi, ignorare questa norma di protocollo e di buon gusto, sarebbe prima il caso di fare approfondita ricerca storica, di quel luogo specifico, definendo cosa rappresenta per le genti di quel luogo e poi operare con sentimenti di rispetto, tenendo di quali coloriture possano maritarsi con le prospettive impegnate, con messaggio nel pieno rispetto di centro antico.

Se non si fa questa fondamentale attività di ricerca in anteprima e, come svegliarsi la mattina ignorare i propri genitori, che si avviano e rendono possibile la tua esistenza di civile convivenza locale.

Le apparizioni figurative all’interno del centro antico, devono essere discrete e rivolte sempre verso un emblema di credenza, altrimenti finiscono di essere deriva culturale senza alcuna attinenza locale sia verso le consuetudini e sia verso la credenza, per questo destinate ad essere terminate, dal tempo e dalla natura, specie se allocate nei centri antichi di Iunctura familiare Arbëreşë.

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STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

STELLA IRREQUIETA (ylljsbendë)

Posted on 04 agosto 2024 by admin

main-qimg-99abd66f0513b5a4a2fb61ad89268d4b-lqNAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Quando le scelte di convivenza comune, non hanno forza e radici per segnare lo svolgersi della vita, in armonia con i tempi del vivere civile, questi, sono contraddistinti con appellativo di Gjitonë irrequieto.

Il senso di questo sostantivo in lingua Arbëreşë noto per la crusca letterale in: Sbèndë, se poi a fare il disturbatore di riverberi continuati e progressivi, nella quiete e i tempi del vivere civile che alimentano studio, sapienza e buon gusto, si antepone l’appellativo Yllj, ovvero Stella.

L’insieme così viene composto in “Stella inquieta”, (ylljsbendë), in tutto, discolo senza educazione, rispetto e regole, verso il prossimo, i saggi, e quanti si prodigano per lo studio al fine di tracciare storia vera.

A ben vedere e dopo aver ascoltato in diversi appuntamenti in presenza e documenti le esternazioni che da diversi decenni sono poste in essere dal dilagare di queste “Stelle inquiete”, (ylljsbendë), le stesse che, invece di fermarli, trovano agio, dalle istituzioni che godono con il moltiplicarsi di questi inopportune stelle disturbatrici.

Allo stato delle cose si può rilevare ch,e un numero consistente di progetti utili solo a deturpare i centri antichi, sono divenuti la deriva più  crescente, dopo quella degli anni settanta che sostituiva orizzontamenti varchi, porte e finestre, nella totale assenza delle istituzioni o dipartimenti preposti, i quali, invece di correre ai ripari, voltavano le spalle al violare questi luoghi e addirittura elogiando gli operatori, che in qualche caso di incoscienza estrema rimasero sepolti.

Ormai la dispersione culturale ha raggiunto e superato ogni limite di decenza, in tutto vengono citati e ricordati, fatti secondari e sin anche i protagonisti primi, sono preferiti ai comuni viandanti, che per la loro natura lasciva si facevano trascinare dalle correnti in atto, nei frangenti storici più significativi, per la tutela e la salvaguardia della memoria locale.

Esistono momenti storici, che superano lo scorrere modesto di un Katundë Arbëreşë, sono questi intervalli fortemente pregnanti, che vanno ricordati come memoria storica e, assieme ad assi le figure che li determinano, li alimentano con ragione, sentimenti e garbo.

Si potrebbero citare tanti episodi, relativi alla continuità storica di radice locale, del centro antico denominato “Terre di Sofia” e, sicuramente non mancheranno episodi, in continua produzione di buoni propositi con senso di radice locale.

Qui saranno rievocati luoghi fatti e figure locali, che hanno dato avvio alla Primavera Italo Albanese, nota come ottava di Sant’Atanasio, il gruppo in vestizione da sposa e da festa, e la nascita delle sonorità Belliniane che dalle processioni di “Terre” le stesse che sono diventate melodie diffuse in tutto il meridione italiano.

Progetti immaginati e posti in essere dall’operato del trittico culturale locale, noto con l’acronimo di: T.A.G., storiche figure che dagli anni cinquanta del secolo scorso, alimentarono o meglio fornirono i mezzi necessarie e complessi per valorizzare e sostenere lo scorrere del tempo in continuità di ragione, con consuetudini e atti di ragione sociale insostituibili.

Tuttavia, siamo in pochi a ricordare, come si svolsero i fatti che portarono il piccolo Katundë a non perdere i valori della retta a impronta di storica rievocazione, con rispetto dei nostri avi.

Come possiamo no ricordare Temisto, Angelo e Giovanni, i costituenti che trasformarono, tre suonatori storici, in trentatré maestri di melodie irripetibili, senza dimenticare, il dato che, ispirati dalle melodie canore, di Adelina, Ginevra e Maria, affiancate dalle storiche assonanze di genere maschili di Celestino, Orlando e Antonio, realizzarono con senso genio locale, il primo gruppo folcloristico in Terre di Sofia, del quale nessuno riconosce, luoghi cose e nascita.

Non da meno sempre gli stessi T.A.G. in collaborazione con il Fondo Ambiente Italia, inghisarono le reali radici delle Valljie, riportate nei discorsi storici di Pasquale Baffi, nella famosa ottava di Sant’Atanasio, notoriamente diffusa come “Verà Arbëreşë”.

Sono numerose le cose e le figure che hanno reso il piccolo centro Arbëreşë, famoso in tutte le macroaree di simili radici, tuttavia gli eletti locali di turno da troppo tempo ignorano questi fatti e tutte le cose prodotte nella più solida continuità storica locale, preferendo fatti secondari che non portano o forniscono alcun episodio della forte identità locale che da tropo tempo viene lasciata poltrire nell’ombra anche se degli antichi gelsi, ormai non restano che pochi rami cadenti che non fanno più ombra, alle figure moderne locali che sono Nemo Propheta in Patria.

Quando queste “Stelle inquiete”, la smetteranno di fare danno e spariranno dalla portata della vista, la voce, gli odori e daranno spazio ai prediletti Nemo Propheta in Patria, che finalmente siederanno dove gli compete e, potranno diffonderanno la più idonea crusca Arbëreşë, che ormai è indispensabile al nuovo tempo che scorre e non si è mai fermato con l’essenza storica del genio locale, quello buono naturalmente.

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UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

UN ARBËREŞË NON LEGGERE NON SCRIVE PERCHÈ RICORDA E RIMA (ghjieghëni Shanasin parë sat gàpni sitë e bëni mbëkàtë)

Posted on 02 luglio 2024 by admin

GenerazioniNAPOLI (Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Per millenni gli Arbëreşë hanno trasmesso le proprie conoscenze con il solo strumento della voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca, titolando il corpo umano e gli atti naturali per il suo sostentamento.

I generi che ancor oggi come un tempo hanno quale consuetudine primaria la cultura orale, senza alcun adempimento scritto grafico, non possiedono ne documenti, e ne grafiti di memoria, ma ha solo le cose locali riferite in base ai trascorsi storici e di quelli portati nel cuore e nella mente dalle terre prime parallela.

Essi sanno solo ciò che ricordano e per ricordare hanno bisogno di formule come ausili mnemonici, per questo ancora oggi in epoca globale hanno una relazione stretta con le paro­le profondamente diversa rispetto agli altri generi che fanno uso di sperimentazioni nuove.

Resta il dato fondamentale, ovvero, che un Arbëreşë usa l’apparato uditivo per ascoltare e non quello visivo per leggere. Tra i suoi sensi l’orecchio sarà quello considerato più importante, perché esso vive all’interno di una cultura in cui non esistono né testi scritti a mano né stampe o grafiti di memoria che non fanno parte del protocollo, infatti, il sapere è organizzato in modo tale da poter essere facilmente mandato a memoria.

In questa cultura del parlato, ogni cosa si traduce la conoscenza in pensiero o memoria dirsi voglia, espressa ciclicamente all’interno di moduli bilanciati di specifici contenuti ritmici e, per questo, deve strutturarsi in ripeti­zioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espres­sioni formulaiche, in tutto, temi semplici in forma di proverbi costantemente uditi e rammentati con facilità da una generazione all’altra.

Essi così diventano contenuto formu­lato e ritmico per un facile apprendimento e ricordo, in altre for­me a funzione mnemonica, di pensiero intrecciato ai sistemi di memoria, che determinano anche l’unità del significato.

Nelle culture orali primarie, dunque, i pensieri devono essere espressi in versi o in una prosa ritmica, in quanto il ritmo aiuta la memoria anche da un punto di vista fisiologico, determinando l’unitario legame fra ritmi orali, un insieme fatto di pro­cesso respiratorio, i gesti della simmetria del corpo uma­no nelle antiche parafrasi aramaiche, greche e dell’ebraico.

Si racconta che questa usanza è stata utilizzata in tutte le antiche civiltà del vecchio continente, conoscessero a memoria nella loro interezza.

Tutte queste civiltà come gli Arbëreşë fanno ancora oggi passa­no la vita «ruminando», meditando cioè in continuazione, brani, ma tali incredibili performance mnemonica resta possibile anche dal fatto che i testi sacri si ripetono nei perimetri di credenza e sino a pochi decenni addietro come da secoli in esclusiva forma orale.

Chi di noi non ricorda i nostri genitori frequentatori assidui delle chiese Bizantine rispondere al parroco con rime ritmiche in lingua Greca conoscendone il solo esclusivo valore di credenza.

Tutto diventava un racconto ritmato, strutturato in modo da essere facilmen­te memorizzabile e, questa caratteristica si sono perdute con le traduzioni nelle lingue moderne a seguito delle disposizioni Vaticane degli anni settanta.

Nelle culture orali primarie il sapere finisce con l’essere trasmes­so attraverso formule, frasi fatte, proverbi, massime, in breve fi­nisce con l’essere un sapere veicolato in espressioni verbali es­senziali o, per meglio dire, quinte essenziali.

Frasi, proverbi e mas­sime del tipo «Rosso di sera bel tempo si spera», «Divide et im­pera», «Sbagliare è umano perdonare è divino», «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio», «Buona è la mestizia più del riso, perché un triste aspetto fa buono il cuore», tutte queste e molte altre in Arbëreşë sono facilmente reperi­bili nei racconti o il fraseggiare delle Gjitonie, in tutto gli ambiti vissuti dove la memoria non termina mai, perché ambito di cultura orale dove nulla si propone come occasione, ma radice del consuetudinario locale più intimo che forma sostanza di pensiero, per il quale diventa ogni cosa pensiero mnemonico, poiché la radice che segna e da tempo al parlato ereditato.

Nelle culture orali primordiali, la memoria occupa un ruo­lo centrale tra i poteri della mente e le persone più sapienti sono quelle che posseggono una memoria solida.

La memoria diventa il custode dell’intero sapere che è sempre espresso in massime formulaiche, del resto, in una cultura orale pensare, in termini non formulaici, non mnemonici, se anche fosse possibile, sarebbe una perdita di tempo, poiché il pensiero, una volta formulato, non potrebbe più essere ricordato e sarebbe perciò conoscenza duratura, ma pensiero fuggevole.

Per questo chi nasce Arbëreşë allena la mente ad essere memoria solida un insieme di Iunctura, come lo sono le strade i vichi, porte, vicoli stretti e articolati dove l’accoglienza del viandante vale se si lega al patto di fratellanza e accoglienza.

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ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

ERA LA PRIMA DOMENICA DI ESTATE QUANDO SI MARITARONO IL CANTO ARBËREŞË E LA MUSICA LOCALE

Posted on 26 giugno 2024 by admin

011NAPOLI (di Atanasio Pizzi Architetto Basile) – Storicamente gli arbëreşë hanno sempre affidato la loro metrica per la continuità del proprio idioma, allo strumento voce e, le informazioni passavano di bocca in bocca con il tempo del lento camminare.

una cultura a oralità primaria usa ripetere a voce alta per evitare che le parole svaniscano presto e, devono investire molta energia nel ripetere più volte ciò che è stato faticosamente appreso nel corso tempo.

Questa esigenza crea una mentalità altamente tradizionalista e conservatrice che, a ragion veduta, inibisce la sperimentazione intellettuale.

La conoscenza e preziosa ed è arduo raggiungerla, per cui la società tiene in gran conside­razione i vecchi saggi che si specializzano nel conservarla, perché co­noscono e possono raccontare le storie dei giorni che furono.

Tutto questo avviene rimando e creando ironici concetti, che aiutano la memoria a ripeterli quando ancora la musica non faceva parte di queste società antiche dove la parola rappresentava ogni cosa per confrontarsi.

Questo in tutto non sono altro che le vituperate Vallje, le quali nel corso dell’era moderna sono intese o paragonate a cose senza alcuna forma storica che dia senso ai contenuti conservativi del parlato Arbëreşë.

Infatti esse non sono altro che canti o rime di genere, tra gruppi di uomini e gruppi di donne, nelle lunghe giornate sia nei tempi di andata, che di ritorno dal duro lavoro agreste.

In altre parole non sono altro che rime ironiche, colme di significato che, a primavera diventavano momento di conviviale condivisione con indigeni, lì dove tutti assieme accorrevano a esibire la propria fonia.

Il pensiero dei processi comunicativi delle culture orali è caratterizzato da uno stile paratattico, cioè da una costruzione del periodo fondato sulla coordinazione di corpo e voce.

Questi raffinati atti di memoria erano per pochi specia­listi, tuttavia altri mezzi di più fa­cile uso comune erano utilizzate in queste società a cultura orale come ad esempio quella arbëreşë, dove il contenitore verbale ritmico e formulaico prende piede.

In breve, avevano scoperto la poesia e di essa ne avevano fatto uno strumento essen­zialmente funzionale alla conservazione e alla trasmissione delle conoscenze, da una generazione all’altra all’intero del proprio sapere.

In particolare, le società a cultura orale come gli arbëreşë, sono riusciti a conservare una memoria sociale collettiva associando poesia, musica e danza.

Nella civiltà moderna si verifica o meglio si applica tutto ciò con i testi delle canzoni e, nel caso specifico delle Vallje, a cui seguono storicamente, dal 1765 con le carmina conviviali, o festeggiamenti di integrazione, intercettati dal grande esperto di lingue latine e greche, P. Baffi, secondo cui la primavera degli Arbëreşë, da luogo allo storico matrimonio, la cui fioritura ha generato i variegati modi di riverberare canto e musica.

Sancito il matrimonio storico tra musica e canto, ha avuto inizio una stagione, che ormai si ripete come quelle della natura e senza soluzione di continuità, unisce ogni anno, come tutte le cose fatte dagli uomini comuni, Generi, Katundë, Macro aree e Nazioni.

Tutto ebbe inizio con rime semplici e ripetitive le stesse nate sotto il governo delle donne, queste tutte attente a seminare nella parlata dei propri figli, non rime scritte e lette grazie alla vista offerta dagli occhi, ma poesie ripetute e acquisite dall’orecchio che armonizza il corpo.

Era la fine degli anni cinquanta del secolo scorso quando T. Miracco, G. Capparelli e A. Bugliari, nel leggere il discorso degli albanesi, quello edito da Masci e scritto da P. Baffi con il dicta che quella edizione “non era quella errata del1807 per colpa delle stampe di Gutenberg, fu allora che si ebbe consapevolezza che la tradizione andava svelata e resa pubblica con la storica “ Vèra i Arbëreşë” Estate degli Arbëreşë, con espressioni canore musicate da strumenti a percussione fiato e mantice.

In Terra di Sofia nasceva così il “Festival della Canzone Arbëreşë”, ufficializzando il matrimonio tra il “Cantato Storico degli esuli e la Musica Indigeni”.

Quel concetto che negli anni trenta del XIX secolo, l’editore di Barile, Vincenzo Torelli privilegiava a favore del Canto, innescando le ire dei maestri che in quei tempi venivano a Napoli per esprimere arte musicale nell’edificato del teatro San Carlo.

Il primo matrimonio tra musica e canto nasce proprio in quell’arco di cerchio a modo di Teatro, che divide il paese In terra di Sofia in parte di sopra e parte di sotto, “duellarti e dreshimì” l’unione ideale tra Storia Arbëreşë, con la parte Indigena Locale.

E qui che tutti assieme senza mai stancarsi si ritrovano gruppi di cantori musicati; e da sopra il palco esprimono il meglio di loro in conformità con lo scorrere del tempo, senza mai dimenticare le sonorità antiche, così come ereditate del governo delle donne Arbëreşë.

Lo stesso che oggi è diventato un vero e proprio festival dove ogni anno a vincere sono sempre di più le nuove generazioni che alzano e riverberano una lingua antichissima, secondo i ritmi che al tempo serve per sostenere la Regione Storica diffusa in Arbëreşë nella sua interezza.

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