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ARCHIVI ARBËR IN PATINA DI CALCE, SULLA FUMIGINE DEI KATOJ DEL TEMPO CORTO (Këlkera te shëpiat me kamënua dimëri)

Posted on 16 aprile 2022 by admin

Cenere

NAPOLI (di Atanasio Pizzi Basile) – Il rapporto tra ambiente naturale e quello costruito denota le emergenze evidenti, nell’accostarsi alle pietre angolari degli elevati murari, è qui che subito si colgono elementi fondamentali, della storia della minoranza Arbër a ovest del fiume Adriatico.

La rappresentazione dei piani orizzontali, verticali e inclinati, sono gli elementi finiti in grado di restituire quando realizzato nel confronto idiomatico locale, specie per quanti cercano un rapporto paritario con la natura degli ambiti paralleli dei paesi arbër.

Questi momenti di ascolto sono uniti dal comune confronto in lingua non scritta, piano razionale di “oggetti” e rappresentazione delle cose, le uniche in grado di fornire sul piano interpretativo, un linguaggio non scritto, tramandato oralmente dalle generazioni, perché genio locale.

Il risultato finale è il frutto di una serie di estratti intimi, riferiti a precisi macrosistemi connessi, diventando traccia maggioritaria o archivio a cielo aperto per le informazioni contenute.

La rimanente parte, la minoritaria, di solito riferisce di mere informazioni catastali, estratti del grande serbatoio, il costruito, questo, conservandole saldamente, evita fuoriuscite, in forma liquida o di vapori labili, che potrebbero contaminare l’ambiente urbano.

Pertanto la rappresentazione grafica dei dati ricavati, l’analisi tipologica e morfologica, concorre, a formulare il racconto dei rapporti esistenti tra il vuoto urbano e la rappresentazione formale del costruito.

La cultura storia di quest’ultimo, consente di indagare oltre i fatti tecnici come prospetti, sezioni, planimetrie, che interessano, relativamente quanti non sono tecnici e non si occupano di definire categorie culturali collettive, non generiche, ma fatti empirici senza legame con il territorio, la natura e gli uomini.

Questo modo di procedere indagando le cose tecniche riesce, a tradurre anche il silenzioso linguaggio della tessitura in pietra, mattoni, archi, vuoti, modanature e portali, nel processo di trasformazio­ne dell’architettura dei paesi della regione storica, dal primo insediamento estrattivo al successivo arrivato sino a oggi in forma additiva.

Luoghi silenziosi che non sono mai stati ascoltati, pur se fortemente disturbati dalle variabili tecnologiche, le stesse, che specie dal dopo guerra a oggi, le hanno stravolte, lasciando al muto destino, solo quanto conservato come reperto archeologico o forme violate da depositate in museo.

Di fronte a questi piccoli manufatti della storia, si coglie un silenzio ancora più austero, nei piccoli e stretti vicoli articolati della storia degli uomini arbër, che non hanno lasciato spazio al veicolare rumoroso, gli stessi che terminando per collegare frettolosamente, un posto a un altro senza storia sociale in aggiunta.

Da tutto ciò, il bisogno di sviluppare un lavoro sistematico sull’abitazione dei paesi di radice arbër, grazie anche a una carriera professionale dedita al rilievo, sia di edifici storici e sia di quelli minori, per catalogare ambiti e adibirli ad uso pubblico e privato, nelle regioni di Campania, Calabria, Puglia Basilicata, Lazio  e Molise.

L’operato eseguito con tale metrica, è stato portato avanti con la memoria sempre presente delle origini dello scrivente, impegno morale preso con un noto dirigente dipartimentale della Sapienza di Roma, il quale la sera del 17 Gennaio del 1977, augurava ogni bene per il percorso universitario in architettura intrapreso, aggiungendo: finalmente avremo chi potrà raccontarci anche di architettura in Arbër.

Da allora, l’esperienza acquisita nel definire la rappresentazione grafica dei fabbricati, la ricerca tipologica dei moduli abitativi e le conseguenze mutazioni di crescita e la conseguenza organizzativa degli isolati, ha avuto come mira finale, la promessa fatta nella piazza storica del mio paese.

Un “voluminoso patrimonio formativo fatto di pietre e di vuoti”, in altre parole, architettura fatta di sensi, evoluzione urbana, che prende forma non nel tempo di una stagione, ma dal XIV al XVIII secolo, disponendosi lungo gli articolati vicoli, degli sheshi, dove i primi attori restano sempre: le pietre, i vuoti e la toponomastica identificativa, in tutto il luogo dei cinque sensi che ti riporta nella casa dei tuoi familiari.

Analizzare i rioni storici e confrontare le cellule di base, i Katoj, del centro antico, hanno consentito di determinare un adeguato traccia­to evolutivo dell’originario modulo abitativo.

Questa prima parte, nei luoghi della storia e della memoria, ha fornito elementi univoci per definire “le forme dello spazio dettate dal genio locale” poi l’esperienza e la dovizia di particolari, ha consentito di rilevare e trasportare su piani bidimensionali il rappresentato.

È chiaro che tutto questo non è avvenuto per una mera presa visione fotografica e metrica dei luoghi, ma ha avuto inizio, secondo un protocollo rigido dove a essere protagonista di prima linea, non è stata la sola esperienza del saper rilevare, ma la conoscenza dell’idioma, delle consuetudini e l’essere abituato ad avvertire quando un luogo libera “le sensazioni dei cinque sensi degli Arbër” cosi come qui di seguito si farà accenno.

Quando nei paesi Arbër iniziava l’estate, le regine del fuoco e della casa imbiancavano con la calce l’interno dei Katoj, specie quelli rimasti ancora modesti, per coprire il fumo prodotto dal camino dell’inverno appena terminato.

Le regine, davanti al proprio uscio, si adoperavano a miscelare acqua e calce, a seguito di ciò, con la scopa, fatta di rami di erica coprivano il grigiore dell’inverno appiccicato sulle pareti e le superfici di copertura dell’intero ambiente casa.

A rituale terminato, tutto diventava bianco, garantendo più luce, ai compiti e le attività intense dell’estate e lente dell’inverno.

Se entrate in una di queste case, rimaste ancora intatte, potreste cogliere il senso delle cose dei trascorsi locali, estrapolando un frammento di superficie, fatto di strati di fumigine e calce, le pagine e i veli delle stagioni arbën trascorse.

È chiaro che a sfogliarle e leggere è una sensazione che solo chi conosce le consuetudini vissute e svoltesi all’interno della casa, (Shëpia) può avvertire, specie se nati e cresciuti, in quello di rilievo o altri equipollenti.

Ascoltare il riecheggiare delle vicende che hanno accompagnato la regina del fuoco e i suoi familiari per progredire, lo si trova nel fotografare la cenere la polvere depositata in tutti quegli attrezzi dell’epoca, proto industriale, quando le fabbriche non esistevano e i prodotti conservieri si facevano in casa con poche cose.

Sono ancora numerose le abitazioni rimaste come se il tempo non sia trascorso dal dì in cui furono abbandonate e pur se malconce, se vi capitasse di dovervi entrare, potrete avvertire le cose del tempo che nessuno conosce e solo voi potrete rievocare, se sapete come si facevano.

Queste in genere sono abitazioni poste a piano terra, monocellulari, o a due livelli, comunque la parte che suggella un preciso periodo della storia dei centri antichi arbër.

L’involucro abitativo traccia un periodo storico ben definito e solo chi vi è cresciuto, può comprendere le cose passate, di come sono diventate nel presente e quanto serve per prevenire i fatti e le cose nel futuro.

Oggi la rincorsa al Toson d’Oro per curare ogni mancanza di memoria e dare continuità storica a eventi che non hanno senso, è il mestiere di tutti perché frutto di favole senza senso, utili a forviare i sogni e la realtà delle nuove generazioni.

È facile ritrovarsi e parla in numeri di migrazioni, come facevano gli scolaretti impreparati, il giorno dell’interrogazione, segnando gli appunti sui palmi delle mani e siccome, sistematicamente erano cancellati dal sudore, non sapendo che riferire nel momento del bisogno, si articolavano le dita contandole e fare colpo sulla platea scolastica ignara, aggiungendo I° – II° – III° – IV° – V° – VI° –  ecc., ecc., ecc.,  più il sostantivo, “migrazioni”.

A tal proposito è bene precisare che la migrazione storica, che ha definito l’insediarsi degli arbër, secondo quando sancito e inciso su pietra Arbër, è una sola.

Essa va dal 1469 e termina nel 1502, le altre sono episodi alternativi, finalizzati, per altre cose, o progetti che non hanno nulla a che fare con la storia dei cento Katundë della Regione storica diffusa Arbër,

Quest’ultima nel corso della storia ha perso il senso in alcune macro aree, lasciando per questo isolato un solo centro abitato in forma di frazione o Katundë, come nel tarantino, in Campania e in altre province dell’antico Regno di Napoli.

Per quanto attiene agli enunciati disparati di migrazione e di difesa della radice arbër, è tutto da rifare; lo si potrebbe eseguire nel tempo di una “stagione lunga”, tuttavia quanti per decenni hanno confuso l’impegno materno di Irina Castriota con quella della solida madre Arianiti Comneno, non vogliono sentir ragioni.

In oltre dopo aver fissare le linee guida delle 482 senza l’ausilio dell’art. “Nove”  non sono disposti a partecipare, visti gli innumerevoli enunciati fuori metrica, in forma di costruito e di molto altro ancora, specie dove un tempo correva l’antico acquitrino di reflui nel casale di Terra, oggi divenuta la vergogna culturale di quella capitale, che diede i natali all’indirizzo della storia arbër.

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